3. Dove si costruisce la coesione
3.8 Definizione di alcune categorie per l’analisi oltre il binomio esclusione/inclusione: gl
Sono state prese in considerazione diverse tipologie di luoghi che fanno da scenario alla vita urbana degli immigrati, e nonostante la diversità di caratteristiche e funzioni sembra che tutte questi luoghi finiscano per configurarsi (essere usati, essere percepiti) come ‘spazi pubblici’. È infatti proprio il loro grado di apertura, di dialogo con il territorio, la loro capacità di supportare usi collettivi e di offrire occasioni di incontro con estranei a determinarne il successo o meno in termini di inclusione sociale.
Dall’approfondimento di queste pagine è emerso come gli spazi urbani trattati non sono dei territori neutri, ma essi veicolano diverse “grammatiche di spazio”. Sarà dunque il grado di flessibilità intrinseca di tali spazi a supportare grammatiche multiple a determinare situazioni di conflitto o di tregua attorno ad essi. Si parla volontariamente di tregua e non di ‘integrazione’ (aldilà della pericolosità di questo termine che è già stata accennata più volte) poiché si è visto come l’assenza di conflitto non implichi automaticamente un’interazione positiva ma possa essere semplicemente un sintomo di “civile disattenzione” per usare le parole di Goffman (1971).
Quindi le caratteristiche di tali spazi in termini di apertura, libertà, flessibilità li rendono più o meno idonei ad incoraggiare dinamiche di inclusione a livello potenziale. Un potenziale che può essere innanzitutto tradotto in termini di possibilità di interazione data da questi spazi.
In effetti la possibilità di interazione che questi spazi supportano si è rivelata essere importante, perché è alla base della creazione eventuale di legami, che si giocano su più livelli. Un primo livello è quello interno al gruppo di appartenenza: sono spazi che permettono l’incontro quotidiano o rituale con persone della propria comunità (religiosa, etnica, amicale), e questo si è visto fondamentale per superare lo spaesamento e lo shock vissuto dal migrante al suo arrivo nella nuova società, e fondamentale anche a livello pratico, perché è proprio grazie alle reti di supporto dei connazionali che nella maggior parte dei casi il migrante intraprende un percorso di inclusione nella
società di arrivo, in termini di accesso alla casa, al lavoro, ai servizi, alla regolarizzazione e di conseguenza ai diritti.
Un secondo livello di legame supportato da questi spazi è quello con il paese di origine, sia questo un legame reale o simbolico. Gli esempi come abbiamo visto sono molti, dai phone center che permettono di mantenere attiva la comunicazione con i famigliari da cui si è separati, ai mercati dove si possono acquistare beni tipici dei propri paesi, ai parchi dove si possono praticare gli sport tradizionali e così via. Questo tipo di legame ha una doppia valenza perché contribuisce da un lato a creare l’identità migrante come identità plurale, dunque non necessariamente extra-territoriale ma legata contemporaneamente a più luoghi, al qui dell’arrivo e al là di dove si è partiti. Dall’altro lato poi il legame transnazionale ha una seconda valenza in termini di trasformazione dell’ambiente di accoglienza, di adattamento e apprendimento delle usanze, dei sapori, della cultura, degli sport di realtà altre, un accrescimento in termini di cosmopolitismo della società di ricezione.
Infine più lo spazio è pubblico, nel senso di esposto, di permeabile, di visibile, più c’è possibilità che questa contaminazione reciproca avvenga. Di qui l’ultimo livello in termini di legame con la diversità, con l’altro; allora in questo caso certi luoghi più di altri si prestano all’instaurarsi di una reciprocità, ad esempio il mercato dove abbiamo visto che alla base dello scambio commerciale si crea un legame informale, di fiducia, o la scuola dove il confronto tra culture diverse è alla base dell’apprendimento quotidiano.
Si è parlato di potenziale di questi luoghi, e in effetti qualcosa che si riscontra in molti dei casi trattati è una certa ambiguità negli esiti e nelle interpretazioni, come se il confine tra situazioni di conflitto e situazioni di tregua, tra dinamiche di inclusione e di esclusione fosse sempre sottile, gli scivolamenti in un senso e nell’altro sempre possibili. Non c’è mai un’interpretazione univoca, e non c’è mai una ricetta data. La crescente presenza di immigrati all’interno dei mercati, nel commercio ambulante è sintomo di “successione ecologica” di operatori stranieri che subentrano a quelli italiani, quindi di un processo fisiologico ed essenzialmente virtuoso (il gioco delle sedie musicali di Waldinger) oppure, data anche la crescente presenza di immigrati e categorie svantaggiate nella clientela dei mercati siamo piuttosto di fronte ad un processo di omogeneizzazione su base etnica e sociale, e di impoverimento generale (cfr. Pastore, p.8)? Moschee e chiese etniche aiutano l’immigrato nel senso di una ‘integrazione dolce’ nella società ospitate o rischiano piuttosto di alimentare una chiusura delle comunità straniere in sé stesse? D’altra parte queste ambiguità denunciano anche il limite intrinseco alla costruzione di tipologie: la generalizzazione descrive delle ‘tendenze potenziali’ che poi dipendono dalle condizioni locali. Se ‘il parco urbano’ a livello idealtipico è un luogo che facilita l’incontro e la creazione di legami, saranno poi le caratteristiche storiche, urbanistiche, sociali ed economiche del contesto urbano in
cui è inserito quel particolare parco a determinarne le reali condizioni. Ed è all’interno di quelle determinate condizioni che l’azione pubblica assume un ruolo.
Intanto dalla disamina delle tipologie di spazio e della casistica si sono mostrati diversi possibili azioni in termini di urbanistica e governo del territorio. Innanzi tutto essendo che le caratteristiche spaziali di tali luoghi possono aumentarne o meno l’apertura, e le possibilità di incontro e socializzazione, è possibile vedere un ruolo in termini di urban design, in particolare per quanto riguarda gli spazi più propriamente pubblici quali parchi e mercati. Inoltre una progettazione partecipata, che tenga conto anche delle minoranze etniche che fruiscono questi luoghi può accrescerne il senso di appartenenza e contribuire a formare delle esperienze condivise all’interno delle comunità locali. Ancora più valore hanno forse le mobilitazioni spontanee di gruppi multietnici attorno a interessi comuni, come nel caso di Queens Market, dove è proprio l’assenza di coinvolgimento degli abitanti nel progetto di riqualificazione del mercato che spinge questi a sviluppare una consapevolezza condivisa della valenza dello spazio pubblico.
Inoltre si è vista l’importanza della pianificazione urbana, per dotare i quartieri che denotano una presenza immigrata (sia in termini di residenti, che di lavoratori) dei servizi, degli spazi pubblici e di incontro, dei luoghi di culto in modo tale da aumentare la qualità urbana, accrescere le possibilità di accesso alle risorse economiche (vedi Keestelot e Meert, 2000.) e ai diritti di cittadinanza (vedi Munarin e Tosi, 2009 a).
Infine, anche se le esperienze in tal senso sono ancora limitate nel contesto italiano, si è vista la possibilità di operare in tali luoghi con politiche integrate territorializzate come nel caso del mercato di Porta Palazzo a Torino. Se le esperienze di azione integrata area-based sono per lo più legate tradizionalmente ai quartieri residenziali ed in particolare a quelli di edilizia pubblica, l’agire su un contesto come quello del mercato reca in sé un taglio innovativo che forse però a Porta Palazzo non è stato colto appieno (vedi Briata, 2008). Di certo il mercato come anche altre tipologie di luoghi qui trattate permette di agire al contempo a livello di due differenti geografie. Quella della prossimità che lega il mercato al contesto in cui è inserito, che nel caso del mercato torinese tiene assieme la realtà del Quadrilatero Romano, quartiere che si sta gentrificando su cui giscono interessi forti, con dinamiche di rivalutazione degli edifici e dinamiche dislocative e Borgo Dora area che al momento sembra ricevere gli abitanti e le pratiche indesiderate espulse da quest’ultimo. Agire sul mercato significa allora agire anche sul quartiere, e sui problemi che lo caratterizzano quale la questione abitativa. Ma significa anche agire a livello della geografia più ampia disegnata dalle relazioni commerciali e dai rapporti di lavoro che si intrecciano nel mercato, significa poter influire almeno in parte su quell’importante canale di accesso all’occupazione che oggi il mercato rappresenta per molti migranti all’inizio del loro percorso migratorio e della loro carriera lavorativa.
Si potrebbe dire che questo tipo di azione territorializzata reca in sé la scommessa (non ancora vinta) di superare proprio i limiti territoriali che per definizione sono implicati in questo tipo di azione.
Ma qual è lo scopo di questa politica, e più in generale delle politiche che agiscono su questi spazi? Si è partiti con una schematizzazione piuttosto chiara della questione, catalogando il problema in termini di esclusione ed etichettando lo scopo dell’azione in termini di inclusione ma si è anche dimostrato quanto queste etichette possano essere fuorvianti. In effetti parlare di esclusione significa alludere alle diverse dimensioni in cui questa si può manifestare, e che, in particolare nel caso degli immigrati, non sono necessariamente compresenti pur essendo fra loro legate. Lo dimostra ad esempio l’analisi di Kesteloot e Meert (2000) di Bruxelles in cui esclusione abitativa ed esclusione economica vengono tenute separate perché non necessariamente coincidono, anche se si influenzano reciprocamente. Si è già raccontato come essendo ‘l’esclusione’ un concetto complesso utilizzato per descrivere un processo complesso, si finisca spesso per semplificarlo trattandolo in termini di segregazione, una categoria forse più operazionalizzabile proprio in virtù della sua facile spazializzazione.
Tuttavia, dai casi colti nel panorama italiano sicuramente si può dedurre che una schematizzazione della questione in termini di segregazione ha poco senso, come d’altra parte ha poco senso una sua risposta in termini di mixité. Nella maggior parte dei casi analizzati infatti, siamo già di fronte a situazioni di mixité che nascono diciamo spontaneamente, forse proprio a causa di un’assenza di regolazione, quando invece strategie di omogeneizzazione e separazione sono supportate da certe scelte di governo (vedi il caso di Canonica-Sarpi). Accantonando il binomio segregazione/integrazione, tuttavia anche la retorica del degrado/riqualificazione non è poi così convincente, essendo che anche questa interpretazione non è scevra di rischi: si assiste spesso ad un’identificazione del degrado con la presenza immigrata, oppure viene cavalcata in maniera strumentale dagli interessi forti con il rischio che processi di riqualificazione poco governati arrechino esternalità sociali negative, e inneschino meccanismi di gentrificazione.
È dunque estremamente rilevante capire quali categorie vengono utilizzate per l’interpretazione e la comprensione di determinati fenomeni, poiché è alla luce di queste categorie che viene fatta una scelta in termini di politiche e che una valutazione delle stesse può essere operata. Gli spazi analizzati non hanno raccontato solo storie di esclusione ed inclusione sociale, ma anche fenomeni di territorializzazione, appropriazione e significazione dello spazio, piuttosto che di sradicamento; o ancora processi di diversificazione, contro meccanismi di omogeneizzazione e appiattimento; storie di convivenza, piuttosto che di coabitazione o di ‘incastro’ ed episodi di intolleranza e conflitto;
infine tendenze all’integrazione o all’assimilazione, piuttosto che percorsi di intercultura e cittadinanza.
Se ogni interpretazione non è scevra di implicazioni in termini di politiche sembra allora convincente la prospettiva di Semi (2007) quando dichiara che siamo comunque di fronte agli spazi del multiculturalismo quotidiano, ovvero spazi che ospitano diverse prospettive culturali, che come abbiamo già detto veicolano ‘grammatiche’ multiple, e su cui si esercitano diverse retoriche e azioni di controllo. Questi spazi sono in trasformazione, e dunque il punto è forse quello di gestire nel modo migliore il cambiamento. Le politiche che devono allora occuparsi di questi spazi del quotidiano, sono allora delle politiche del quotidiano, che si inseriscono nelle dialettiche in corso con l’obiettivo di raggiungere una mediazione degli interessi e delle visioni esistenti.