• Non ci sono risultati.

Ar p r sutta: sui pericoli (e l'inutilità) di leggere una biografia come fonte storica

Usi delle parole sulla vita del Buddha negli studi recent

3.1 Ar p r sutta: sui pericoli (e l'inutilità) di leggere una biografia come fonte storica

Nel capitolo precedente si è fatto cenno in più occasioni al testo dell'Ariyapariyesanā-sutta. Questo discorso è spesso citato come una delle fonti più autorevoli che riguardano la biografia del Buddha. Come visto, per alcuni studiosi, esso diviene la sede principale e più accreditata dove leggere gli eventi realmente accaduti al fondatore, dove cioè il racconto riguardante la vita del Buddha rimanda alla storia.

Racconto e storia, quindi? Il testo come fonte storica e quindi fedele contenitore e, anzi, rivelatore dei fatti avvenuti? Il supposto convergere del testo narrativo e dell'accadimento storico necessita di una più accurata indagine, una maggiore attenzione che valuti quanta verità storica vi sia nei testi fin qui analizzati e in quelli che si prenderanno in esame.

Ma torniamo all'Ariyapariyesanā-sutta. Nonostante la credibilità storica che autori come Alexander Wynne ha assegnato al testo suddetto, si è visto che le sue varie redazioni e le linee di trasmissione giunte sino a noi rivelano alti livelli di discordanza e discontinuità rispetto alle informazioni biografiche contenute. Cosa oltretutto confermata anche da altri sutta che, pur includendo materiali testuali affini, se ne discostano proponendo versioni differenti e alterate di quanto successo. Questa varietà del dato testuale consente di dubitare da subito che l'Ariyapariyesanā-sutta sia da intendere come un fedele ritratto o un resoconto dei fatti avvenuti. Pare più probabile, infatti, che anch'esso proponga una peculiare versione degli accadimenti sistematizzata e accordata secondo le precise finalità e intenzioni dei suoi autori.

A tal riguardo, è utile rivolgersi ad alcune illuminanti riflessioni di Jonathan Walters che proprio all'Ariyapariyesanā-sutta ha dedicato uno studio approfondito.150 L'autore, partendo proprio da questo testo e prendendolo come esempio, ha proposto una disamina più profonda degli episodi legati alla vita del Buddha capace di tenere in considerazione i molteplici livelli e criteri sui quali il processo di scrittura biografica è strutturato. Ne deriva, in prima istanza, un netto e condivisibile rifiuto di pensare al testo e ai testi biografici, seppur canonici e filologicamente più antichi, come resoconti storici degli avvenimenti. A riguardo, infatti, si è espresso con queste chiare considerazioni:

«Yet fixing the text at an early period does not in itself yield any significant historical information. If in fact in this instance we can circumvent the doubts raised about the antiquity of the suttas en bloc, we are still left with the question of how the autobiographical fragment ought to be interpreted […] As studies of the historical Jesus have made only too clear, what adepts thought about the founder a century or two after his death can be at great remove from the historical biography of the founder himself. The best our evidence allows us to say is that this autobiographical fragment accurately records the thoughts that somewhat later Buddhists had about the Buddha, or their beliefs about the words he spoke».151

Anche grazie a queste riflessioni, la lettura dei materiali biografici si può aprire a più profondi intendimenti e a un'analisi che tenga in considerazione i molteplici livelli costitutivi che il testo incorpora e che riversa, poi, verso la relativa comunità di fruitori e interpreti. Anche grazie alle considerazioni avanzate da studiosi del passato come Edward J. Thomas e Alfred Foucher e in tempi più recenti da Greg Bailey e Steven Collins, tutti autori tenuti in considerazione dal Jonathan Walters, i testi agiografici vengono ad essere pensati come prodotti di ingegneria sociale non più circoscrivibili e limitati alla loro struttura o alle sole tradizioni letterarie entro le quali trovano posto. Invero, compresi alla stregua di ‘atti narrativi’, essi aprono scenari inediti e ben più importanti da considerare, vere e proprie possibilità ermeneutiche di lettura della realtà storica – mutevole e caleidoscopica –, del fenomeno buddhista. Una questione che Jonathan Walters, in conclusione di articolo, riassume così:

«The suttas make possible a new sort of social history of the earliest stages in Buddhist history, nuanced by treating the texts themselves as actions within the sociohistorical circumstances of their production rather than as passive transmitters of neutral information. The suttas contain a wealth of literary beauty and efficacy and can therefore help us imagine early Buddhist worldviews with greater clarity than is afforded by the philosophical doctrines and historical facts we have hitherto extracted in bits from them. The suttas have their own biographies, histories of being read and of not being read, which potentially shed great light on later developments in every realm of Buddhist life».152

Queste riflessioni danno perciò sostegno a quanto sin qui proposto: dare preminenza ai materiali che formano i testi e pensarli dotati di un'estrema plasticità, dare cioè rilievo alle singole unità di

151 Ibidem, p. 256. 152 Ibidem, p. 283.

significato sempre pronte a essere ripescate nel ‘magma’ delle soluzioni testuali passate e a essere re-impiegate nella definizione di altri e nuovi testi, e quindi nella definizione di altri e differenti proponimenti ad opera dei loro redattori. I testi diventano così macchinari per l'assemblaggio di soluzioni tanto narrative quanto dottrinali e normative che producono e prospettano forme di ordinamento ideale per tutti i praticanti e per l'intera comunità.153

Da qui, dunque, si fa largo la necessità di valutare non solo quando le vicende si sono costituite, ma come e perché tali vicende hanno trovato formulazione. Chiaro a questo punto che la storia di un testo non vada più considerata unicamente come la sua cronologica disposizione all'interno di una tradizione letteraria e intellettuale, ma diventi la storia dell'accumulo dei significati, delle forme e degli usi che un testo trascina e trasforma per far acquisire nuove capacità di intervento nel mondo. Per questo, accanto alle pur fondamentali caratteristiche filologiche e ‘anagrafiche’ che un testo possiede vi sono da valutare le condizioni entro cui si è originato, gli intrecci e le volture di significato che esso ha proposto, ma anche le lacune che altri testi hanno colmato nel continuo processo di ridefinizione del senso e delle possibilità pratiche proposte. Ecco che tutte le discontinuità testuali ravvisabili devono segnalare allo studioso l'incedere e il mutare delle volontà e delle proposte offerte dalle agenzie buddhiste.154

153 Interpretati alla luce delle proposte di Cornelius Castoriadis, i testi qui considerati possono

essere intesi come programmi all'interno di un più ampio progetto istituente. escando dal ‘magma’ dei materiali che li costituiscono, i testi buddhisti di fatto sono strutturati al fine di articolare e aggiornare un progetto istituzionale in divenire. Da qui, dunque, gli stessi testi si fanno carico della serie di difficoltà, di finalità e di soluzioni prese a carico e messe in campo di volta in volta dalle varie agenzie buddhiste al fine di generare forme concrete, aggiornate e controllate d'azione, ma anche di cooperazione e di interazione tra individui (se si considerano, soprattutto, i testi dei Vinaya che specificano la forme di reciprocità da mantenere dentro e fuori dall'àmbito monastico). Si riveda tutto ciò attraverso le chiare parole di Cornelius Castoriadis: «la représentation de la transformation visée, la définition des objectifs, peut prendre – et doit nécessairement prendre, dans certaines conditions – la forme du programme. Le programme est une concrétisation provisoire des objectifs du project sur des points jugés essentiels dans les circonstances données, en tant que leur réalisation entraînerait ou faciliterait par sa propre dynamique la réalisation de l'ensemble du project […] Le programme passent, le project reste». C. Castoriadis, L'institution imaginaire de la société, ditions du Seuil, Paris, 1975, p. 116.

Per queste ragioni un testo non sembra più riferirsi alla ‘storia’ (history) in quanto tale, ma diviene un prodotto culturale dotato di ‘storicità’ (historicity). Si intende dire che un testo non rimanda alle ‘cose in quanto sono’, ma diviene esso stesso recipiente e generatore di conseguenze storico-sociali fondamentali e da interpretare alla luce delle precise dinamiche performative messe in campo:

‘History’ is no longer a web of events linked on an objective temporal grid; it is an array of phenomena that have to be considered in their temporally textured historicities. It is especially in narration that the multiple temporalities of historicity – objective and social – become manifest. Conventionally, in both fiction and history, narrative drapes its account on the framework of a plot that connects events, actions, and sub-plots to one another, organizing textual sequences through such devices as flashbacks and cuts from one scene or event to another. With Hayden White and Sande Cohen, narration can no longer be assumed to tell ‘what happened’ […] Narration, then, itself has theoretical stakes».155

Tornando ora a Ariyapariyesanā-sutta è facile immaginare che, lontano dall'essere un rendiconto di fatti, il sutta metta in fila una serie di eventi volti a creare e a istituire precisi significati. Dopotutto, se ci si pensa, la cogenza e la persuasione che il testo possibilità di ripensare e plasmare la ‘storia’ (history) così da poter orientare quella futura. Per un approfondimento su questo tema nel contesto sud asiatico antico si invita a considerare, all'interno di una sterminata bibliografia, almeno: F. Squarcini (a cura di), Boundaries, Dynamics and Construction of Traditions in South Asia, Firenze University Press, Firenze, 2005. Per interessanti riflessioni sulle modalità di lettura dei testi che formano le tradizioni intellettuali in Sudasia: R. Inden, “Introduction: From hilological to Dialogical Texts”, in R. Inden, J. alters, D. Ali (a cura di), Querying the Medieval: Texts and the History of Practices in South Asia, Oxford University Press, New York, 2000, pp. 3-28.

155 J.R. Hall, “Historicity and Sociohistorical Research”, in . uthwaite; S. . Turner (a cura di),

offre si manifesta a partire dallo stesso titolo: ‘discorso sulla nobile ricerca’.156 A partire dall'ordine disposto dal testo, infatti, si sviluppa la parabola biografica del Buddha che va dall'iniziale abbandono della famiglia alla formazione del primo ‘gruppo dei cinque monaci’ (pañcavaggiyā bhikkh ). Così l'opera si articola in due grandi porzioni: dapprima mette in serie le circostanze, gli accadimenti e i propositi esperiti e messi in atto dal fondatore fino alla risoluzione vittoriosa degli eventi rappresentata dal ‘risveglio’, successivamente la narrazione si spende a fornire i principali concetti teorici e pratici esposti ai primi discepoli del Buddha.

È possibile sintetizzare le sequenze narrative biografiche e dottrinarie in questo ordine:

i. Abbandono della famiglia. ii. Incontro con Āḷāra Kālāma. iii. Incontro con Uddaka Rāmaputta. iv. ‘Illuminazione’ nei pressi di Uruvelā.

v. Episodio di Brahmā Sahaṃpati/Decisione del Buddha di insegnare il dhamma. vi. Volontà di raggiungere Āḷāra Kālāma e Uddaka Rāmaputta (ormai deceduti). vii. Episodio dell'āj vaka Upaka sulla via verso Gayā.

viii. Incontro con il gruppo dei cinque monaci a Isipatana.

Insegnamento al gruppo dei cinque monaci: i. Su come elemosinare e distribuire il cibo.

ii. Su cinque facoltà che condannano al desiderio (kā a ṇa): forme↔vista, suoni↔udito, odori↔olfatto, sapore↔gusto, tocco↔tatto.

i. Metafora delle trappole che insidiano il praticante. iii. Sui quattro stadi jhāna.

iv. Sull'accesso alla ‘Sfera dello spazio infinito’. v. Sull'accesso alla ‘Sfera della coscienza infinita’. vi. Sull'accesso alla ‘Sfera del nulla’.

vii. Sull'accesso alla ‘Sfera delle né cognizione, né non-cognizione’. viii. Sul raggiungimento di ‘Cessazione di percezione e cognizione’,

‘discernimento’ (pa ā) ed ‘esaurimento delle fluttuazioni mentali’ (āsā a parikkh ṇā).

156 Si conosce anche un altro titolo dato al sutta presente in altre recensioni testuali: āsarāsi-sutta

(‘Dialogo sull'ammasso di trappole’). La metafora della trappola, inserita a un certo punto del testo e usata come ammonimento alla buona pratica per il monaco (PTS: MN, I, pp. 173-174), sembra confermare il primato della disciplina e dell'insegnamento sulla narrazione della vita del Buddha. Cfr. Anālayo, Comparative Study of the Majjhima-nikāya (vol. 1), op. cit., p. 17 ; J.S. alters, “Suttas as History”, op. cit., pp. 26 -269.

Ebbene, che questo percorso di ricerca da parte del Buddha mostri in realtà l'incedere di un percorso conoscitivo non deve stupire e sembra essere confermato in primis proprio dalla disposizione del narrato diviso fra racconto e istruzioni, fra percorso vissuto (dal Buddha) e percorso da vivere (per il praticante). Il testo, infatti, diviene uno strumento epistemico di orientamento, «un invito a vedere il mondo come» presentato dal Buddha, sin dall'inizio del sutta, ai monaci raccolti presso l'eremo del brahmano Rammaka.157 Esso diviene, in altri termini, una proposta stringente che esorta ad agire nella coerenza evento-atto disposta dalla stessa narrazione. Ecco, quindi, che seguire passo passo le istruzioni biografiche del Buddha e quindi la sua realizzazione è di fatto immettersi all'interno di un piano che lega indissolubilmente mezzi e fini, cioè congiunge concetti e forme d'esercizio a un obiettivo finale che si rende risolutivo. Ma è sempre il testo che giustifica e rende plausibili entrambi, percorso e meta, itinerario e traguardo, in quella stretta narrativa che Frank Kermode brillantemente ha definito essere ‘il senso di una fine’, vale a dire il conferimento di un termine e quindi di un compimento che rivela la costruzione de ‘il senso di un fine’.158 È quindi la coerenza stretta dalla narrazione che permette di scorgere una ragione dietro l'avvicendarsi dei fatti, con un esito chiaro per coloro che al testo si affidano: «il fare narrativo ri-significa il mondo nella sua dimensione temporale, nella misura in cui raccontare, recitare, vuol dire rifare l'azione seguendo l'invito del poema».159 Quindi, la descrizione di eventi giustificati entro l'Ariyapariyesanā-sutta – cioè resi giusti, conseguenti e coerenti –, mira a stabilire il dover essere delle cose, spinge ad apprendere le corrette disposizioni dottrinali e pratiche che i riceventi ideali di tale testo devono concepire e fare proprie.

Tuttavia, come si è visto attraverso l'episodio di Āḷ āra Kālāma e Uddaka Rāmaputta, il sutta non si è limitato a mostrare le azioni consone ma ha anche voluto ridurre alcune pratiche, seppur legittime, a soluzioni di second'ordine, a scelte possibili ma non risolutive, per intenderci potremmo dire che ha mostrato azioni meno

157 Cit. in P. Ricoeur, Tempo e racconto (Volume primo), op. cit., p. 133.

158 Cfr. F. Kermode, The Sense of an Ending: Studies in the Theory of Fiction, Oxford University Press,

New york, 1967. Si tratta di uno studio, quello di Frank Kermode, già utilizzato in ambito buddhologico da: S. Collins, Nirvana and Other Buddhist Felicities, op. cit., pp. 241-254.

‘nobili’.160

Eppure, oltre a questo evento così carico di questioni performative, anche altri episodi incorporati nel testo si candidano a essere considerati eventi dotati di specifiche finalità istituenti. È il caso, ad esempio, dell'intervento di Brahmā Sahaṃ pati.161

Nel testo, l'entrata in scena del dio si colloca precisamente dopo il conseguimento del ‘risveglio’ da parte di Gautama. Qui, la divinità, dopo essersi resa conto della ritrosia del Buddha a voler rendere noto il suo traguardo, si rivolge al medesimo con parole di lode e di incoraggiamento ad avviare e diffondere il dhamma appena scoperto. Tuttavia, al di là dalla trama degli eventi, se consideriamo con maggior perizia alcuni precisi passi del testo è chiaro che gli intenti perseguiti sembrano essere differenti e dotati di una più stringente logica performativa. Si legge, infatti, nei versi che riportano le esortazioni di Brahmā Sahaṃ pati:

«In passato, nel Magadha, si è palesata

una dottrina impura, escogitata da persone sordide. Apri [ora] la porta a ciò che non ha fine.

Fa sentire la dottrina incontaminata che hai appreso. Come uno che sta sulla sommità di un monte

e vede tutto attorno le persone,

così, o saggio, dotato della piena visione risali il palazzo del dhamma

ed emancipato dal dolore volgiti alle persone

schiacciate dalla pena, sopraffatte da nascita e vecchiaia. Sorgi, o eroe, vittorioso,

[come una] guida, [tu che sei] libero da debiti. Vaga nel mondo.

Insegna, o beato, il dhamma.

Ci saranno coloro che capiranno».162

Ora, è interessante considerare e comprendere più attentamente il discorso proferito dalla divinità. Questo perché, se ci si concentra

160 er altre discontinuità testuali legate alle pratiche è utile sapere che nella versione pāli di

Ariyapariyesanā-sutta Gautama, sotto la guida di Āḷāra Kālāma, sviluppa le cosiddette ‘cin ue facoltà’ (pa a in riyāni), ma nella versione cinese conservata in Madhyama-ā a a (di scuola Sarvāstivāda) non compaiono nella serie sati e sa ā hi. Cfr. Anālayo, "Brahmā's Invitation: The Ariyapariyesanā-sutta in the Light of its Madhyama-ā a a arallel", op. cit., p. 25. er altre divergenze si veda: Anālayo, Comparative Study of the Majjhima-nikāya (vol. 1), op. cit., pp. 170-189.

161 Cfr. MN 26 in PTS: MN, I, pp. 168-169.

162 ā rah si a a hes p bbe | dhammo asuddho samalehi cintito | apāp r’ e aṃ a a assa āraṃ | suṇantu dhammaṃ vimalenânubuddhaṃ | e e ya hā pabba a haniṭṭhito | ya hā pi passe ana aṃ samantato | a hūpa aṃ dhammamayaṃ sumedha | pāsā a ār yha sa an a akkh | s kā a iṇṇaṃ janatam apetasoko | a ekkhass ā i arābhibhū aṃ | Uṭṭhehi ra i i asaṅ ā a | sa ha āha anaṇa vicara loke | desassu ha a ā ha aṃ | a ā ār bha issan î i (MN 26 in PTS: MN, I, pp. 168-169). Medesimi versi si ritrovano anche nel Vinaya (PTS: Vin, I, pp. 5-6).

sulla prima parte del brano, è facile accorgersi che le espressioni usate da Brahmā Sahaṃ pati sembrano ben lontane dall'essere semplici parole d'elogio. Lungi dal mostrare una disinteressata volontà di descrivere stati di cose o qualità di persone, infatti, esse operano una netta cesura che distingue soggetti, dottrine e pratiche poste in aperto contrasto tra loro. Cosicché, entro i termini di paragone utilizzati dalla divinità, vengono messi subito a serrato confronto attori sociali e discipline compresenti all'interno di uno specifico territorio: l'importante regione del Magadha.163

L'esito di una siffatta separazione non sembra però fermarsi unicamente a una pura vis polemica. Dal distinguo creato dal testo si origina un ordine d'importanza che assegna chiare posizioni ai differenti elementi messi in gioco. Il testo, infatti, grazie a un'operazione in realtà assai semplice e che permette di attribuire opposte proprietà alle componenti che esso stesso contempla, conferisce alle dottrine convocate una disposizione gerarchica basata sulle qualità di vecchio e di nuovo, di puro e di impuro.164 Per mezzo di siffatta valutazione della realtà e attraverso un tale apparato persuasivo va da sé che tutto venga risolto a completo favore della figura del Buddha e del suo ordine d'idee. Ecco, ancora, che attraverso il ‘rigor di logica’ tracciato dal testo il dhamma buddhista giunge ad essere giustificato, giunge cioè a (dover) essere

163 È rilevante che si faccia esplicito riferimento a quest'area della pianura gangetica collocata nel

nord-est del subcontinente indiano. Johannes Bronkhorst, in uno studio dedicato, ha mostrato come tale regione fosse attraversata da un acceso conflitto fra diverse istanze dottrinali. Infatti, il probabile tardo sopraggiungere nella regione delle tradizioni brahmaniche legate al retaggio vedico sembra aver permesso un fiorente proliferare di sistemi filosofico-religiosi differenti e rivali. Da qui, dunque, il sorgere di intensa attività di contesa e reciproca interferenza sia sul piano teoretico, sia sul versante politico-sociale che ha naturalmente coinvolto anche le nascenti tradizioni buddhiste. Cfr. J. Bronkhorst, Greater Magadha: Studies in the Culture of Early India, Brill, Leiden, 2007.

164 A proposito delle dinamiche politico-sociali innescate dalle categorie ‘puro/impuro’ atrick

Olivelle afferma: «The purpose of rules of impurity is not to ensure permanent purity but to make people anxious about becoming impure and when they become impure, as they must, to make them anxious about recovering their lost purity. This anxiety, finally, is an integral part of the socializing process that sustains and strengthens cultural and social boundaries». P. Olivelle, “Caste and urity: A Study in the Language of the Dharma Literature”, in . livelle, Language, Texts, and Society: Explorations in Ancient Indian Culture and Religion, Anthem Press, London, 2011, p. 245. Per dinamiche simili all'interno delle tradizioni buddhiste si veda: S. Bretfeld, “ urifying the ure”, op. cit., pp. 32 -347.

inteso come ciò a cui è bene assegnare credito e consenso e quindi, in ultima battuta, ciò a cui è conveniente aderire. E le parole conclusive del dio, in questo senso, non lasciano dubbio in merito.

Ma oltre a questo tratto eminentemente politico che sorge da un preciso ordine e discorso testuale, vi è anche un altro aspetto che