• Non ci sono risultati.

4. Lo spazio rientra in gioco

4.2 L’approccio areale: luoghi e quartieri

Neighbourhood Studies

Tutta una tradizione dell’approccio spazialista è quella che fa riferimento ai neighbourhood studies dove con il termine neighbourhood mantenuto volutamente in inglese si fa riferimento sia al concetto di ‘vicinato’, inteso come comunità locale, sia al concetto più spaziale di ‘quartiere’. Tosi (2001) ripercorre con estrema chiarezza le teorie urbane che hanno riguardato il quartiere dalla fine del secolo XIX fino ai giorni nostri. Quello che è emerge è una continua oscillazione tra la costruzione dell’unità neighbourhood in termini spaziali (dunque fisici e demografici) e la sua costruzione in termini sociali (relazioni tra gli abitanti e processo di identificazione degli stessi con il quartiere).

La posizione sociologica classica è basata su di una coincidenza tra quartiere e comunità che si regge su tre presupposti: la comunità è un luogo di integrazione e solidarietà, il locale è l’ambito delle relazioni personali, la prossimità è fondamentale per costruire relazioni comunitarie e personali. A partire da queste convinzioni nasce la preoccupazione che l’avvento della modernità, dell’industrializzazione e dell’urbanesimo possa disgregare le unità locali e portare dunque al declino della comunità.

Anche la Scuola di Chicago (per una trattazione sulla Scuola di Chicago vedi Torres, 1996) professa una sovrapposizione tra quartiere e comunità, tant’è che la città è vista come un mosaico di gruppi culturalmente ed etnicamente differenziati e spazialmente caratterizzati: delle “aree naturali” coese al loro interno, le cui caratteristiche fisico-spaziali sono determinanti nella caratterizzare tali sotto- comunità urbane. La Scuola di Chicago pone le basi per concetti fondamentali che vengono poi ripresi nello studio delle comunità etniche quale ad esempio il concetto di segregazione per l’appunto applicato alla scala delle aree di cui si compone il mosaico urbano, e i concetti di competizione e successione, originariamente sempre riferiti ai quartieri.

Un altro filone spazialista della sociologia è quello delle analisi di società locali, dove le società non vengono più fatte coincidere acriticamente con lo spazio della nazione, ma vengono studiate quelle collettività o comunità che hanno una base territoriale (Mela, 2006). Questi approcci, definiti anche “studi di comunità”, hanno un carattere prevalentemente empirico e derivano dagli studi di comunità dell’antropologia classica che però venivano applicati a contesti non occidentali.

Semi (2007 a) critica la tendenza di trasporre gli studi di comunità dell’antropologia tradizionale, caratterizzati dallo studio di comunità dell’ ‘altrove’, a contesti urbani occidentali. L’assunto alla base di tale trasposizione sta nella costruzione di oggetti di ricerca che condividono uno spazio geografico ed una cultura o etnia. Al di là dell’ambiguità del termine etnia, usato prevalentemente come sinonimo di ‘comunità altra’ in contrapposizione alla ‘nostra’, quello che Semi pone all’attenzione critica è la tendenza alla spazializzazione delle comunità etniche in ambito occidentale. Quest’operazione sembra infatti il frutto della trasposizione della logica della ricerca antropologica degli esordi alle nostre società. Se le ragioni vere di una tale operazione possono essere rintracciate in un esigenza pratica - è più facile controllare le forme spaziali contigue, delimitate da confini piuttosto che quelle discontinue nel tempo e nello spazio (rizoma, rete, cyberspazio); il rischio è poi quello di “dare molto potere ai luoghi come se avessero un potere di definizione dei confini di un gruppo” (p. 53).

Inoltre l’assunto insulare arriva spesso a conclusioni banali. “Quello che serve sono lavori empirici che sappiano articolare con precisione e capacità immaginativa il legame tra l’isola e l’arcipelago circostante. Quello che però è forse più rilevante è lasciare aperta la porta alla possibilità che non si tratti propriamente di isole” (p.55).

L’urbanistica ‘comunitaria’ e del place making32

Anche le discipline più propriamente spaziali come la pianificazione urbana e l’urban design hanno al loro interno delle tradizioni che associano spazi (quartieri, villaggi urbani, new towns) a comunità ma in senso progettuale. L’idea di fondo è che spazi ben progettati facilitino lo sviluppo delle relazioni sociali e comunitarie, un’idea che può essere riassunta con il concetto di “place making” l’arte di costruire luoghi. Luogo rispetto a spazio assume qui una connotazione importante. La

32

Queste riflessioni si trovano in parte anche nel paper non pubblicato “Dall’urban design alla rivitalizzazione dei quartieri storici degradati: quando la retorica del placemaking si confronta con il disagio sociale” scritto nell’ambito del modulo formativo tenuto dal prof. Giorgio Piccinato al corso di dottorato in Politiche Territoriali e Progetto Locale, Università Roma Tre.

necessità di affermare l’importanza del ‘luogo’ nasce in risposta ad una società sempre più caratterizzata dall’ ‘assenza di luogo’: come afferma Relph nel suo “Place and Placelessness” (1976, p. ii) sembra poco realistico investigare il luogo (place) senza considerare il suo opposto (placelessness), inteso come il proliferare di spazi standardizzati, privi di significato, alimentati da processi tipici della globalizzazione, della società mobile e della cultura di massa (Carmona et al. 2003).

Una prima tradizione urbanistica che potremmo definire “comunitaria” è quella che può essere attribuita ad urbanisti come Howard, Unwin e Mumford e che ha prodotto le tipologie progettuali della città giardino e delle new towns britanniche. L’ideologia alla base è sempre quella di contrastare la dissoluzione della comunità a cui sembra portare l’industrializzazione e la città moderna. Per fare ciò si caldeggia una pianificazione alla cui base è proprio l’organizzazione per quartieri, i quali sono un mezzo per rafforzare la coesione del gruppo locale.

A partire dagli anni ’60 negli Stati Uniti troviamo invece una corrente dell’urban design che può essere individuata come quella dell’usi sociali degli spazi33. Questi urban designers americani sostengono la vitalità, la complessità e l’intensità dei quartieri tradizionali della città americana (Beacon Hill a Boston, il Greenwich Village di New York) in opposizione agli spazi senza luogo creati dall’urbanistica moderna. Tra loro troviamo ad esempio Christopher Alexander che promuove la costruzione di luoghi attraverso “The timeless way of building” (Alexander, 1979), Jane Jacobs che condanna la separazione funzionale dello zooning in nome della diversità e mescolanza degli usi delle strade tradizionali (Jacobs, 1961) e Kevin Lynch che include il placemaking nella sua “Theory of the good city form” (Lynch, 1981).

Se non dichiaratamente fautori di un determinismo ambientale questi urbanisti possono senz’altro essere visti come ottimisti riguardo ad una stretta correlazione tra il disegno di uno spazio riuscito (successful place) e le attività e i comportamenti che vi si esplicano, tant’è che Ford attribuisce a scrittori come Jane Jacobs la convinzione che :“Good streets, sidewalks, parks, and other public

33

Nel testo “Public Places - Urban Spaces”, una sorta di manuale dell’urban design a cura di Carmona et al. (2003), vengono illustrate le tradizioni di pensiero alla base della progettazione urbana. Carmona individua due principali tradizioni, quella delle arti visive (più architettonica, legata alla qualità estetico-tecnica di edifici e spazi) e quella degli usi sociali (riferita agli attributi sociali di luoghi, attività e persone), che hanno trovato più recentemente una sintesi all’interno di una terza tradizione denominata ‘della costruzione dei luoghi’.

spaces bring out the best in human nature and provides the settings for a civil and courteous society. Everything will be fine if we can just get the design right” (Ford 2000 p. 199)34.

La critica degli approcci del movimento Moderno e della deriva presa dalla città contemporanea è condivisa anche dagli urbanisti europei sostenitori di una tradizione morfologica e storicistica quali Colin Rowe, Aldo Rossi, Rob e Leon Krier. Anche questi ultimi hanno sostenuto il placemaking asserendo l’importanza dello spazio urbano pubblico (non vuoto quindi, ma spazio positivo tra gli edifici) per la creazione di un senso del luogo e conseguentemente di una vita comunitaria (Aravot, 2002). Il neo-tradizionalista Leon Krier in particolare si spinge al punto da affermare che la filosofia del ‘disegno tradizionale dei quartieri’ non è un semplice paradigma architettonico, bensì una ‘sintesi sociale’ che alla fine darà vita ad un ricostituito senso civico (Krier, 1991, p.119).

Nella seconda metà degli anni ottanta e i primi anni novanta, le filosofie del ‘disegno tradizionale dei quartieri’ e dei ‘quartieri neo-tradizionali’ confluiscono nel New Urbanism americano, una filosofia che critica gli insidiosi effetti sociali della città suburbana diffusa. Viene caldeggiato un ritorno al disegno tradizionale di quartieri e villaggi, nella duplice convinzione da un lato che le forme urbane pre-moderne incorporino una comprensione della natura umana, e dall’altro che la combinazione di determinate variabili ambientali (densità e scala, disegno dello spazio pubblico, mix funzionale) influiscano sulle interazioni sociali e quindi sulla formazione di comunità (Talen, 1999).