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Il personaggio non conclude

Questa via “catartica” intrapresa da Moscarda incontra inesorabilmente un incidente; esso si verifica per volontà di Anna Rosa, un’amica della moglie del protagonista, la quale aveva seguito con grande interesse tutti i monologhi interiori di Moscarda sulla vita, sulla scissione e sulla mutevolezza dell’essere umano, verso i quali lei sentiva «un’invincibile attrazione e insieme una specie di ribrezzo197». Dopo questo incidente in cui Anna Rosa ferisce Moscarda, il

giudice cerca di capirne il motivo, cosa l’avesse spinta verso quell’azione, ma Moscarda prova a dissuaderlo:

Ah signor giudice […] non è possibile, creda, ch’io gliele ripeta […] Ma se io gliele ripetessi, signor giudice, ho gran paura che lei non ucciderebbe più me, ma se stesso, per il rimorso d’avere per tanti anni esercitato codesto ufficio […] Lei l’ha incanalata (la coscienza) bene nei suoi affetti, nei doveri che s’è imposti, nelle abitudini che s’è tracciate; ma poi vengono i momenti di piena, signor giudice, e la fiumana straripa e sconvolge tutto. Io lo so. Tutto sommerso, per me, signor giudice!198

Questo discorso di Moscarda è interessante poiché mostra che la coscienza dei “molteplici sé” è talmente sconvolgente che può condurre alla destabilizzazione (come il caso di Moscarda) o ad azioni pericolose (come è avvenuto in Maria Rosa). Se in Pereira, come detto in precedenza, questo percorso è apparentemente innocuo, con una conseguenza al più positiva, nel romanzo pirandelliano c’è la volontà finale di chi ha compiuto questo percorso di preservare terze persone, per gli eventuali drammi che una tale conoscenza può comportare. E’ interessante confrontare i finali dei due romanzi; se in Pereira si è letto di una nuova coscienza che induce il protagonista a denunciare le malefatte di un sistema politico totalitario ed oppressivo di António de Oliveira Salazar (1889-1970), in Moscarda c’è una chiusura nell'evitare di allarmare ulteriori persone nel risvegliare una coscienza dentro sé. Esiste una chiave di lettura secondo la quale, a mio avviso, entrambi i                                                                                                                

197 LUIGI PIRANDELLO, Uno nessuno e centomila, op. cit., p. 133. 198 Ivi, pp. 135- 136.

romanzi lasciano prospettare un finale “positivo” per i due protagonisti: Pereira appare nato a nuova vita, con una nuova identità (si pensi al passaporto di François Baudin), in fuga dal proprio Paese nel quale vige la dittatura, ma con la probabile prospettiva di esercitare il proprio mestiere di giornalista in un altrove non precisato. Moscarda199 invece, sebbene abbia rifiutato una prosperità a cui sembrava destinato, vive come altri mendicanti nell’ospizio da lui fondato, e questo avvenimento può essere considerato come volontà di vivere il sociale, simile a quella di Pereira, anche se con prospettive diverse (cioè di denuncia). Moscarda si presenta nell’aula di tribunale (si pensi al «tribunale della letteratura» tabucchiano) «sbarbuto e sorridente, con gli zoccoli e il camiciotto turchino200», dunque in abiti dismessi. Ed è questo ciò a cui lo ha condotto il suo percorso; sarebbe stato destinato a vivere una vita serena, se solo non si fosse posto troppi interrogativi, così come Pereira non fosse dovuto emigrare dal suo Paese; come scrive il critico letterario Elio Gioanola sul finale del romanzo pirandelliano: «E’ la trasformazione della follia in saggezza, col recupero laico della santa follia francescana201». I due protagonisti appaiono infatti essere coscienti dei loro gesti, dando al lettore un messaggio di speranza, come leggiamo nelle parole di Moscarda:

Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude […] Muojo ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori202.

Un finale aperto che instaura dubbi circa il futuro dei due protagonisti, in un continuo dialogo col lettore che emerge dai continui «Signori miei, belli miei, cari miei» presenti lungo tutta la narrazione pirandelliana. Allo stesso modo del finale tabucchiano in cui resta un interrogativo senza risposta, cioè che fine ha fatto il giudizio di Pereira; probabilmente si è trasformato in certezza, forse                                                                                                                

199 Come afferma già Pancrazi: «attraverso questi abissi di riflessione Moscarda approda in un contemplativo ospizio campestre, felice (assicura lui)» in PIETRO PANCRAZI, L’altro

Pirandello, in Ragguagli di Parnaso. Dal Carducci agli scrittori d’oggi, col. II, Milano-

Napoli, Ricciardi, 1967, p. 238. 200 Ivi, p. 139.

201 ELIO GIOANOLA, Pirandello e la follia, op. cit. p. 110. 202 Ivi, p. 139-140.

Pereira ha cominciato ad affermare e affermarsi come creatura e, in questo processo, il narratore non può più seguirlo.

3.

3.1

Cronistoria della figura intellettuale

Nel corso di questo capitolo sarà analizzata la “figura civile” di Antonio Tabucchi, l’impegno della sua narrativa, il suo giornalismo di denuncia sociale, le sue inchieste. Per fare ciò mi è sembrato doveroso elaborare un quadro storico e metodologico che mirasse a tracciare delle linee guida sul ruolo dell'intellettuale nella società contemporanea dentro il quale l'autore toscano si è mosso. Nella prima parte elaboro dunque un breve excursus dell'intellettuale e del significato che ha assunto nei secoli scorsi, che è stato allo stesso tempo una costruzione di senso (e di classe) e allo stesso tempo distruzione di essa non essendo auspicabile, per molti autori che si analizzeranno nel corso del presente capitolo, la creazione di una categoria “intellettuale”.

Il termine intellettuale infatti, ripreso dal tardo latino intellectualis, è stato coniato agli albori del XIX secolo, riprendendo il processo di produzione e diffusione del sapere affermato durante l’Illuminismo. Sebbene si cominci a parlare al plurale di uomini di cultura già nella Russia del secondo Ottocento, si fa risalire il nome in Francia al movimento che Georges Clemenceau (1841- 1929) ed Émile Zola (1840-1902) aizzarono nel riunire le élites più colte in difesa dell’ufficiale Alfred Dreyfus (1859-1935), accusato di spionaggio in favore dell’Impero tedesco. Dopo la pubblicazione della Lettre à la jeunesse e la Lettre à la France, Zola pubblica il 13 gennaio 1898 su «L’Aurore» la celebre Lettre à M. Félix Faure, Président de la République e, a sua difesa, gli uomini colti uscivano dai loro rispettivi ambiti specifici per riunirsi in una categoria e difendere le posizioni dello scrittore francese. Sebbene nel suo

J’accuse non fosse presente, il termine “intellettuale” cominciò ad indicare,

dopo quella pubblicazione, l’insieme di letterati, romanzieri, scienziati che, in nome della ragione, si propongono di essere portavoce della nazione, di interpretare i sentimenti del popolo, di canalizzare il suo stato d’animo; come scrivono Pascal Ory e Jean François Sirinelli: «L'affaire Dreyfus n'est pas seulement le moment où se baptise la notion. Elle est aussi, en elle-même, un

exemple achevé de controverse entre intellectuels203». Questi uomini cominciavano così a riunirsi e ad esprimere, in modo più o meno unanime, la loro voce, ad essere più vigili sulla realtà circostante e «puisque l’écrivain n’a aucun moyen de s’évader – scrive Jean-Paul Charles Aymard Sartre (1905- 1980) – nous voulons qu’il embrasse étroitement son époque204». In questo modo le persone più colte hanno fatto leva sull’emancipazione culturale per alimentare le ansie e le paure nelle classi meno emancipate, così da gestirle e indirizzarle verso una legittimazione del proprio ruolo di guida all’interno della società. Scrive a tal proposito l’antropologo americano Paul Radin (1883- 1959):

The religious formulator developed the theory that everything of value [...] was surrounded and immersed in danger; that these dangers could be overcome only in a specific fashion and according to a prescription devised and perfected by him205.

Il «pensatore religioso», inteso qui nell’accezione odierna di intellettuale, si ritrova a ricoprire la carica di guida delle persone che lavorano manualmente; e queste ultime consapevolizzano il loro bisogno di ricevere assistenza morale e intellettuale dai primi. I pensatori diventano così dei modelli di cui coloro che lavorano manualmente hanno bisogno, delle icone che si imprimono nell’immaginario di questi ultimi e che sono destinati a percepirli come modello irraggiungibile per superiorità morale ed intellettuale. Numerose possono essere le definizioni dell’intellettuale, ma ciò che c’è in comune fra loro è che tutte sono autodefinizioni dalle quali Tabucchi, come si vedrà nei paragrafi successivi, cercherà di rifuggire. Sebbene da sempre sia esistita una parte della società che si ergeva al di sopra delle altre per classe sociale, per educazione, per emancipazione culturale, tale rapporto diventa emblematico durante la Rivoluzione Francese. I philosophes, infatti, erano visti in quegli                                                                                                                

203 PASCAL ORY, JEAN FRANÇOIS SIRINELLI, Les intellectuels en France, de l'Affaire

Dreyfus à nos jours, Paris, Colin, p. 13.

204 JEAN-PAUL SARTRE, Présentation des Temps Modernes, (ora in JEAN-PAUL SARTRE,

Situations II), Paris, Gallimard, 1948, pp. 12-13.

205 PAUL RADIN, Primitive Religion: its Nature and Origin, New York, Viking Press, 1937, p. 25.

anni come un gruppo piuttosto coeso, e da questo momento in poi sembra affermarsi il loro interesse verso il peuple, il volgo, talvolta col fine di educarlo, altre col fine di canalizzare le loro pulsioni verso l’ordine e la disciplina, per mantenerli sotto il loro controllo. L’idea di educazione che si sviluppa in Francia in quel periodo, vede i legislatori costruire un sistema educativo che possa formare (bildung) le coscienze della loro nazione, secondo una cieca fiducia nella missione educativa, ben espressa nello slogan di Claude-Adrien Helvétius (1715-1761) secondo cui «l’éducation peut tout». Un altro aspetto da ricordare è che in quegli anni e in quelli che immediatamente seguirono la Rivoluzione, esiste uno stretto legame fra i philosophes, dunque i pensatori e operatori culturali, e i detentori del Potere. Questa alleanza, se da un lato consentiva agli uomini di cultura di educare il popolo, dall’altro era un tentativo di controllarlo, per ricondurre al rigore le pulsioni che troppo spesso lo conducevano ad opporsi agli uomini di potere, particolarmente in quegli anni di numerose agitazioni sociali. Ciononostante molti di questi pensatori erano convinti della necessità di creare un sistema educativo affidabile, o meglio di civilisation, da parte degli uomini di scienza e di lettere nei confronti degli uomini di "azione"; ed è probabilmente da questo periodo che un simile credo comincia a diffondersi in tutto l’Occidente. Sin dalla nascita, l’Illuminismo è stato criticato da molte persone le quali credevano che la cieca fiducia nella Ragione non potesse migliorare le condizioni di vita delle masse. Questi attacchi provenivano in primis da accademici e uomini religiosi, poiché la razionalità avrebbe distrutto il bisogno delle persone di legarsi a un’entità superiore, o ad una tradizione, creando così un vuoto spirituale ed emotivo. Sempre secondo questi critici, questo senso di smarrimento è ciò che ha condotto le masse a un’esplosione di instabilità, di incertezza, aspetto che si riscontra anche nella società contemporanea e che ha condotto le persone ad assumere posizioni critiche nei riguardi dell’Illuminismo; scrive a tal proposito Frank Furedi (1947- ): «La disillusione circa le promesse dell’Illuminismo ha ridimensionato la fiducia pubblica nella capacità della società di conoscere,

comprendere e infine controllare il futuro206». La società così percepisce le scoperte scientifiche e tecnologiche non più come un’opportunità, bensì come minaccia che destabilizza l’equilibrio, creando così ansia e disorientamento. Questo senso di smarrimento proviene dalla sensazione che concetti illuministici come “verità universale” e “conoscenza globale” sono impossibili da raggiungere, pertanto si assiste, nella società odierna, ad una creazione di microsaperi, di competenze specialistiche, a scapito del Sapere universale. Smarrendo la sua utilità per la società, il Sapere diventa sempre meno dominio del pubblico, e viene relegato nelle mani dello specialista, dell’accademico, dell’esperto, e questi a loro volta sempre meno tendono a coinvolgere persone esterne nel loro campo disciplinare, creando così una distanza tra loro ed altri specialisti, e a loro volta con il resto della società. Negli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione Francese gli uomini di cultura, oltre che stringere accordi con il Potere, si celebrarono come portavoce della Verità (con tutto il populismo che l’eco della Rivoluzione si trascinava dietro). Questi uomini inoltre cercarono di far passare le conquiste ottenute da parte dell’intero popolo come loro successi; era dunque giunto il momento, per loro, di chiedere qualcosa in cambio, sia al popolo che ai legislatori. A tale fine nacque nel 1795

l’Institut National per affermare con maggior vigore le richieste dei philosophes, principalmente nei confronti del Potere; ciò che dopo l’esperienza

della Rivoluzione chiedevano era l’affermazione di un primato delle idee e della Ragione nella costruzione della nuova società. Implicitamente, ciò che stavano reclamando, era la guida del Paese poiché erano convinti che soltanto gli uomini dotati di riconosciute qualità intellettuali potessero creare una società veramente giusta e di valore. In qualche modo, le richieste dell’Institut

National sono analoghe a quelle avanzate ne La Repubblica (390-360 a. C.) di

Platone (428-427 a. C. - 348-347 a. C.), o ancora all’episodio della Casa di

Salomone all’interno de La Nuova Atlantide (1627), in cui Sir Francis Bacon

(1561- 1626) descrive utopisticamente una società governata da saggi.                                                                                                                

206 FRANK FUREDI, Che fine hanno fatto gli intellettuali? (tit. orig. Where have all the

Ciò che si può evincere da questi paralleli è che in ogni epoca è esistita l’idea secondo la quale la società, per essere davvero giusta, necessita di essere governata da uomini di indubbie qualità morali e intellettuali, che possano da un lato interpretare i desideri, le passioni, i bisogni dei cittadini, dall’altro controllare le pulsioni irrazionali e il malessere delle fasce insoddisfatte della società. In quegli anni le fasce più istruite della popolazione cominciavano a rendersi conto che gli sforzi, esercitati in nome dell’affermazione della Ragione nella società civile, erano valsi a ben poco; la visione della Storia come affermazione della Ragione, dei Lumi, tardava ad arrivare e molti cominciarono a domandarsi se fosse mai stato possibile che ciò si verificasse. Se l’età moderna veniva definita come l’affermazione della Razionalità, con il passare dei secoli la visione da parte delle stesse élites colte riguardo alla loro epoca veniva modificandosi, e non in un’ottica di progresso. Particolarmente sul finire del XIX secolo questa ipotesi diventò sempre più remota, e nessun uomo di cultura sembrò più scommettere su una capillare diffusione dei Lumi all’interno della società, sia nei posti di comando che come portavoce della società civile. Così, gradualmente, gli intellettuali persero il ruolo che storicamente era proprio, cioè quello di legislatori o almeno quello di guida, consiglieri del legislatore, segnando quel passaggio che Zygmunt Bauman (1925- ) nel suo saggio Legislators and interpreters207 li vede assumere un

ruolo passivo di «interpreti» della società. Se esisteva un campo in cui gli intellettuali potessero continuare ad esercitare in maniera indiscussa il loro predominio, quello era il settore dell’estetica, nonostante l’età moderna vedesse il sorgere di una nuova classe sociale che si interessava ad essa: la borghesia che, potendosi permettere grossi quantitativi di danaro, utilizza nuove capacità di giudizio e di valore di un’opera, mettendo in discussione le vecchie autorità culturali. La nascita e l’affermazione di questa nuova classe sociale determina così una nuova forma di giudizio (rispetto al precedente monopolio critico intellettualistico) e di valore dell’opera intellettuale, tanto da far perdere il                                                                                                                

207 ZIGMUNT BAUMAN, La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a interpreti, (traduzione italiana di Guido Franzinetti), Torino, Bollati Boringhieri Editore, 2007.

controllo alle forze storiche che precedentemente distinguevano fra il vero ed il falso, il bello ed il brutto, il bene ed il male. Si assiste così ad una graduale affermazione del mercato che, autonominandosi come unica autorità in grado di decidere il “valore” della cultura in base ai parametri di profitto e ricavo, relegò gli intellettuali al mondo dell’alta cultura, verso la quale sempre meno persone mostravano interesse. Si arriva così alla querelle contemporanea fra alta cultura e cultura di massa: la prima, gestita dai discendenti dei

philosophes, dunque da coloro che strenuamente esercitavano i loro ultimi

tentativi nel difendere una presunta superiorità intellettuale e la seconda, la massa, che si affacciava per la prima volta su un panorama culturale, reclamando una propria libertà di scelta e di gusto, attirando le ire del primo gruppo. Questa querelle pare sia gradualmente scomparsa dai dibattiti culturali, a vantaggio del secondo gruppo; infatti sembra che il mondo dell’alta cultura abbia accettato che il suo ruolo sia prevalentemente inutile in una società dei consumi dove, al più, può essere richiesto un suo parere su un “prodotto culturale”.

Uno degli aspetti più interessanti che si sviluppa nel ventesimo secolo è proprio l’incontro tra una parte di questa “massa amorfa” (particolarmente quella degli operai), e una parte degli intellettuali che Tabucchi cerca sovente di mettere in scena. La vera novità di questo rapporto consiste nel fatto che gli operai fossero un’entità nuova che si affacciava violentemente e con molte rivendicazioni all’interno del dibattito sociale, sostenuti dalla classe intellettuale208. Questa nuova forza veniva vista con grande interesse da parte degli intellettuali, i quali vedevano in essa la più nuova e combattiva arma per riaffermare il loro ruolo all’interno della società. Gli operai, dalla loro parte, non avevano l’istruzione e la cultura necessarie per affermare la loro volontà e una voce per reclamare i propri diritti. Così le due entità collaborarono sempre                                                                                                                

208 Nel suo celebre saggio Benda scrive che gli intellettuali si rivolgevano, parallelamente, sia alla classe operaia che a quella borghese, che incita: «Organizzatevi, diventate i più forti, impadronitevi del potere o cercate di conservarlo se lo avete già; infischiatevene che nei vostri rapporti con la classe avversaria prevalga un po’ più di carità, un po’ più di giustizia o altre balle» in JULIEN BENDA, Il tradimento dei chierici (ed. orig. La trahison des clercs, 1927), Torino, Einaudi, 2012, p. 150.

più a stretto contatto, con memorabili esempi come quelli degli anni ’70, sia in Italia che all’estero, cercando un punto di incontro nelle lotte di classe, contro il Potere. Questo legame si è poi affievolito sul finire del secolo scorso per diverse ragioni. La principale è che il numero degli operai, di persone che svolgono lavori manuali all’interno delle fabbriche, è notevolmente diminuito, a vantaggio dei meccanismi di automazione che rendono i processi produttivi più snelli, più economici e meno variabili alle pretese dei lavoratori. Appare così, nella società contemporanea, che dopo secoli di lotte siano trascorsi inutilmente, e il lavoratore sempre meno reclama migliori condizioni per sé e per la sua classe. Il dialogo così aperto con l’intellettuale sembra essere temporaneamente, se non definitivamente interrotto, e viene relegato nuovamente al ruolo di «interprete» della società. Difatti il suo ruolo di mediatore tra capi d’industria e classe operaia è stato spesso attaccato, poiché accusato di aver troppo spesso difeso gli interessi della finanza. Un aspetto interessante nel rapporto tra classe operaia e intellettuale sono le lotte che i primi hanno condotto nell’ottenimento del diritto di sciopero gradualmente garantito dai vari Stati; questa concessione è stata raggiunta per evitare che gli operai utilizzassero strumenti violenti nell’affermazione dei propri diritti. In quest’ottica va analizzata la moderazione che gli intellettuali hanno posto nel dibattito tra datore di lavoro e classe operaia. Scrive a tale proposito Walter Benjamin (1892-1940): «La classe operaia organizzata è oggi, accanto agli Stati, il solo soggetto giuridico a cui spetti un diritto alla violenza. Contro questa tesi si può certamente obbiettare che un’omissione di azioni, un non- agire, come in un’ultima istanza è lo sciopero, non può essere definito una violenza209». Gli intellettuali sono stati pertanto accusati di aver attutito le tensioni tra le due parti, nell’intento manifesto di evitare violenti scontri, finendo (più o meno volontariamente) per privilegiare lo status quo e garantire la supremazia dei capi d’industria, mostrando alla classe operaia gli svantaggi che potrebbero derivare da una soluzione violenta. Ma, suggerisce ancora

                                                                                                               

Benjamin, che l’affermazione di ogni tipo di diritto passa attraverso il ricorso alla violenza e, rifacendosi alla tesi di Erich Unger (1887-1950), scrive:

il compromesso, benché ripudi ogni violenza aperta, è pur sempre un prodotto