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3. Dove si costruisce la coesione

3.4 Spazi del tempo libero e del gioco: il parco urbano

Come si accennava nell’introduzione a questo capitolo, Lanzani (2003) afferma che gli immigrati spendono il loro tempo libero in pratiche che sono al contempo molto visibili o nascoste. Al primo

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tipo afferiscono diverse attività di ritrovo che si svolgono all’aperto: Lanzani ritiene questa una caratteristica tipica degli immigrati, presupponendo che culturalmente i gruppi provenienti dai paesi non occidentali tendano a svolgere un numero maggiore di attività all’aperto. Questa posizione non è del tutto condivisibile (anche perché come è noto gli immigrati in Italia appartengono a culture molto diverse tra loro) e si ritiene piuttosto che il tempo libero di molti immigrati venga speso all’aperto per una carenza di spazi appositi dedicati alla socialità delle diverse minoranze etniche nelle nostre città. Al contempo è vero però quello che ritiene Watson (2006b; riprendendo un concetto trattato in Goffman, 1969) cioè che la distinzione tra pubblico e privato, ovvero la nozione dei comportamenti da adottare in pubblico e quelli da adottare in privato sia qualcosa di culturalmente definito. Il comportamento appropriato all’interno degli spazi pubblici delle città europee, ed italiane, è stabilito a partire da un discorso culturale egemone cioè quello occidentale, che stabilisce i confini entro i quali certe attività piuttosto che altre sono ammesse negli spazi aperti. D’altra parte è proprio a partire dalla definizione di tali confini, che si ha il confronto, la negoziazione o il conflitto tra diversi gruppi etnici.

In questa sede non verranno presi in considerazione tutti gli spazi aperti in cui si svolgono le attività di ricreazione e incontro degli immigrati ma ci si soffermerà in particolare su di una tipologia di spazio ovvero il parco urbano. Questo da un lato perché si assiste visibilmente ad una sempre crescente multientnicità tra i frequentatori dei parchi urbani delle nostre città e dall’altro perché molta letteratura ed anche alcune indicazioni di policy22 enfatizzano il ruolo positivo delle aree verdi (rispetto ad altri spazi pubblici) anche in termini di inclusione sociale:

“Per ultimo va segnalato come i grandi, vecchi e nuovi parchi urbani, assieme ai mercati all’aperto, si configurino, forse, come i pochi spazi pubblici di vera e propria effettiva coabitazione, come i luoghi dove più facilmente differenti consuetudini di vita, differenti pratiche collettive e all’aperto possono esplicarsi e convivere e dove più facilmente si creano occasioni di scambio e comunicazione” (Lanzani, 2003, p.332).

Innanzi tutto si ritiene opportuna una precisazione sulla natura stessa dei parchi urbani, che risulta essere piuttosto complessa: cosa sono infatti i parchi? Sono degli spazi pubblici che vanno dunque considerati alla stregua di strade e piazze? O sono degli spazi del welfare che vanno considerati alla stregua di altri servizi, come scuole o biblioteche? O infine sono degli spazi verdi e vanno considerati alla stregua di orti e riserve naturali? In realtà i parchi sono un po’ tutte queste cose insieme, sono delle infrastrutture pubbliche che supportano diverse interpretazioni e diversi usi, e

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anche per questo motivo si ritiene particolarmente interessante farli diventare oggetto di approfondimento.

Il valore sociale delle pratiche

Come già accennato, i parchi urbani delle città italiane, e più in generale occidentali sono sempre più frequentati dagli immigrati. In particolare le ricerche sottolineano una frequentazione maggiore da parte delle minoranze etniche non occidentali delle aree verdi urbane, piuttosto che delle zone naturali extra urbane (Low et al. 2005; Buijs in Peters et al., 2010; Risbeth, 2001) e ciò viene attribuito sia a fattori socio-economici (ad esempio la scarsa disponibilità di mezzi di trasporto privati) che a fattori culturali (diverse “immagini di natura” dei diversi gruppi etnici)23. La letteratura italiana sul tema è piuttosto scarsa, esistono però alcuni interessanti lavori internazionali che analizzano il rapporto tra i parchi e gli immigrati in termini di uso, di percezione e di dinamiche sociali. Da alcune di queste ricerche emerge come, a differenza dei nativi, gli immigrati (non occidentali)24 attribuiscano con preponderanza al parco un valore sociale (Low et al. 2005, Elmendorf et al., 2005 in Peters et al. 2010). Così se le aree verdi vengono utilizzate dai nativi occidentali (statunitensi, olandesi o italiani che siano) prevalentemente per motivi estetici/contemplativi e per rilassarsi, implicando pratiche da svolgere prevalentemente da soli o in piccoli gruppi (come passeggiare o portare a passeggio il cane, o correre), al contrario molti immigrati le percepiscono maggiormente come luoghi di ritrovo dove svolgere attività più propriamente sociali e collettive. Il parco assume dunque l’importanza di un luogo che assicura l’incontro regolare dei membri delle comunità di immigrati, incontri che non potrebbero avvenire altrove, un po’ a causa della carenza di spazi dedicati al tempo libero, un po’ anche grazie alle caratteristiche di apertura e di spaziosità che i parchi in quanto spazi pubblici assicurano. Le attività svolte dagli immigrati nei parchi variano a seconda della provenienza, ma sono nella maggior parte dei casi attività collettive che coinvolgono gruppi abbastanza numerosi. Questo viene ricondotto

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Questa considerazione accresce l’importanza che i parchi urbani dovrebbero assumere nel disegno di politiche urbane atte a garantire l’accessibilità alle aree verdi da parte di tutti i cittadini.

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Qui la distinzione tra i gruppi di cui si sta parlando è piuttosto importante e varia all’interno delle ricerche, in alcune si differenzia più semplicemente tra nativi e minoranze etniche o nativi e immigrati, in altre si specifica che si prendono in considerazione solo immigrati non occidentali. La differenza è importante perché nel primo caso si sottolinea come la diversità del comportamento dipenda dalla condizione immigrato, nel secondo caso si sottolineano di più le differenze culturali. Da qui sembra emergere un tema di ricerca più propriamente antropologico che non verrà affrontato in questa sede, cioè se sia la situazione di immigrato o la componente culturale a pesare di più nelle dinamiche d’uso degli spazi pubblici.

all’importanza dei valori collettivistici e dei legami familiari attribuito alle culture non occidentali, in particolare a quelle islamiche. Il ritrovo è associato spesso al consumo di pasti (e quindi nei parchi si traduce in picnic e grigliate) e ad attività sportive. In quest’ultimo caso l’attività sportiva è quella tradizionale del proprio paese, e la pratica regolare e rituale di questa permette il consolidamento della comunità all’estero e il rafforzamento di legami transnazionali. Così i gruppi provenienti dall’area del subcontinente indiano praticano il cricket nei parchi italiani, i sudamericani il calcio o la pallavolo quest’ultima praticata anche da filippini, mentre gli estasiatici si ritrovano quotidianamente per il Tai Chi. L’importanza di queste pratiche sportive è rilevata ad esempio da Caselli (2006), che nel suo libro sull’associazionismo degli immigrati, e parlando dei limiti della propria ricerca, afferma che:

“Il secondo limite è costituito dalla visibilità delle organizzazioni promosse fra migranti, soprattutto per quelle realtà ancora ad uno stato embrionale di sviluppo o molto informali per natura che, pure sono espressione di un forte dinamismo. Ci riferiamo a tutte le forme di associazione e ai collettivi, più o meno strutturati, che animano la socialità informale dei migranti (…). Questo aspetto, nel nostro lavoro toccato solo tangenzialmente, è però di grandissimo interesse e meriterebbe un approfondimento nei prossimi anni. Anche perché nei tornei di calcio disputati nei parchi, nelle squadre di cricket o di pallacanestro come nei gruppi musicali e di danza si mettono in gioco passioni, ma anche relazioni e strategie, che entrano nel vivo delle dinamiche di inserimento dei migranti nelle nostre città” (p. 22).

Parchi come incubatori di inclusione sociale

L’ipotesi è dunque che i pachi urbani, più di altri spazi pubblici, proprio grazie al ruolo sociale svolto, siano dei luoghi privilegiati per innescare processi di inclusione sociale. A tal proposito sia Dines e Cattel (2006) che Peters et al. (2010) individuano due fattori che sono ritenuti alla base dei processi di coesione sociale negli spazi pubblici ovvero l’attaccamento al luogo e le interazioni sociali. In particolare secondo Dines e Cattel esiste una sorta di legame biunivoco tra il senso di appartenenza ad un luogo e la possibilità di farvi degli incontri, tant’è che molti dei fattori che influenzano uno, influenzano anche l’altra, e se la possibilità di fare degli incontri accresce l’attaccamento ad un luogo, d’altra parte l’attaccamento ad un luogo facilita l’uso degli spazi pubblici e di conseguenza la possibilità di farvi degli incontri. Questi due concetti vengono operazionalizzati da Peters che li utilizza nelle proprie indagini per misurare il livello di inclusione che si produce nei parchi. Considerando l’utilità di tale metodologia, si approfondiscono i due concetti.

L’attaccamento ad un luogo è dato secondo Dines e Cattel da una serie di fattori quali: la presenza di reti sociali di cui si fa parte (siano queste legami deboli o forti); la continuità della permanenza in un luogo (la durata della residenza); la presenza di risorse locali (attrezzature e servizi); la caratterizzazione dei luoghi (che può avvenire sia in senso positivo che negativo). Date tali caratteristiche si capisce come la condizione di immigrato può avere un impatto sul senso di appartenenza del frequentante lo spazio pubblico: sarà infatti meno sviluppato negli immigrati di recente arrivo, nelle prime generazioni, e più forte invece nelle seconde generazioni, e negli appartenenti a comunità territorialmente radicate. Anche altri fattori legati alle caratteristiche del frequentante hanno poi un impatto quali ad esempio l’età e il genere. A conferma di ciò, dalla ricerca empirica di Peters et al. (2010) su cinque diversi parchi urbani olandesi emerge come il senso di appartenenza a tali luoghi sia più intenso tra i nativi olandesi, in particolare anziani. Inoltre la medesima ricerca fa notare l’importanza oltre che delle caratteristiche della persona, anche delle caratteristiche del parco stesso: il senso di attaccamento è più forte all’interno dei parchi di quartiere che sono percepiti come delle estensioni del giardino di casa, dove quindi ci si sente a proprio agio, le facce degli altri frequentatori sono note, e vi ci si reca proprio per la sensazione di familiarità; al contrario nei parchi alla scala urbana vi ci si reca per il senso di libertà e di anonimato che trasmettono, e di conseguenza nonostante svolgano un ruolo fondamentale, il senso di attaccamento è meno spiccato e si è meno coinvolti per le sorti del luogo. Al di là delle dimensioni del parco, sembra fondamentale la sua storia, ovvero l’interessamento per il parco dipende anche dall’eventuale coinvolgimento degli abitanti nella sua progettazione e realizzazione.

Per quanto riguarda le interazioni sociali, Dines e Cattel ne individuano di due tipi che possono avvenire in generale negli spazi pubblici: gli incontri casuali (che succedono sia con regolarità qualora sono legati alle pratiche quotidiane, o possono essere fortuiti e occasionali) e gli eventi sociali organizzati (sia quelli organizzati dalle istituzioni che quelli auto promossi dalle comunità e gruppi di interesse più o meno formali).

Tra i vari tipi di spazi pubblici, i parchi sembrano supportare tutti i tipi di incontri sia organizzati che casuali, sia di routine che fortuiti. In effetti se usati con una frequenza giornaliera (perché vi si passa, o vi si porta a passeggio il cane, o vi si va a correre regolarmente ad esempio) i parchi possono diventare luoghi di incontri casuali e talvolta incontri regolari con degli sconosciuti sfociano in legami più stabili. Più spesso i parchi sono però associati con l’organizzazione di eventi sociali, sia formali che informali e autopromossi. Piuttosto che quelle formali, sono queste ultime occasioni a cui viene attribuita una maggiore significatività sociale. In particolare si sottolineano quegli eventi spontanei di auto-organizzazione, quale ad esempio il gruppo degli “healt walkers”

che si tramutano da iniziative strettamente orientate alla salute, ad iniziative con uno scopo anche sociale.

Le ricerche enfatizzano poi il tipo di incontri sociali che avvengono nei parchi e che maggiormente riguardano gli immigrati. Come abbiamo già detto, in effetti il parco è percepito da questi principalmente come luogo di incontro, per cui il livello delle interazioni sociali che coinvolgono minoranze etniche nei parchi è molto alto, ma riguarda principalmente interazioni tra conoscenti e familiari che generalmente appartengono alla medesima comunità. In tal caso possiamo parlare di una prevalenza di incontri organizzati, autopromossi dalla comunità, come nel caso degli eventi sportivi o culturali. Tali incontri possono iniziare in maniera più discreta e poi via via assumere dimensioni sempre maggiori, in particolare se assecondati e non ostacolati da chi è in carica della gestione del parco. Un esempio in tal senso è dato dal festival di percussioni di Prospect Park nella ricerca di Low et al. (2005) dove all’evento nato spontaneamente viene dato lo spazio necessario per diventare un punto di riferimento per diverse comunità (i partecipanti sono caraibici, africani, sudamericani, afro americani e qualche bianco), e permettere anche lo sviluppo di attività a latere (vendita di cibo, danze) e di attirare così un range più variegato di interessati: spesso capita che chi passa di lì correndo o facendo una passeggiata si fermi ad ascoltare il concerto. Un altro esempio che più avanti verrà approfondito è quello del torneo di calcio di colle Oppio a Roma.

Anche gli eventi organizzati dalle istituzioni in maniera più formale possono riguardare gli immigrati, in particolare Rishbeth (2001) segnala l’iniziativa virtuosa del parco Brixworth nel Northamptonshire, Regno Unito, dove a seguito di un focus group che ha coinvolto diversi rappresentanti delle minoranze etniche della contea, è stato organizzato su base annuale il ‘Roots Culturefest’ in cui l’amministrazione locale provvede alle attività culturali e ambientali, ed ai trasporti pubblici, mentre le diverse comunità provvedono al cibo, con lo scopo di pubblicizzare l’esistenza del parco e permettere un’esperienza stimolante, che promuova la socialità e l’identità culturale. Grazie al festival si è riscontrato un aumento della frequentazione del parco da parte di minoranze etniche.

Se dunque gli incontri sociali sulla base di eventi organizzati sono una realtà concreta per le popolazioni immigrate, invece gli incontri casuali rimangono meno sviluppati, anche se sono effettivamente quelli che in teoria permettono di scavalcare i confini etnici e le tensioni razziali. D’altra parte i parchi come in generale tutti gli spazi pubblici sono per definizione spazi dell’anonimato, in cui sono possibili solo degli incontri superficiali, regolati da codici di comportamento socialmente definiti (Goffman, 1971). Più frequentemente si hanno incontri ‘passivi’ dati dalla copresenza quotidiana che producono quella che Blokland (Blockland e Savage, 2008) definisce “public familiarity” o eventualmente incontri fortuiti prodotti da meccanismi di

triangolazione (Lofland,1998): si tratta di contatti che si creano grazie all’intervento di un elemento che pone in relazione due sconosciuti, come ad esempio un pallone sfuggito, un bambino o un cane che per primi stabiliscono il contatto. La ricerca empirica di Peters fa in effetti emergere come in generale gli incontri casuali con gli sconosciuti non caratterizzano le esperienze né di nativi né di immigrati. Tuttavia se i nativi non sembrano sentire il bisogno di stabilire contatti con gli sconosciuti, gli immigrati (in particolare la ricerca si riferisce ad alcuni intervistati Turchi) sarebbero più propensi a tali tipi di incontri ma verrebbero frenati dall’inibizione. Gli unici incontri significativi, nonché frequenti tra sconosciuti di origini etniche diverse sembrano avvenire attorno alla negoziazione di pratiche conflittuali, che vengono considerate sconvenienti o fastidiose da un gruppo rispetto ad un altro.

Parchi come teatro di tensioni razziali

Se fino ad ora si è parlato solo di processi di inclusione, sembra opportuno sottolineare che i parchi urbani, come molti altri luoghi, sono spesso teatro di tensioni razziali e processi di esclusione. In tal senso un ruolo chiave è giocato tre fattori: il disegno fisico degli spazi del parco, le strategie di gestione e i comportamenti dei frequentatori (cfr. in particolare Rishbeth, 2001 e Low et al. 2005). Questi elementi agiscono indipendentemente ma possono anche rinforzarsi l’un l’altro.

Per quanto riguarda il disegno fisico di un parco, questo spesso è portatore di simbologie e tradizioni che rispecchiano la cultura dominante, mentre poca attenzione è in generale data nella progettazione all’impatto emozionale e cognitivo che il paesaggio ha sulle diverse minoranze etniche. Per ovviare a questo inconveniente si possono dedicare alcune zone del parco ad una progettazione (nella scelta della piantumazione ad esempio) più accorta alle culture paesaggistiche delle minoranze (Rishbeth, 2001) o, ancora, si possono incoraggiare i visitatori a “modellare il parco” tramite strumenti simbolici più o meno permanenti che trasmettano dei messaggi rilevanti per determinate comunità (Low et al. 2005)25. Sempre dal punto di vista dell’assetto fisico si rileva come certi tipi di spazi incoraggiano determinate pratiche e ne ostacolano altre, così ad esempio la presenza di molti alberi può essere adatta alle passeggiate una pratica più diffusa tra gli occidentali, ma può ostacolare gli sport collettivi spesso praticati dagli immigrati. In questo senso la gestione e le scelte di manutenzione dei parchi sono fondamentali, perché agiscono anche successivamente la realizzazione del parco. Si possono dunque incoraggiare determinate pratiche che nascono

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Low et al. si riferiscono sia ad addobbi quali palloncini e pannelli installati dai visitatori per la durata della loro visita, sia simboli più permanenti come la sistemazione del semicerchio per il festival di percussioni che trasmette l’idea dell’inclusione pan africana.

spontaneamente nei parchi come nell’esempio di Prospect Park. Infine sono i comportamenti e gli atteggiamenti delle persone e dei gruppi che frequentano i parchi che hanno delle conseguenze in termini di esclusione e marginalizzazione, in modo più o meno volontario. Rishbeth fa notare come la presenza dei cani possa essere un problema per le persone di cultura musulmana, e in questo senso le aree cani possono essere utili. A Prospect Park, la mancanza di connessioni tra diverse aree del parco frequentate prevalentemente da gruppi etnici distinti aveva accentuato meccanismi di segregazione e sentimenti di disagio.

Il caso di Colle Oppio a Roma

Nonostante siano note, le pratiche di sport collettivi tradizionali da parte di immigrati nei parchi urbani è poco analizzata dalla ricerca urbanistica italiana. Un’eccezione è costituita dal breve saggio a cura di Alessio Gregari che racconta dell’uso domenicale del ‘Campo della Polveriera’ a Colle Oppio, Roma dove alcune comunità romane di sudamericani (principalmente ecuadoriani ma anche peruviani, colombiani, boliviani e qualche italiano) si sfidano in un vero e proprio torneo calcistico da ormai 16 anni. Come fa notare Gregari, l’eccezionalità di questo evento è dovuta alla collocazione centrale e all’importante valore archeologico dell’area, che lo rende sovente meta del turismo. Emergono in maniera lampante i diversi valori e le diverse pratiche associate a questo spazio, fruito al contempo dagli abitanti del quartiere, dai gruppi di sudamericani che provengono da diverse parti della città, e dai turisti. A latere del torneo calcistico, si sono sviluppate delle attività collaterali, tra cui il gioco della pallavolo in dei campi attrezzati adiacenti e un vero e proprio mercato etnico di cibi tipici delle diverse cucine di giocatori e tifosi, che vengono non solo consumati ma anche venduti dando vita a fenomeni di ‘piccola illegalità’. Queste attività informali, sommate all’assenza di attrezzature adeguate a supportare l’evento quali ad esempio i servizi igienici, e ad episodi di disturbo della quiete dovuti all’ubriachezza di qualche tifoso, alla musica che accompagna l’evento, alle discussioni nate dall’agonismo sportivo, hanno portato nel 2003 ad una situazione di tensione tra la comunità dei residenti ed i partecipanti all’evento. Non sono mancati i tentativi di sgomberare il campo da parte delle forze dell’ordine, ma alla fine si è arrivati ad una risoluzione positiva del conflitto. Grazie anche all’intervento del UISP e alla determinazione degli organizzatori del torneo, la pratica è passata attraverso un processo di regolarizzazione, per i cui i numerosi giocatori (all’epoca 300, oggi probabilmente di più) sono stati riuniti in un associazione denominata Ecuador Amazonico. Questo ha permesso di ufficializzare il torneo, di dare notorietà e riconoscimento all’associazione, e di responsabilizzarne i partecipanti. Le trattative con il municipio hanno inoltre portato alla redazione di un progetto di riqualificazione per l’area, le cui intenzioni erano quelle di dotare la zona gioco di bagni e spogliatoi e di renderla fruibile anche

dalle vicine scuole e università durante la settimana. La realizzazione del progetto non sembra ad oggi aver avuto esiti molto positivi tant’è che la zona è ancora sprovvista dei servizi e il campo viene auto-mantenuto dai giocatori. Quello che però sembra aver avuto successo è stata piuttosto la formazione dell’associazione che nonostante altri tentativi di “boicottaggio” (vedasi ad esempio