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3. Dove si costruisce la coesione

3.6 Spazi del welfare

Si è già discussa altrove (vedi paragrafo 2.3) l’importanza di considerare il welfare state come fattore condizionante le dinamiche sociali che si hanno nelle città europee. Il welfare state, nelle sue diverse declinazioni assunte nei vari stati europei, ha prodotto direttamente ed indirettamente importanti politiche urbane che hanno strutturato le città. Il portato fisico delle politiche pubbliche è tornato recentemente all’attenzione della ricerca, nel bene e nel male. L’eredità negativa del welfare è stata infatti lungamente discussa in questi ultimi decenni, in particolare per quanto riguarda i grandi quartieri di edilizia pubblica, che da immagine icona di benessere sociale e progresso, da ‘soluzione’ si sono poi trasformati in uno dei più gravi problemi della città contemporanea: “Con una dinamica di segno diametralmente opposto, quegli stessi luoghi, sul finire del secolo scorso, hanno iniziato a essere connotati come emblemi dell’esclusione urbana (intesa insieme in senso fisico e sociale) e si è iniziato a fare riferimento a quegli stessi quartieri in termini di «problemi»; ciò che era soluzione è divenuto problema” (Bricocoli e De Leonardis, 2006, p.63).

Parallelamente si è sviluppata una riflessione sul welfare in chiave positiva. A fronte dell’impoverimento della città di recente costruzione, prodotta da logiche neo-liberali, e della privatizzazione di interi brani di città (le gated communities tanto care alla ricerca contemporanea), è tornata l’esigenza di riflettere sugli spazi del welfare, ovvero sull’infrastruttura urbana che in quanto pubblica e in quanto collettiva produce quella qualità e vivibilità di cui sembrano essere privi i nuovi insediamenti. In termini simili ragionano Tosi e Munarin (Munarin e Tosi, 2009 a; 2009 b; Tosi, 2009 a; 2009 b) che recentemente hanno sottolineato l’importanza di aggiornare la riflessione sugli spazi del welfare principalmente per tre motivi: innanzitutto perché come abbiamo già sottolineato il welfare è parte costituente della città europea e gli spazi che ha prodotto ne sono il simbolo; secondariamente perché un tale discorso riporta l’attenzione sul tema dell’urbanità, intesa in termini di qualità urbana e abitabilità, concetti purtroppo ignorati dai recenti progetti di sviluppo; infine perché ragionare sugli spazi del welfare significa attualizzare il concetto di cittadinanza.

“Lo spazio del welfare è quello in cui il cittadino forma il proprio spirito di cittadinanza. E questo spazio è ancora più importante oggi, per accogliere i tanti immigrati che cercano non solo casa e lavoro ma anche nuovi diritti (e doveri) di cittadinanza” (Tosi in Munarin e Tosi, 2009a, p.89) Ecco perché il discorso sull’immigrazione oggi non può prescindere da un discorso sugli spazi del welfare. Allora, sempre seguendo il discorso di Tosi, porre l’accento sugli spazi diventa fondamentale per superare un concetto di welfare puramente tecnico e quantitativo: il welfare tradotto in termini di ‘standard’. Al contrario ciò che va preso in considerazione, in particolare quando si parla di immigrazione è la dimensione relazionale e dunque qualitativa degli spazi del welfare.

È infatti negli spazi dei servizi e delle dotazione pubbliche quali scuole, biblioteche, centri sociali e (o forse più che) negli spazi pubblici aperti che si ha davvero un confronto con la differenza. Differenza prima di tutto di esigenze. Così la sfida del Pubblico oggi sembra quella di attualizzare e rendere più flessibili gli spazi del welfare in funzione di una pluralizzazione della domanda:

“Non è forse così ovvio affermare che nella pratica urbanistica occorre slegarsi quanto più possibile dai retaggi che portano ad affrontare il tema della fornitura di servizi a partire dalle condizioni di disponibilità di risorse territoriali e finanziarie ancor prima di aver pensato a chi rivolgersi, ossia a quali bisogni dover dare una risposta, con quale priorità e modalità. (…) Partire da una astratta dotazione di aree, da un elenco di funzioni predeterminato, così come da utenze pre-stabilite non consente invece di rispondere in maniera adeguata ai bisogni reali” (Pomilio, 2009, p.30)

Tosi e Munarin suggeriscono inoltre l’importanza di mantenere un’accezione ampia di welfare che non tenga conto solo dell’azione istituzionale ma che consideri anche le reti informali di welfare, ovvero l’azione auto-organizzata degli abitanti in risposta al malfunzionamento dell’infrastruttura pubblica, ma anche più semplicemente “le molte forme di convivialità e pacifica convivenza attivate nel quotidiano” (Munarin in Munarin e Tosi, 2009 a, p. 107).

Questa definizione ampia di welfare contiene alcuni degli spazi fino ad ora già presi in considerazione nella presente ricerca (ad esempio i parchi urbani, ma anche i luoghi di culto), e in più permette di rivolgere l’attenzione a quei dispositivi spaziali dove per definizione è in gioco la costruzione di un nuovo concetto di cittadinanza multiculturale, come ad esempio le scuole. Si ripercorrono, dunque, brevemente gli spazi del welfare che maggiormente vedono coinvolti gli immigrati.

Il welfare istituzionale: scuole e biblioteche

La scuola ha un ruolo centrale all’interno del discorso sull’inclusione degli immigrati. La scuola è infatti uno dei luoghi principe dove è possibile costruire un concetto di cittadinanza interculturale,

dove cioè si costruiscono le identità di bambini e ragazzi (in particolare delle seconde generazioni di immigrati), dove è possibile mettere in pratica un concetto di integrazione non monodirezionale (assimilazionista) ma che si basi sull’apertura reciproca delle diverse culture29. Anche la legislazione italiana in merito, ha recentemente posto l’accento sull’importanza dell’intercultura, come si evince già dal titolo del documento ministeriale dell’ottobre 2007, per l’appunto “La via italiana per la scuola interculturale e l’integrazione degli alunni stranieri”, che promuove un approccio interculturale alla didattica, agli scambi relazionali in ambito scolastico ed extra- scolastico e alla formazione stessa del personale. In questo senso è opportuno sottolineare che se da un lato c’è una difficoltà in alcune scuole di recepire le direttive delle politiche scolastiche dall’altro lato è proprio da certe realtà che si hanno le esperienze più innovative e che si sperimentano nuovi approcci all’educazione interculturale. Come fa notare allora Carchedi (2000) questo è l’aspetto più delicato della questione in termini di politiche scolastiche: “si tratta infatti di gestire i flussi informativi dall’alto verso il basso (cioè sulla singola struttura tecnico-pedagogica) e dal basso verso l’alto, ossia il processo inverso di codificazione delle esperienze empiriche al fine di trasformarle in possibili programmi di indirizzo strategico” (p. 1025).

Al di là dei problemi più specificamente didattici che non è il caso di affrontare in questa sede, sembra invece importante far notare come anche nel dibattito su scuola e immigrazione oggi siano centrali i temi della concentrazione e della segregazione. Prima la questione si è posta perché era stata avanzata l’idea di costituire delle ‘classi ponte’ speciali per immigrati con l’idea che questo avrebbe favorito l’inserimento successivo degli immigrati nelle classi “normali” permettendogli di colmare quelle lacune principalmente linguistiche di cui sono generalmente portatori. Questa ipotesi è stata poi superata ed è stato evidenziato il ‘pericolo sociale’ che recava con sé, istituzionalizzando la discriminazione all’interno delle scuole e infrangendo l’idea stessa di pluralità all’interno delle classi (Demaio, 2010). Oggi la questione della concentrazione si presenta con un taglio opposto. Recentemente è stato sollevato infatti il problema di alcune scuole frequentate quasi esclusivamente da alunni con cittadinanza straniera. Questo ha avuto una grossa risonanza nei media ed ha portato il ministero dell’istruzione a promulgare una direttiva in cui si fissa un tetto massimo del 30% di alunni stranieri per scuola. Per il momento l’iniziativa non sembra aver più di tanto sconvolto il panorama scolastico, essendo che di fatto quelle percentuali sembrano più che altro rispecchiare la realtà odierna delle scuole italiane, a parte rare eccezioni di scuole con percentuali molto più alte,

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Secondo Carchedi (2000) se l’integrazione come espressione dell’assimilazione e l’integrazione come espressione del pluralismo culturale possono essere considerati due concezioni ideal-tipiche, quello che avviene piuttosto nella realtà è una via intermedia di “ibridazione culturale” o di métissage.

collocate in quartieri particolarmente multietnici. Sembra dunque che il provvedimento sia stato in generale recepito, salvo delle deroghe per determinate scuole, ovvero quelle che sforavano di molto la percentuale fissata. Più che altro la disposizione ministeriale ha fatto riflettere sul concetto di ‘straniero’ nella nostra società contemporanea (Demaio, 2010). Infatti la maggioranza degli alunni con cittadinanza estera sono in realtà nati in Italia e hanno seguito il medesimo percorso scolastico dei compagni con cittadinanza italiana.

Si vuole far notare che se all’estero il dibattito sulla segregazione nelle scuole è stato piuttosto portato avanti in termini di scuole collocate in quartieri particolarmente svantaggiati, in cui anche l’offerta formativa sembra essere penalizzata, e dunque in termini di formazione di scuole di serie A e scuole di serie B. In Italia invece non si mettono in discussione le risorse che offre la scuola ma la paura è che alunni con preparazione inferiore mettano in difficoltà l’avanzamento delle classi.

Oltre alla scuola, si vogliono ricordare altri importanti servizi pubblici che come la scuola permettono una frequentazione quotidiana, e quindi costituiscono un’importante occasione di socializzazione tra persone autoctone e immigrate: si pensa ad esempio ai presidi sanitari, in particolare gli ambulatori pediatrici e i consultori famigliari, ai centri sportivi, le piscine comunali, e ai centri sociali e culturali come le biblioteche. Ad oggi le esperienze più interessanti sembrano essere quelle di quei servizi pubblici che grazie alla flessibilità e all’ascolto dell’utenza hanno sviluppato a latere dei servizi tradizionali, iniziative interculturali e servizi specifici per gli immigrati. Un esempio virtuoso sembra essere quello delle Biblioteche multiculturali di Roma. Dalle ceneri di un progetto per un centro multiculturale concepito negli anni ’90 e mai realizzato, è nato a Roma il progetto per le biblioteche multiculturali che dal 1994 ad oggi ha visto il coinvolgimento di 18 biblioteche del circuito comunale. Si tratta sostanzialmente dell’attivazione di una serie di iniziative all’interno delle singole biblioteche che promuovono il multiculturalismo, inteso come “riconoscimento e valorizzazione” delle diverse culture che popolano la città di Roma. Se inizialmente i servizi delle biblioteche si sono rivolti principalmente ad un pubblico italiano, con lo scopo di aprirlo alle culture altre tramite progetti come una guida (che è sia un libro che un sito internet) alla Roma Multietnica, e il progetto di letteratura del mondo (Storie del mondo) avviato insieme alle scuole superiori, in seguito sono stati sviluppati dei servizi diretti ad allargare il servizio bibliotecario ad un utenza immigrata. Grazie ad una conoscenza approfondita del territorio, basata sull’esperienza diretta e sui dati dell’Ufficio Statistica del Comune di Roma, le singole biblioteche hanno indirizzato i propri progetti alle minoranze etniche che più caratterizzavano il loro territorio di pertinenza. Si è trattato principalmente di due progetti attivati: “Biblioteche in lingua”, che ha previsto l’acquisizione di una vasta scelta di libri in lingua straniera e “L’italiano in biblioteca” con l’attivazione di corsi gratuiti di italiano per stranieri. Si vogliono evidenziare i punti

di forza di questo progetto, ovvero la messa in rete dei servizi bibliotecari, il radicamento nel territorio e la collaborazione con altri enti pubblici come le scuole e le Università (sono stati coinvolti gli studenti di lingue orientali ad esempio), l’allargamento dell’utenza tramite servizi specifici. Ancora rimane aperta una valutazione dell’effettiva partecipazione al servizio.

Il welfare dell’associazionismo

Questa nota è per sottolineare il ruolo svolto dall’associazionismo nel campo dell’immigrazione. Si tratta di associazioni gestite direttamente da immigrati o gestite da italiani che offrono servizi in campi disparati: assistenziale medico-sanitario, culturale, formativo professionale, politico-sociale e religioso, scolastico educativo, sportivo ricreativo, sindacale tutelativo (per una descrizione approfondita vedi Carchedi, 2000, per una ricerca empirica Caselli, 2006). Generalmente esistono tutta una serie di associazioni informali difficili da intercettare che creano una rete a cui poi si agganciano organizzazioni con maggiori consistenze e quindi visibilità che fungono dunque da mediatori tra le comunità di riferimento e le istituzioni. Carchedi fa notare il ruolo di welfare svolto da queste organizzazioni: “tutte queste attività (…) riflettono le dinamiche tra auto-organizzazione volontaria e militante finalizzata alla rivendicazione di maggiori servizi da parte delle istituzioni e organizzazioni, finalizzata all’erogazione di prestazioni di aiuto sul modello dei servizi sociali”; in nota Carchedi cita De Leonardis (1998) per spiegare che con l’aggettivo sociale si intende l’azione del servizio che è sociale perché produce socialità e genera e rigenera “legami sociali, comunicazione, cooperazione e conflitto”.