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3. Dove si costruisce la coesione

3.7 Spazi del lavoro: negozi e phone center

Gli immigrati nelle nostre città sono prima di tutto, per definizione, immigrati per lavoro (labour migrants) essendo questo il principale pull factor alla base dei movimenti migratori in Europa, in particolare in Italia. Inoltre, a differenza degli europei autoctoni, quelli che hanno alle spalle una storia di migrazione dimostrano una maggior disponibilità ad intraprendere carriere imprenditoriali e di lavoro autonomo, tendenza che inizia a riscontrarsi anche in Italia a partire dagli anni ‘90. Se le conseguenze in termini economici sono palesi, e le ricerche in questo senso sono più sviluppate (in particolare nel panorama internazionale), quello che rimane meno evidente e che è più pertinente a questa ricerca sono gli impatti dell’imprenditoria immigrata a livello territoriale.

Dai racconti di alcuni casi che trattano il fiorire di imprese commerciali, talvolta artigiane, nei quartieri delle città italiane emergono delle prospettive ambigue. Da un lato le imprese immigrate

vengono lette come un fenomeno negativo che tende a sostituirsi cancellandolo al piccolo commercio tradizionale, appiattendo spesso le tipologie di impresa di un territorio. Dall’altro lato sembra invece che l’imprenditoria immigrata, essendo attratta dai contesti più flessibili e accessibili che in genere sono anche quelli in cui è in corso un processo di degrado, finisce per rivitalizzarli grazie al mantenimento di un tessuto commerciale minuto e capillare che altrimenti tenderebbe a scomparire.

Esemplare è il caso di Quarto Oggiaro a Milano che alcuni ricercatori (Torri e Vitale, 2009) segnalano come un territorio dove è in corso un meccanismo di “crescita a incastro”: si tratta infatti di un quartiere periferico di Milano nato come quartiere operaio a ridosso di alcune industrie, che ha attraversato dei periodi di crisi del tessuto economico, dovuti innanzi tutto al declino delle fabbriche e secondariamente alla nascita di alcuni centri commerciali. Il degrado del quartiere è andato di pari passo con un livello piuttosto basso dei valori immobiliari, elemento di per sé negativo che si è però rivelato essere al contempo una risorsa. Sono stati proprio questi bassi valori immobiliari, sommati ad una certa porosità e flessibilità del tessuto urbano ad alimentare la capacità del quartiere di attrarre una piccola imprenditoria familiare di immigrati in cerca di spazi sia per avviare nuove attività che per vivere. Il territorio ha dunque modificato la sua dinamica produttiva, costituendosi come risorsa per incastrare nuova impresa. Il caso di Quarto Oggiaro esemplifica alla perfezione lo slittamento continuo tra risorsa e problema con cui può essere interpretato l’avvento dell’imprenditoria immigrata: da un lato il piccolo commercio già indebolito da altri processi economici in corso viene ulteriormente ‘spiazzato’, dall’altro è solo grazie alla presenza immigrata che si creano nuove opportunità lavorative in un quartiere ormai svuotato dalle funzioni produttive originali. Inoltre un’altra ambiguità è sottesa al processo di inserimento degli immigrati, che è ben rappresentata dall’espressione usata dagli autori quando affermano che il territorio di Quarto Oggiaro si apre ad “incastrare” la nuova impresa immigrata, si tratta dunque di un meccanismo di incastro ma non di un vero e proprio meccanismo di accoglienza: non si assiste ad alcun atteggiamento attivo di integrazione da parte della popolazione residente.

Per cercare di fare luce sulle sfaccettature di quest’ambiguità descritta si tenterà di seguito di evidenziare, proprio partire dalla casistica italiana, alcuni elementi nelle esperienze di lavoro autonomo immigrato che le caratterizzano nel senso dell’inclusione piuttosto che dell’esclusione, dell’integrazione o della segregazione, della convivenza piuttosto che del conflitto.

Gli spazi del lavoro oltre al ruolo economico, verso un valore sociale

Come per altre tipologie di spazio qui trattate (i luoghi del culto e i mercati ad esempio), anche gli spazi del lavoro, in particolare negozi e phone center hanno un ruolo ed un valore che esula la pura

funzione economica per cui sono pensati e che sconfina nel campo del sociale e della socialità. Come fa notare Semprebon (2010) nella sua ricerca, il ruolo dei phone center nelle città italiane (vengono trattati nello specifico i casi di Modena e Verona) è complesso e può essere assimilato a quello di “spazio pubblico”: da un lato questi assicurano il legame con il paese di origine e costituiscono dunque un’importante risorsa di “trasnazionalismo connettivo” (Ambrosini in Semprebon, 2010), inoltre sono un luogo di ritrovo quotidiano (essendo che “chiamare a casa” è una delle pratiche più frequenti tra gli immigrati). Ancora, sono un luogo dove avere accesso a informazioni su questioni importanti: la casa, il lavoro, il permesso di soggiorno, sia tramite l’accesso ad internet, sia tramite i canali informali di supporto che si creano in questi spazi. Infine alle volte sono usati per funzioni inusuali, ad esempio come luogo di preghiera. Anche se in maniera più restrittiva, dei discorsi simili possono essere fatti anche per i negozi. In generale dunque questi luoghi hanno una rilevanza molto forte all’interno della vita dell’immigrato perché sono al contempo i luoghi dove si lavora, dove si fruisce di servizi importanti (spesso specifici per l’immigrato), dove si socializza.

Sono spazi, dunque, che supportano il consolidamento di pratiche di solidarietà e valori sociali all’interno delle reti migranti, ma sono anche dei luoghi di “inclusione” nella società ospitante. Come racconta Todros (2009) a proposito di Borgo Rossini, un quartiere di Torino dove la dimensione dell’abitare e quella del lavoro sembrano coesistere (sia per gli italiani che per gli immigrati), “l’integrazione, solitamente intesa come «processo eventuale di apprendimento dei modi della convivenza» (Tosi, 2003), qui avviene dunque sulla base del lavoro” (p.53). Nel caso di Borgo Rossini, l’integrazione sembra passare proprio attraverso gli ‘spazi’ del lavoro, vale a dire che è la conformazione fisica degli isolati, formati da case di ringhiera disposte attorno a corti interne su cui affacciano sia le residenze sia i laboratori artigianali dei ‘bassi’ a favorire l’intrecciarsi delle pratiche quotidiane degli abitanti: “Si riconosce così un tessuto che appare omogeneo, ma che accoglie in modo duttile presenze differenti. Una trama fisica che si fa elastica, ed accoglie trasformazioni, negoziazioni e conflitti, senza i mutamenti che altrove impongono capovolgimenti intensi” (p.54). Il caso di Borgo Rossini è però peculiare; in realtà più in generale quando si sostiene che l’integrazione, o l’inclusione passa attraverso il lavoro, si fa riferimento più che altro alla forte retorica di cui è pregna molta politica nazionale per cui l’accoglienza dell’immigrato avviene sulla base del lavoro. Quest’immagine, che è ormai passata anche tra le comunità di immigrati (vedi ad esempio il racconto di Habib Mohammed in Bracalenti et al. 2009, che vuole restituire un’immagine dei bangladesi come “infaticabili e onesti lavoratori, senza grilli per la tesa”, p.90) è però rischiosa nel momento in cui supporta la retorica del “wanted but not welcomed”, cioè nel momento in cui l’inserimento lavorativo non implica l’inclusione nelle altre

dimensioni della società (ad esempio la casa, cfr. Somma, 2004, p. 130) o ancora quando si ragiona per opposizioni: da un lato l’immigrato regolare, lavoratore da accogliere e dall’altro il clandestino, delinquente da respingere. Quindi l’inclusione degli immigrati passa attraverso il lavoro, sicuramente a livello di retorica, con più riserve a livello di ‘spazi del lavoro’ cioè come presenza concreta, fisica all’interno dei quartieri.

Questione di segregazione?

Anche nel caso del lavoro, come per altre dimensioni già trattate, il discorso inclusione/esclusione è percepito e raccontato spesso in termini di integrazione/segregazione. Viene spontaneo chiedersi se la concentrazione in un medesimo spazio/quartiere di imprese etniche sia fonte di segregazione o meno. Sicuramente la concentrazione, contribuisce a dare visibilità al fenomeno, e di conseguenza può essere percepita in modo negativo dagli abitanti tradizionali di una zona, e dare così adito ad atteggiamenti ostili, tensioni e conflitti.

Ne sono due esempi il quartiere dell’Esquilino a Roma (vedi Mudu, 2003; 2006a; 2006b) e il quartiere Canonica-Sarpi a Milano (vedi Monteleone e Manzo, 2010). In entrambi i casi si tratta di quartieri dove gli immigrati si sono inseriti prevalentemente (se non quasi esclusivamente) con le imprese economiche. Si è formata dunque una separazione tra le residenze che ospitano ancora molti italiani e il commercio per lo più gestito da cinesi. Il fatto che molti dei negozi cinesi si rivolgano ad una clientela immigrata (riportando le insegne in cinese ad esempio, o vendendo prodotti tipici) o trattino commercio all’ingrosso, in ogni caso che non siano direttamente fruibili dagli abitanti tradizionali, e che tendano a concentrare funzioni simili nella prossimità ha portato i residenti italiani ad una scarsa comprensione del fenomeno ed accettazione del cambiamento. Il fiorire delle imprese viene dunque spesso associato al degrado del quartiere, quando invece come abbiamo visto per Quarto Oggiaro, l’arrivo immigrato è sovente una risposta ad un processo di degrado e di svalutazione già in atto. La diffidenza nei confronti degli imprenditori cinesi è spesso dovuta anche alla facilità con cui questi sembrano avere a disposizione capitali per affittare o comprare i locali. Si crea quindi un sospetto di traffici illeciti che è alla base di un sentimento di insicurezza. In realtà, nella maggior parte dei casi, la disponibilità dei capitali è riconducibile al ricorso a reti di supporto familiari, che talvolta si estendono fin dal paese di origine. Certo anche in questo caso il fenomeno può essere inteso come un sintomo di scarsa integrazione degli imprenditori stranieri ma in senso diverso rispetto alla retorica a cui si è appena accennato. In effetti, il ricorso a reti di sostegno informali può significare una difficoltà di inserimento nelle reti di credito e sostegno formali, quali ad esempio le banche o altri enti istituzionali. Se ne può dedurre

dunque uno scarso livello di integrazione nella società che porta di conseguenza ad una scarsa conoscenza e familiarità con la cultura d’impresa e l’ambiente amministrativo (FIERI, 2008).

Un altro fattore che spinge verso tensioni interetniche può essere ricondotto all’uso ibrido e plurale che viene fatto dei negozi da parte degli immigrati. Ciò, che come abbiamo detto sancisce il ruolo speciale e fondamentale svolto dai negozi nella vita dell’immigrato, è invece difficilmente accettato dagli italiani che hanno una visione residenziale e commerciale dello spazio urbano diversa. Semi (2007) usa il concetto di “grammatiche di spazio” (p.64) per indicare tutti quegli elementi (le insegne dei negozi, la memoria locale, l’atmosfera che si respira in un quartiere…) che agiscono come “codici di utilizzo legittimo che da un lato possiedono un aspetto visibile e fisico e dall’altro si basano sulla sedimentazione nel senso comune di forme localizzate di utilizzo dello spazio. (…) Così l’interpretazione data a queste regole non scritte non sempre coincide fra i presenti, dando luogo a diversi malintesi, conflitti e interruzioni dell’azione…” (ibidem). Semi porta l’esempio di una strada di Torino (si tratta di un’area centrale della città in cui è in corso un processo di gentrification) su cui affacciano alcune case di abitanti storici del quartiere, un ristorante alla moda e un bazar africano. La strada diventa lo scenario su cui agiscono grammatiche multiple e non concordanti tra loro, con l’esito finale di una petizione firmata dagli abitanti del quartiere affinché le istituzioni controllino e obblighino a trasferirsi il negozio africano. Lo spazio non è dunque neutro, ma regole formali e informali che agiscono su di esso che lo ‘controllano’ possono sancire l’esclusione o l’inclusione di pratiche che sono ritenute più o meno opportune.

Quando la segregazione residenziale non implica una segregazione economica

È chiaro che la concentrazione di attività etniche in quanto presenza forte, tentativo di imposizione di una grammatica altra (nuova) su di un territorio può portare a conflitti tra gruppi che fanno usi diversi dello spazio. Ma non sembra ancora chiaro come avvenga tale concentrazione e se questa possa essere di per sé un fattore di esclusione. La concentrazione del lavoro immigrato può essere declinata in due significati: in quanto concentrazione all’interno di specifici settori o nicchie, e in quanto concentrazione nello spazio. Potremmo parlare nel primo caso di economia etnica,e qualora si presentasse anche una concentrazione spaziale di economia etnica di enclave (Mudu, 2006 c). Trattando del primo caso Rath (2000) si interroga sul fatto se l’integrazione economica degli immigrati passi attraverso la concentrazione in specifiche occupazioni o linee di affari. Il quesito sembra supportato dalle teorie di Waldinger (1996) che descrive l’inserimento degli immigrati nell’economia urbana di Los Angeles e New York attraverso un modello che ricorda un gioco musicale (the game of ethnic musical chairs, letteralmente il gioco delle sedie musicali etniche). Secondo questo modello, l’economia urbana può essere rappresentata da una scala in cui ogni piolo

è occupato da uno specifico gruppo inserito in uno specifico settore lavorativo. Gli immigrati sono generalmente collocati ai piani inferiori della scala, ma possono intraprendere dei percorsi di risalita occupando posizioni successive lasciate vuote da altri gruppi che a loro volta si sono mobilitati. Lo schema di Waldinger sembra applicabile con alcune modifiche e restrizioni anche per le città europee tra le quali ad esempio Amsterdam. Secondo Rath in effetti può essere notata una tendenza di alcuni gruppi ad inserirsi in determinati settori occupazionali, tuttavia più che su base etnica, razziale queste specializzazioni sembrano avvenire su base socioculturale. Inoltre ‘il gioco’ di successione non avviene sempre in modo lineare nel caso di Amsterdam. A differenza dell’impostazione di Waldinger, Rath sostiene che non sia solo il network relazionale a determinare l’inserimento dell’immigrato all’interno di un determinato settore, ma che altri fattori giochino un ruolo fondamentale quali certamente le caratteristiche e le evoluzioni del mercato, le innovazioni tecnologiche e il quadro istituzionale di governo. Questi sono tutti degli elementi importanti per capire le dinamiche di sviluppo di determinate ‘economie etniche’. Inoltre le caratteristiche urbane di determinate zone della città influenzeranno la spazializzazione o meno di tali economie all’interno della città. Fattori strutturali, macro e fattori micro si intersecano nei processi di concentrazione etnica e spaziale di determinate imprese.

Un contributo interessante in questo senso ci è fornito da un saggio di Kesteloot e Meert (2000) che analizzano il caso di alcune aree centrali di Bruxelles, inner city neighbourhoods, caratterizzate da una forte concentrazione di immigrati sia in termini di residenza che di impresa. Dal punto di vista residenziale, gli autori parlano di una ‘segregazione’ degli immigrati in un settore residuale di case in affitto, di scarsa qualità con annessi problemi di degrado degli edifici e di speculazione sugli affitti. Si tratta di un’esclusione degli immigrati di tipo abitativo. Analizzando però la situazione dal punto di vista economico la concentrazione degli immigrati non sembra tradursi direttamente in segregazione ma al contrario sembra essere frutto di una precisa strategia di mercato per cui la prossimità spaziale assicura un incontro tra la domanda e l’offerta: da un lato l’alta densità della popolazione permette alle imprese ivi localizzate un facile accesso ad un ampia clientela e alla mano d’opera, d’altra parte la concentrazione di negozi gestiti da immigrati con prezzi accessibili permettono alla clientela una maggiore accessibilità ai beni30.

30 Un esempio noto di economia etnica di enclave è quello del quartiere di Belsunce a Marsiglia. In questo caso una medesima area è diventata sia luogo privilegiato di insediamento degli immigrati ma anche centro di scambio commerciale. Peraldi (2000) e Tarrius (1992) raccontano come la concentrazione degli immigrati non significhi segregazione o isolamento ma al contrario costituisca la principale risorsa per l’inserimento all’interno di reti commerciali che trascendono i confini cittadini, nonché quelli nazionali. Nel caso di Belsunce si potrebbe affermare che la “reciprocità” diventa il principale canale di accesso alle risorse. Il sistema commerciale si basa su regole informali

Inoltre come sottolineano gli autori, l’integrazione economica non può essere intesa solo in termini di scambio di mercato, ma esistono altre due importanti dimensioni che vanno considerate in quanto permettono l’accesso alle risorse, ovvero la ‘redistribuzione’ operata dallo stato e da altri tipi di istituzioni e la ‘reciprocità’ all’interno delle reti sociali e di mutuo aiuto. Tutte e tre queste dimensioni (mercato, redistribuzione, reciprocità) richiedono delle specifiche condizioni socio- spaziali, per cui ogni quartiere esibisce delle caratteristiche che possono favorire o ostacolare l’integrazione31. In sostanza il lavoro di Kesteloot e Meert suggerisce l’importanza di un’analisi approfondita all’interno delle aree di concentrazione immigrata di alcuni elementi per avere delle informazioni sulle strategie di sviluppo economico e sociale: dalle opportunità di impiego, ai centri commerciali, alle imprese etniche (per lo scambio di mercato), dall’edilizia sociale, alla qualità delle scuole, ai trasporti pubblici, alle agenzie sociali (per la redistribuzione) e infine dalle reti sociali ai luoghi di incontro (per la reciprocità). Inoltre il lavoro suggerisce i limiti delle azioni a base territoriale che possono agire solo su determinati elementi di integrazione economica, ad esempio la qualità degli spazi pubblici e associativi che alimentano i legami di reciprocità, ma non hanno alcun impatto su altri importanti questioni quali l’occupazione o la partecipazione politica che trascendono il livello locale.

Quali politiche?

Come dimostrato da Rath (2000), ed anche da Kesteloot e Meert (2000), le istituzioni hanno un ruolo importante nello sviluppo dell’economia etnica, nonché nei fenomeni di integrazione e quali gli accordi orali e l’obbligo reciproco. L’integrazione avviene attraverso relazioni personali che si formano su base famigliare ed etnica o anche in maniera più estesa si formano grazie alla frequentazione dei medesimi spazi, siano questi gli spazi commerciali, residenziali di quartiere, o ancora del tempo libero in ‘zone morali’ quali caffè, ristoranti e moschee.

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Gli inner city neighbourhoods di Bruxelles hanno apparentemente delle caratteristiche che indeboliscono l’integrazione economica quali l’isolamento sociale (reciprocità), la difficoltà di accesso al mercato del lavoro (mercato), lo scarso accesso ai beni di welfare e le povere condizioni abitative (redistribuzione), allo stesso tempo un’analisi più approfondita rivela dei potenziali interessanti. Innanzitutto, questi quartieri sono centrali, e la loro ubicazione, sommata all’alta densità della popolazione permette alle imprese ivi localizzate un facile accesso ad un ampia clientela e quindi allo scambio di mercato, d’altra parte la concentrazione di negozi gestiti da immigrati con prezzi accessibili permettono alla clientela una maggiore accessibilità ai beni. Inoltre, se queste zone sono povere di ‘spazi del welfare’ nonché i loro abitanti non essendo riconosciuti in termini di cittadinanza hanno poca possibilità di influenzare le decisioni politiche, tuttavia il passato da quartiere operaio assicura una forte presenza del terzo settore e dell’associazionismo religioso, sia cristiano che musulmano. Infine la differenziazione sociale interna alla comunità Turca che si è avuta nel corso degli anni assicura un sistema una solidarietà tra ‘ricchi e poveri’.

segregazione economica degli immigrati. I governi locali e sovra locali influenzano l’accesso al lavoro sia in modo diretto che in modo indiretto. A livello di azione diretta esistono infatti molte politiche (europee, nazionali, locali) sia di supporto all’occupazione, sia specifiche per l’incentivazione dell’impresa straniera, o di discriminazione positiva per l’inserimento dei migranti all’interno di settori di occupazione pubblica. Se queste iniziative rimangono per lo più settorializzate (a livello economico), spesso sono riscontrabili degli impatti a livello territoriale. In alcuni casi la dimensione territoriale è esplicitata, come nel caso di un’iniziativa del Comune di Roma che negli ultimi anni ha promosso lo sviluppo di impresa immigrata nelle periferie (anche il bando 2010 ha tolto la specifica della condizione di immigrato). In altri casi è invece un’assenza di regolazione che porta a degli effetti territoriali come la concentrazione di imprese cinesi di import export a Canonica-Sarpi a Milano (vedi Monteleone e Manzo, 2010).

Il caso di Canonica-Sarpi è interessante perché mette in luce alcune criticità ricorrenti nelle politiche italiane. La prima è per l’appunto quella che gli autori identificano nell’espressione “governo minimo” (p.144), ad indicare un quadro per lo più caratterizzato dall’assenza di regolazione. Così se da un lato le leggi nazionali sul commercio (D.Lgs 114/98 e D.Lgs. 223/2000) favoriscono la moltiplicazione di attività cinesi, dall’altro lato si riscontra una mancanza di declinazione dei decreti nazionali a livello locale, per cui né la Regione Lombardia né il Comune di Milano pensano a degli strumenti di programmazione in grado di coniugare la libertà commerciale con le esigenze del territorio, ovvero a regolamentare la distribuzione delle imprese negli ambiti urbani. Lo sviluppo di una situazione di conflitto tra gli interessi dei residenti e quelli dei