• Non ci sono risultati.

Il rigore e l'errore : guardare alle ‘austerità’ del Buddha come a forme di controllo monastico

Usi delle parole sulla vita del Buddha negli studi recent

3.2 Il rigore e l'errore : guardare alle ‘austerità’ del Buddha come a forme di controllo monastico

A riprova di quanto detto e per avere un altro chiaro esempio delle dinamiche di contesa a proposito dell'azione corretta da compiere e di

177 Cfr. T. 3, vol. I, p. 156 c14.

178 È bene specificare che non si tratta di un inserimento particolarmente tardo vista la sua

presenza in molte altre porzioni testuali presenti nei vari canoni. Cfr. Anālayo, "Brahmā's Invitation”, op. cit., pp. 12-38. Sempre sulla rilevanza performativa di questo episodio si veda anche: D.T. Jones, “ hy Did Brahmā Ask the Buddha to Teach?”, in Buddhist Studies Review», Vol. 26 (1), 2 9, pp. 5- 102. Inoltre, ancora a confermare l'uso funzionale di figure divine presenti in altri immaginari mitologici, in molti sutta si rileva la presenza, accanto a uella di Brahmā, di Sakka (sans.: Śakra): divinità sovrana per eccellenza che richiama l'Indra vedico. Anche qui la volontà di accrescere il prestigio, stavolta regale, del Buddha sembra essere ine uivocabile. Cfr. Anālayo, “Śakra and the Destruction of Craving – A Case Study in the Role of Śakra in Early Buddhism”, in The Indian International Journal of Buddhist Studies», Vol. 12, 2011, pp. 157-176.

soluzioni normative offerte dai testi è possibile rivolgersi al tema delle ‘austerità’ del Buddha, ovvero delle pratiche estreme d'esercizio che Gautama avrebbe compiuto nei periodi appena precedenti la sua ‘illuminazione’.

È interessante notare come all'interno delle narrazioni biografiche la descrizione di tali esercizi ascetici abbia posizione appena successiva agli episodi di Ārāḍ a Kālāma e Udraka Rāmaputra e, quindi, trovi sede sia in molti testi pāli già considerati come Mahāsīhanāda- sutta,180 Ariyapariyesanā-sutta,181 Mahāsaccaka-sutta,182 Bodhirājakumāra- sutta183 e Saṅ gārava-sutta184, sia all'interno di molti apparati biografici del Buddha come

Saṅ ghabhedavastu,185 Mahāvastu,186

180 Cfr. MN 12 in PTS: MN, I, pp. 77-81. Qui la descrizione assai dettagliata delle varie pratiche è

richiamata dallo stesso Buddha: Sāriputta, io ho compiuto la vita ascetica divisa in uattro ripartizioni: ho compiuto la pratica ascetica estrema, [quella] estremamente rude, [quella] dell'abbandono estremo, [quella] dell'isolamento estremo» (Abhi ānā i kh panāhaṃ sārip a a raṅ asa annā a aṃ brahmacariyaṃ ari ā apass s aṃ h i para a apass , ūkhass aṃ h i para a ūkh , e h s aṃ h i para a e h , pa i i ass aṃ homi paramapavivitto) (MN, I, p. 77).

181 È singolare che in questo sutta non sia presente alcuna descrizione delle ‘austerità’, ma esse

vangano ricordate al Buddha dai cinque compagni che egli re-incontra subito dopo il raggiungimento del ‘risveglio’. Essi, infatti, fanno riferimento velato a queste dicendo: «Amico Gautama, tu non hai ottenuto alcun traguardo sovrumano, né alcuna discriminazione di visione e conoscenza attraverso le posture, la condotta e l'azione estrema/austera. Come puoi aver ottenuto il traguardo sovrumano, la discriminazione di visione e conoscenza, ora che [invece] vivi nell'abbondanza, hai abbandonato lo sforzo e sei tornato all'agiatezza?» ( āya pi kh aṃ ā s a a iriyāya āya paṭipa āya āya kkarakārikāya nā ha a ā ariṃ manussa ha ā a a ariya āṇadassanavisesaṃ. Kimpana tvaṃ etarahi bāh ik pa hāna ibbhan ā a bāh āya a hi a issasi ariṃ an ssa ha ā a a ariya āṇadassanavisesanti) (MN 26 in PTS: MN, I, p. 172).

182 Cfr. MN 36 in PTS: MN, I, pp. 242-246. 183 Cfr. MN 85 in PTS: MN, II, pp. 94. 184 Cfr. MN 100 in PTS: MN, II, pp. 212.

Lalitavistara,187 Nidānakathā,188 ma anche nei jātaka, in molti s tra Mahāyāna e diverse opere in redazione cinese.189

Ebbene, anche qui e in maniera del tutto simile a quanto avvenuto per i concetti sopra considerati e legati ai primi due maestri del Buddha, il fatto che l'esercizio estremo e solitario compiuto dal Buddha sia esplicitamente palesato come inadatto e inopportuno rivela ancora una volta la volontà degli istituti buddhisti di isolare, delegittimare e diminuire l'importanza di tali discipline all'interno delle condotte ordinarie dei praticanti buddhisti.190 È il Buddha stesso che, dopo avere descritto minuziosamente condotte estreme e comportamenti austeri come ad esempio ‘[tenere] i denti serrati e la lingua aderente al palato’ (dantehi dantamādhāya jivhāya tāluṃ

( isra pa ā) pronunciata dal buddha assume una differente disposizione rispetto ai testi in pāli, al ahā as (Mvu, II, pp. 121-123) e al Lalitavistara (Lal, XVII, pp. 181-182) che invece la pongono immediatamente dopo gli episodi di Ārāḍa Kālāma e Udraka Rāmaputra. Nel Saṅghabedavastu, infatti, tale similitudine è successiva al racconto delle ‘austerità’. Dun ue, l'accostamento che il Buddha fa tra la scheggia di legno che se bagnata risulta impossibile da accendere e le pratiche ascetiche che se non attentamente e completamente eseguite non conducono agli effetti sperati, mira in questo testo a rappresentare anche l'inutilità dello sforzo estremo nel raggiungimento dell'obiettivo finale del ‘risveglio’ e non è limitato a mostrare l'inefficacia delle discipline proprie di alcuni gruppi ascetici.

186 Cfr. Mvu, II, pp. 123-130, 202-205, 231-232, 263-264, 299. 187 Cfr. Lal, XVII, pp. 180-190.

188 Cfr. Jā, I, pp. 67-69.

189 er una raccolta sistematica dei testi che riguardano tale narrazione si veda: J. Rhi, “Some

Textual arallels for Gandhāran Art: Fasting Buddhas, Lalitavistara, and ar ṇāp ṇ ar ka”, in Journal of the International Association of Buddhist Studies», Vol. 29 (1), 2006 (2008), pp. 131-135. Cfr. anche: J. Strong, The Buddha, op. cit., pp. 82-88; H. Nakamura, Gotama Buddha (Vol. 1), op. cit., pp. 140-150.

190 Cfr. O. Freiberger, “Early Buddhism, Asceticism, and the olitics of the Middle ay”, in .

Freiberger (a cura di), Asceticism and Its Critics: Historical Accounts and Comparative Perspectives, Oxford University Press, New York, 2006, pp. 235-258. Si veda anche: A. Bareau, Recherches sur la biographie du Buddha, op. cit., 1963, pp. 45-54.

āhacca),191 ‘[sospendere] inspirazione ed espirazione da naso e bocca’ (mukhato ca nāsato ca assāsapassāse uparundhiṃ ) e ‘[assumere] poco cibo’ (thokaṃ thokaṃ āhāraṃ āhāreyyaṃ ), indica queste singole pratiche e molte altre come già in voga presso altri circoli ascetici, sino a esclamare: «non ottengo alcun traguardo sovrumano, né alcuna discriminazione di visione e conoscenza attraverso tali severe e dolorose azioni: vi è forse un’altra via per il risveglio».192

Riguardo all'assunzione di cibo da parte del futuro Buddha è importante segnalare un'altra discontinuità testuale che ancora di più mostra il tentativo di disciplinamento normativo messo in atto dai testi. In ‘dialoghi’ come Mahāsaccaka-sutta (ma anche il suo parallelo sanscrito e la versione cinese del testo contenuta in Ekottarika-āgama), Bodhirājakumāra-sutta, Saṅ gārava-sutta, ma anche nel

Saṅ ghabhedavastu,193 Gautama sembra avere l'intenzione di sospendere completamente l'ingestione di cibo. Tuttavia, a seguito dell'intervento di alcune divinità che paventano l'idea di somministrargli ‘forzosamente’ una sostanza energetica per non farlo morire, egli viene convinto a cibarsi di pochi e specifici alimenti tutti minuziosamente descritti. D'altro canto, invece, all'interno di

191 È rilevante ai fini delle discontinuità presenti entro le scritture canoniche segnalare che in

Vi akkasan hāna-sutta tale pratica venga al contrario ammessa e persino favorita: «Se, o monaci, pensieri nocivi e contaminanti – dotati di desiderio, avversione e delusione –, ancora sorgono nel bhikkhu che è intento nel controllo del pensiero, con denti serrati e la lingua aderente al palato egli dovrebbe abbattere, contenere e sottomettere il plesso dei pensieri» (Tassa ce bhikkhave bhikkhuno tesampi i akkānaṃ vitakkasaṅkhārasan hānaṃ anasikar ppa an e a pāpakā ak sa ā i akkā han ūpasaṃhi āpi sūpasaṃhi āpi hūpasaṃhi āpi, ena bhikkha e bhikkh nā an ehi an a ā hāya i hāya ā ṃ āha a e asā i aṃ abhiniggaṇhitabbaṃ abhinipp ḷetabbaṃ abhisan āpe abbaṃ) (MN 20 in PTS: MN, I, pp. 120-121).

192 Na kh panāhaṃ i āya kaṭ kāya kkarakārikāya a hi a hā i ariṃ an ssa ha ā

a a ariya āṇadassanavisesaṃ, siyā n kh a a b hāyā i (MN 36 in PTS: MN, I, p. 246). Espressione stereotipica, questa, come si può leggere anche dalla citazione molto simile presente nella nota poco sopra e di fatto inclusa in molti altri testi successivi.

Mahāvastu e Lalitavistara la decisione di non proseguire il digiuno completo viene presa dallo stesso Buddha prima dell'intervento delle divinità.194 Ebbene, questa seconda versione dell'evento – niente affatto casuale –, mostra molto probabilmente una sorta di duplice volontà di controllo sulle pratiche ‘estreme’ di tipo alimentari. Si intende dire che, pur all'interno di un episodio che mira a mostrare le ‘austerità’ come inadatte e sconvenienti, si è probabilmente reso necessario delegittimare ulteriormente il ‘completo digiuno’ palesandolo come una scelta ritenuta dallo stesso Gautama sin troppo avventata e rischiosa.195 Non sorprende, dunque, che il tema del cibo sia centrale nelle fasi che precedono l'‘illuminazione’. Questo è dimostrato dal fatto che, nel prosieguo dei racconti, l'abbandono delle ‘austerità’ sia segnato dall'assunzione di ‘cibo dolce’ da parte di Gautama,196 in alcune versioni testuali offerto da Sujātā,197 ma anche da Nandā e Nandabalā,198 che permette al futuro Buddha di

riacquistare le forze così da condursi nel luogo dove di lì a poco raggiungerà il ‘risveglio’.

Che queste discipline siano da rifuggire e sostituire con più efficienti proposte è chiaro anche in riferimento a un ulteriore episodio, di fatto appena successivo, che le fonti presentano: la ‘prima meditazione’ (paṭ hamaṃ jh

ānaṃ ) compiuta dal giovane Gautama. Dopo la descrizioni delle ‘austerità’ e per riportare Gautama sulla retta via della ricerca dell'‘illuminazione’, le narrazioni inseriscono l'improvviso ricordo della ‘prima meditazione’ avvenuta in giovane età sotto l'albero della mela-rosa

194 Cfr. Mvu, II, pp. 130-131, 204; Lal, XVIII, p. 193.

195 Cfr. Anālayo, Comparative Study of the Majjhima-nikāya (vol. 1), op. cit., p. 239.

196 Cfr. ad es. ahāsa aka-sutta (MN 36 in PTS: MN, I, p. 247); hirā ak āra-sutta (MN 85 in PTS:

MN, II, p. 94); Saṅ āra a-sutta (MN 1 in TS: MN, II, p. 212) dove egli si nutre di ‘riso dolce’ ( anak āsa).

197 Per il ahā as e il Lalitavistara la scena dall'assunzione del ‘cibo dolce’ ( a h pāyasa), donato

con un atto meritorio da Sujātā, è molto simile. Cfr. Mvu, II, p. 131 (s ā āye rā ikāye a h pāyasaṃ gṛh ā) e Lal, XVIII, p. 196 ( a h pāyasaṃ paribhuṅk e s a s ā āyā rā ika hi ran ka pā pā āya).

(jambu).199 Questa breve e improvvisa rievocazione di quanto accadde ancor prima di decidere la dipartita dalla casa e la ricerca della ‘liberazione’ funge in realtà come una vera e propria strategia narrativa. Essa serve a distogliere il futuro Buddha da altri futili esercizi e discipline palesate come erronee, ma, cosa più importante, consente al fruitore della vicenda di spostare l'attenzione dalle pratiche estreme all'importanza e alla centralità di alcuni elementi di dottrina. Infatti, il contenuto della ‘prima meditazione’ si rifà agli stadi dhyāna (pāli: jh

āna) e in particolare al primo stadio che Gautama ricorda di aver sperimentato tempo addietro. Ecco che il rinvio a questi strumenti teorico-pratici d'esercizio cui si darà piena conferma e dimostrazione col successivo ‘risveglio’ si rende nodale nell'opera di rifiuto e abbandono delle pratiche estreme.

A questo proposito va detto che tale episodio, solo accennato nei testi p

āli, riceverà in altre opere biografiche ulteriori sviluppi e più approfonditi avanzamenti.200 In queste opere, infatti, la ‘prima meditazione’ si svolge all'interno di un'inedita cornice narrativa calata entro una sorta di festival rurale al quale il giovane Gautama si trova a partecipare. In questa situazione bucolica egli, reso partecipe del duro lavoro nei campi e, soprattutto, dello stato di sofferenza generalizzato che attanaglia tutti gli esseri tanto umani quanto animali, si fa addirittura sperimentatore non solo del primo

199 I testi forniscono tre differenti versioni riguardanti i contenuti della ‘prima meditazione’

compiuta dal giovane Gautama: Selon les uns, le jeune homme a décidé de uitter la vie la ue parce u'il a reconnu les dangers cachés derrière les plaisirs de sens et u'il a découvert un bonheur supérieur à celui ue procurent ceux-ci. D'après d'autres, il a choisi la vie ascéti ue parce ue celle-ci était libre et u'il ne pouvait plus supporter les contraintes de la vie la ue. our les plus nombreux, c'est en méditant sur la vieillesse, la maladie, la mort et les autres maux, en comprenant leur caractère inéluctable et en cherchant à s'y soustraire u'il s'est déterminé à abandonner l'existence ordinaire des hommes». Cfr. A. Bareau, “La jeunesse du Buddha”, op. cit., pp. 21 -237, cit. p. 231.

200 Cfr. Buddhacarita (BC, 5.5-5.15); Saṅghabhedavastu (SBhV, I, pp. 75-78); ahā as (Mvu, II, pp.

stadio di riflessione, bensì di tutti e quattro gli stadi dhyāna.201 Insomma, si può dire che oltre agli avanzamenti nella rappresentazione dello stato di sofferenza che si rende comune e generico, ma che delinea anche una sorta di natura sovramondana di Gautama, l'utilizzo del ricordo serve a focalizzare e guidare i destinatari del racconto verso quelli che sono i corretti elementi di dottrina da apprendere. Tale rammemorazione, attivata invero attraverso lo strumento narrativo dell'analessi, mira a distogliere definitivamente l'attenzione da altri metodi ritenuti impropri, dalle ‘austerità’ che ‘fanno male’: è infatti da intendere così il termine duṣ karacaryā (p

āli: dukkarakārikā) impiegato a denotare, ma vien da dire anche valutare, tali pratiche. In questo modo tali discipline sono poste sin dall'inizio della vita del Buddha come fallaci e si dimostrano da subito lontane dai veri strumenti che possono condurre all'obiettivo finale prefisso. Tanto è vero che dopo la rievocazione del primo stadio dhyāna/jh

āna già sperimentato sotto l'albero jambu Gautama stesso dirà con tono sorpreso ma assertivo: «è forse questa la via che conduce verso il risveglio?».202

A ulteriore conferma che quelle di cui si sta trattando sono pratiche abbandonate dal Buddha e da abbandonare per qualsiasi praticante buddhista è possibile rivolgersi anche ad alcune ‘storie delle vite passate’ che ancor meglio ne mettono in mostra i chiari tratti negativi e, da qui, la volontà implicita di estrometterle dalle azioni ritenute idonee. In Lomahaṃ sa-jātaka (J 94), infatti, il

201 Cfr. V.R. Sasson, “The Buddha's “Childhood”: The Foundation for the Great Departure”, in V.R.

Sasson, Little Buddhas: Children and Childhoods in Buddhist Texts and Traditions, xford University ress, xford, 2 13, pp. 1- 4; H. Durt, “La ‘visite aux laboureurs’ et la ‘méditation sous l’arbre jambu’ dans les biographies sanskrites et chinoises du Buddha: tentative de classement des épisodes narratifs”, in L.A. Hercus et al. (a cura di), Indological and Buddhist Studies. Volume in Honour of Professor J.W. de Jong on his Sixtieth Birthday, Satguru Publications, New Delhi, 1982, pp. 95-12 ; A. Bareau, “La jeunesse du Buddha”, op. cit., pp. 225-226.

Buddha così descrive la pratica a cui il suo discepolo Sunakkhatta si è affidato:

«[Il bhikkhu] Sunakkhatta, o Sāriputta, trova diletto nella falsa condotta austera dello kṣatriya Kora. Egli, devoto della falsa ascesi, non trova più piacere in me. [Anche] io novantuno ere fa ho praticato la vita ascetica prendendo in considerazione la falsa disciplina d'altri gruppi, [quella] divisa in quattro ripartizioni, [per capire] se vi è virtù in ciò: ho compiuto la pratica ascetica estrema, [quella] estremamente rude, [quella] dell'abbandono estremo, [quella] dell'isolamento estremo».203

Una questione, quella della falsità di tali pratiche estreme e dell'ipocrisia che accompagna alcuni gruppi ascetici, che si ripresenta simile anche in Setaketu-jātaka (J 377),204 Gijjha-jātaka (J 427),205 Uddālaka-jātaka (J 487)206 e, soprattutto, Dadabbha-jātaka (J 322) che senza possibilità di fraintendimento narra:

«Molti bhikkhū, dopo aver fatto raccolta delle offerte a Savatthi, a metà strada verso Jetavana videro [alcuni adepti che praticavano] la falsa forma d'ascesi. [ oi], avvicinato il Buddha chiesero: “c'è ualche tipo di godimento da parte di quei samaṇa nell'eseguire uelle pratiche?”. Il Buddha rispose: “No, bhikkhu, non vi è [alcun] ottenimento, né virtù nell'eseguirle. [Quando] testate e ponderate esse sono come un rumore per la lepre, sono come un percorso sugli escrementi”».207

Da qui, ancora per il tramite rappresentativo delle azioni e delle valutazioni compiute dal Buddha all'interno dei testi si capisce bene

203 nakkha kira ārip a rakkha iyassa kkarakārikāya i hā ape pasann , i hā ape

pas i ṃ vaṭṭati, ahaṃ ito ekana ikappa a hake ‘a hi n kh e ha sār ’ i bāhiraka i hā apaṃ aṃsanto caturaṇ asa annā a aṃ brah a ariya āsaṃ vasiṃ, apass s aṃ h i para a apass , ūkh sudaṃ h i para a ūkh , e h s aṃ h i para a i h , pa i i s aṃ homi paramapavivitto (PTS: Jā, I, p. 39 ).

204 Cfr. Jā, III, p. 235. 205 Cfr. Jā, III, p. 4 3. 206 Cfr. Jā, IV, p. 299.

207 Atha sa bah ā bhikkhū ā a hiyaṃ piṇ āya ari ā e a anaṃ ā a han ā an arā a e e aṃ

i hā apaṃ tappente is ā an ā a hāraṃ upasaṃka i ā “a hi n kh bhan e a a i hiyasa aṇānaṃ a asa ā āne sār ” i p hiṃsu. a hā “na bhikkha e asaṃ a asa ā āne sār ā ises ā a hi, aṃ hi nighaṃsiya ānaṃ paparikkhiya ānaṃ kkārabhū i a asa isaṃ sasakassa daddabhasadisaṃ h i” (PTS: Jā, I, pp. 74-75).

come le agenzie buddhiste abbiano potuto mettere in campo un'operazione di tipo disciplinare al fine di controllare e limitare l'uso di quelli che erano percepiti come insegnamenti problematici e controversi, propri anche di altre comunità ascetiche, ma che evidentemente suscitavano interessa anche presso alcuni circoli di praticanti buddhisti. Si sta quindi parlando di una gestione delle pratiche ‘estreme’ compiuta grazie al tratto biografico del Buddha, ma sempre all'interno di un complesso e mai sopito dibattito su quali pratiche accettare e proporre come comuni e condivise. E infatti, a più riprese, entro la produzione canonica e post-canonica buddhista e in particolare all'interno del discorso sui dhutaṅ ga e sui dhutaguṇ a, ovvero sulle ‘modalità di purificazione’ e sulle ‘qualità della purificazione’, e in testi più tardi come il celebre Visuddhimagga di Buddhaghosa forme più rigorose di disciplina e di esercizio si sono comunque affacciate e hanno trovato spazio d'ammissione e convalida, cioè sono state consentite e prospettate per alcuni soggetti particolarmente ferventi.208

208 Le pratiche dhutaṅga, in numero di dodici o tredici a seconda delle liste che i testi presentano,

propongono, ad esempio, l'utilizzo di un preciso indumento per il monaco, ovvero la veste ‘dismessa’ (sans. paṃś kū ika; pāli: paṃs kū ika) e in numero limitato a tre (sans.: rai arika; pāli: e arika), si riferiscono al sostentamento solo attraverso il cibo ‘raccolto’ (sans.: paiṇ apā ika; pāli: piṇ apā ika), ‘di casa in casa’ (sapa ānika) e con la ciotola (pattapiṇ ika). Esse riguardano le modalità di consumo rigoroso del cibo elemosinato e riguardano, infine, forme rigide del risiedere: nella foresta (sans.: āraṇyaka; pāli: āra aka), sotto un albero (sans.: vṛkṣa ū ika; pāli: r kkha ū ika), all'aperto (sans.: ābhya akāśika; pāli: abbh kāsika), in prossimità di luoghi adibiti alla sepoltura (sans.: ś āśānika; pāli: s sānika) e persino sul non giacere mai sdraiati (sans.: naiṣadika; pāli: nessajjika). Cfr. J. Dantinne, Les a i s e ’as e (Dhutaguṇa) e s an i e e rinale, Thanh-Long, Bruxelles, 1991. Sulla teorizzazione di queste discipline compiuta da Buddhaghosa nel Visuddhimagga e per una proposta di vederle come tentativo di sedare gli aspri conflitti interni all'ambito buddhista, omogeneizzare i diversi gruppi di monaci e contenere le contese tra monasteri sul suolo srilankese si consideri il recente: S. Bretfeld, “ urifying the Pure: The Visuddhimagga, Forest-Dwellers and the Dynamics of Individual and Collective restige in Theravāda Buddhism”, in M. Bley; N. Jaspert; S. K ck (a cura di), Discourses of Purity in Transcultural

Un altro interessante tema biografico che si lega alla delegittimazione di alcune precise pratiche radicali è quello che concerne la figura di Devadatta. Nei molti testi e vicende che lo riguardano, costui, consanguineo del Buddha (alcune fonti tarde dicono addirittura cugino), viene preso come modello di cattiva condotta sino a divenire esempio di iniquità ed empietà. In particolare, il suo personaggio si lega al celebre tentativo di porsi a guida della comunità del Buddha, di sostituirsi al fondatore e, come conseguenza, di generare una ‘scissione del saṅ gha’ (sans.: saṃ ghabheda; pāli: saṅ ghabheda). Una vicenda, dunque, che racconta fasi e modalità di quello che è mostrato come il primo tentativo di scisma interno alla comunità buddhista e che trova sede nelle porzioni Skandhaka dei vari Vinaya a noi giunti, così come nelle sezioni del Vibhaṅ ga che descrivono le procedure normative relative al decimo saṃ ghāva eṣ a (pāli: saṅ ghādisesa).209

Sebbene una trattazione di questo esteso e complesso tema che si lega all'agiografia del Buddha non sia il fine di questo lavoro, è importante segnalare che la maggior parte dei testi utilizzino proprio alcune pratiche radicali come espediente adottato da Devadatta nel tentativo di fare breccia nella comunità dei monaci e convincerli a seguirlo. Proprio attraverso la promulgazione di tali discipline, infatti, è intenzione di Devadatta palesare l'indulgenza in cui è sprofondata la comunità a seguito delle scelte e della guida lassista del Buddha. Tutto ciò col fine dichiarato di accumulare prestigio Perspective (300–1600), Brill, Leiden, 2015, pp. 320-347.

209 Per una dissertazione estesa dell'episodio attraverso un'analisi dettagliata delle fonti si veda:

A. Bareau, “Les agissements de Devadatta selon les chapitres relatifs au schisme dans les divers Vinayapiṭaka”, in Bulletin de l'Ecole fran aise d'Extr me-Orient», Vol. 78, 1991, pp. 87-132. L'articolo non contempla le parti dedicate a Devadatta e allo scisma da lui prodotto presenti in SBhV, II, pp. 73-86, 202-210. Si veda anche: É. Lamotte, History of Indian Buddhism, op. cit., pp. 517, 657-658.

entro il gruppo monastico, piegarlo alla sua volontà e così sostituirsi all'autorità riconosciuta del Buddha. Dunque, se ci affidiamo al racconto pāli, questa vera e propria strategia capace di estromettere il fondatore e di catalizzare consenso assume la forma di