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La vita ideale: per una proposta di lettura normativa della biografia del Buddha

Sulle logiche di costruzione delle narrazioni circa la vita del Buddha

4.1 La vita ideale: per una proposta di lettura normativa della biografia del Buddha

Tutti gli esempi presi in considerazione nei capitoli precedenti, riprendendo in parte anche alcune intuizioni di studiosi come Étienne Lamotte, Erich Frauwallner e André Bareau, hanno voluto mostrare la chiara necessità delle istituzioni buddhiste di controllare e gestire la contingenza e l'agone sociale su più fronti. Questo al fine di mettere ordine non solo al proprio interno, quindi porre sotto controllo il gruppo e la comunità di praticanti e devoti buddhisti sempre a rischio di divisione e rottura, ma gestire anche le contese con altre realtà socio-religiose istituite e presenti sul territorio. Una tale opera di disciplinamento è stata compiuta attraverso una continua manipolazione narrativa sulla vita di colui che per primo ha mostrato lo spazio d'azione e l'orizzonte d'aspettativa dove volgere lo sguardo: il Buddha.

In questo senso, una rilettura dei testi biografici che riguardano il fondatore si rivela necessaria e indispensabile. Tuttavia, affinché l'indagine delle sequenze narrative sia efficace si deve affiancare alla lettura filologica dei materiali anche una prospettiva narratologica che si incarichi di indagare, attraverso le discontinuità biografiche, la polifonia delle soluzioni e il pόlemos delle posizioni attraverso le quali gli istituti buddhisti hanno operato, deciso, ma anche riorganizzato e conteso le proprie disposizioni in fatto di insegnamento e di pratica. È dunque nelle architetture testuali – che sono impalcature di senso e consenso –, che «bisogna discernere il rumore sordo e prolungato della battaglia» che tali istituti hanno combattuto per mettere sempre a tacere l'imperativo della contingenza, la densa selva delle discordie interne, ma anche la minaccia rappresentata da altri e diversi erogatori di soluzioni dottrinali e di proposte nell'ambito della prassi.232

Cosicché, per riassumere a grandi linee le prospettive metodologiche fin qui impiegate e rendere chiare le prossime mosse analitiche ed ermeneutiche si può affermare che:

l’odierna analisi dei contenuti di un’opera testuale facente parte di una tradizione non può pi fare a meno del contributo che viene dalla chiamata in causa e dallo studio delle relazioni agonistiche riflesse, in maniera trasfigurata e ‘derealizzata’, nei sistemi simbolici e nelle rappresentazioni sociali in essa impiegate».233

Ciò è ancor più vero se si pensa alle narrazioni che implicano le vicende del Buddha. Si è visto, infatti, come le diverse circostanze biografiche siano assolutamente funzionali a fissare particolari questioni dottrinali e di pratica, così come a dirimere contese endogene ed esogene alla comunità. Riflettere su tali episodi significa perciò farsi carico del contenuto narrativo presente nei testi, interpretato attraverso lo spettro performativo che sempre lo anima, che lo guida anche negli eventi che si reputano apparentemente descrittivi. L'agiografia del Buddha, dunque, si impone come «un medium simbolico insieme strutturato (dunque sottoponibile a un’analisi strutturale) e strutturante in quanto condizione di possibilità di quella forma primordiale del consenso che è l’accordo sul senso dei segni e sul senso del mondo che essi consentono di costruire».234 Un medium, si passi il termine, normo-narrativo che appunto attraverso la fabbricazione di storie produce anche catene di significati veridittivi e normativi su individuo, comunità e società.

E vista la sua presenza costante all'interno dei vari apparati letterari elaborati dalle tradizioni buddhiste, possiamo rappresentare il ricorso strumentale all'agiografia del Buddha attraverso questo schema:

Éditions Gallimard, Paris 1975), p. 340.

233 F. Squarcini, Tradens, traditum, recipiens, op. cit., p. 183.

234 . Bourdieu, “Genesi e struttura del campo religioso”, in R. Alciati; E.R. Urciuoli (a cura di), Il

campo religioso. Con due esercizi, Accademia University ress, Torino, 2 12, p. 74 (or. in Revue fran aise de sociologie», Vol. 12 (3), 1971, pp. 295-296).

Così, col fare appello alla scrittura agiografica sul Buddha, i s tra/sutta235 sin qui indagati hanno inteso dare primariamente ordine

alla dimensione dottrinale e pratica legata al singolo individuo, dunque alle riflessione metapratica che mira a orientare l'esercizio di sé in vista del fine agognato della ‘liberazione’,236

mentre le vicende biografiche contenute nei Vinaya han voluto per lo più regolamentare tutte le forme di relazione legate alla vita intra- comunitaria, ma anche negoziare i rapporti e gli scambi fra ambito monastico e ambito laico.237

235 Col termine sū ra/s a ci si riferisce ai cosiddetti ‘dialoghi’ contenuti nel Sutta-piṭaka, ma

anche alle versioni dei medesimi testi contenute nei canoni di altre scuole pervenute in diverse recensioni linguistiche. Come visto – ma questa sta diventando pratica comune all'interno della più recente ricerca specialistica –, una lettura sinottica delle varie versioni di un testo si rivela nodale nel comprendere le continuità o le volture di significato che gli stessi testi e le agenzie produttrici hanno inteso diffondere.

236 Riguardo al concetto di ‘metapraxis’ Thomas Kasulis scrive: metapraxis arises out of the

reflection on one's own praxis as a way of understanding and justifying that particular praxis. […] A metapratical theory, on the other hand, arises from within the praxis itself for the sake of the people involved in that praxis. It justifies their activity at least to themselves and possibly to some outsiders». Cfr. T. . Kasulis, “ hilosophy as Metapraxis”, in F. Reynolds; D. Tracy (a cura di), Discourse and Practice, SUNY Press, Albany, 1992, pp. 169-195, cit. p. 179.

Con ciò non si vuole dire che i due repertori testuali siano compartimenti stagni senza alcun tipo di connessione, anzi, i s tra/sutta ammettono e trattano al loro interno uno svariato numero di questioni che mostrano straordinari livelli di intertestualità e interdiscorsività con le porzioni normative dei vari canoni.238 Quello che si vuole proporre attraverso lo schema è tentare di mantenere separate, per ragioni euristiche, due connesse e correlate funzioni disposte dagli apparati che fanno ricorso alla biografia del Buddha: da una parte rendere il più efficace possibile la presa sul singolo individuo attraverso le istruzioni dottrinali e pratiche che egli deve eseguire, dall'altra parte regolare l'interazione e la cooperazione del saṅ gha, questo anche nei confronti della cosiddetta realtà laica che si sviluppa in modo simbiotico tutta attorno agli ambienti dei praticanti di ‘professione’. Per questo, se da una parte i s tra/sutta costruiscono la rete di significati ideali da fare propri per il soggetto, dall'altra parte i Vinaya si propongono di coordinare la vita comune e collettiva dell'intera comunità del Buddha. A questo, però, si aggiungono ulteriori apparati agiografici come jātaka e avadāna che, proprio per la peculiare diffusione geografica avuta, sono serviti come strumenti aggreganti, definitori e regolatori dei religious life. Likewise, whereas sū ras go into lengthy discourses on the value of meditation, for instance, Schopen has shown that Buddhist monastic law codes warn against rigorous engagement in contemplative exercises since it “makes you stupid”; in the law codes “ascetic, meditating monks … almost always appear as the butt of jokes, objects of ridicule, and – not uncommonly – sexual deviants. They are presented as irresponsible and of the type that give the order a bad name.”». S. Clarke, Family Matters in Indian Buddhist Monasticism, University of Hawai‘i ress, Honolulu, 2 14, pp. 16-17. Cfr. G. Bailey; I. Mabbett, The Sociology of Early Buddhism, op. cit., pp. -12; . von Hin ber, an b k ā i Literature, op. cit., pp. 16-18.

238 Bastino queste letture, infatti, per accorgersi del peso rilevante che all'interno dei sū ra/s a

assume la uestione normativa: R. Gethin, “Keeping the Buddha's Rules: The View from the S tra Piṭaka”, in R.R. French; M.A. Nathan, Buddhism and Law: An Introduction, Cambridge University Press, Cambridge, 2014, pp. 63-77; A.M. Blackburn, “Looking for the Vinaya: Monastic Discipline in the ractical Canons of the Theravāda”, in Journal of the International Association of Buddhist Studies», Vol. 22 (2), 1999, pp. 281-309. Per il caso inverso, dove sono i Vinaya che accumulano materiale eterogeneo, dottrinale e didattico, si veda: S. Clarke, Family Matters, op. cit., pp. 31-34. Su questo tema si invita a considerare anche le già citate ma sempre illuminanti pagine contenute in: A. Bareau, Recherches sur la biographie du Buddha, op. cit., 1963, pp. 361-373.

legami etico-sociali per le comunità dei devoti globalmente intese.239 Ecco perciò che l'intero processo biografico, esteso fra s tra e Vinaya, ma sistematizzato anche in altre peculiari forme testuali, ha avuto l'intento di dettare i regimi di corretta pratica individuale e di buona condotta collettiva intra- ed extra-comunitaria. Simili logiche narrative, dunque, oltre a dettare il ‘buon uso di sé’ e il ‘buon uso del mondo’ da mettere in atto, sono altresì servite a distanziarsi e a differenziarsi da altre dottrine e proposte d'azione perseguite da gruppi esterni alle tradizioni buddhiste sempre presenti all'interno del medesimo campo di contesa sociale.

Ebbene, va riconosciuto che questa tensione regolativa che innerva la costruzione della vita illustre e che lega sempre dottrina e pratica, individuo e gruppo, singolo e collettività, sembra raccogliersi massimamente proprio attorno a quelle biografie del Buddha considerate tra le più estese e complete, quelle che Étienne Lamotte ha definito essere le biografie autonome sul fondatore.240 In questi testi, infatti, il Buddha si mostra insieme paradigma perfetto di pratica ma anche di perfetta relazione col mondo, negoziando così tanto la dimensione soteriologica quanto quella pragmatico-sociale. Ed è appunto nelle vicende di vita che narrano di incontri, scambi, legami, conversioni, dibattiti, contese e pronunciamenti che questa tensione tra ‘dire il vero’ e ‘fare il giusto’ viene sempre ad essere calata entro edificanti livelli di esemplarità e di confronto col mondo. Si sta parlando quindi di livelli che si fanno rappresentativi e normativi nella misura in cui hanno garantito la continua definizione delle condotte che monaci o monache, devoti e devote, laici e laiche, dovevano e si trovavano a mettere in atto nelle relazioni sociali quotidiane e ordinarie.

Per questo motivo, ecco che, ad esempio, Saṅ ghabhedavastu e Mahāvastu e risultano essere sì ampi apparati biografici riguardanti la vita del Buddha, ma sono anche porzioni testuali appartenenti rispettivamente ai Vinaya delle scuole M lasarvāstivāda e

239 Cfr. M. Guagni, “Repetita iuvant”, op. cit., in part. pp. 2- 9; J.S. alters, “Communal Karma

and Karmic Community in Theravāda Buddhist History”, in J.C. Holt et al. (a cura di), Constituting Communities hera ā a his an he Re i i s C res h an h-East Asia, SUNY ress, Albany, 2 3, pp. 9-39; J. Strong, “The Transforming Gift: An Analysis of Devotional Acts of ffering in Buddhist Avadāna Literature”, in «History of Religions», Vol. 18 (3), 1979, pp. 221-237.

240 Per una veloce presentazione delle principali biografie del Buddha interpretate in senso

Mahāsāṃ ghika-Lokottaravāda.241 Dunque, sono apparati narrativi che già per la loro posizione all'interno di specifici apparati testuali mostrano un considerevole statuto nomotetico, ovvero un alto tasso di istanze normative attivate proprio dalle numerose storie che essi presentano e mettono in scena.242 Tuttavia, come detto, tali biografie proprio per accordare materiali speculativi e materiali didattici sono parimenti dotate di un elevato livello d'intertestualità con diversi s tra/sutta provenienti dalla caleidoscopica produzione letteraria buddhista. Tant'è vero che all'interno dell'esteso Mahāvastu non trovano sede solo le storie che riguardano le ‘vite passate’ (jātaka) del Buddha, oppure episodi ampi e articolati che raccontano dei rapporti complessi con la famiglia d'origine e persino con il suo clan dinastico – gli Śākya di Kapilavastu –, ma si ritrova anche una parte iniziale assai speculativa che mostra i prodromi dottrinali e le istruzioni all'avvio della carriera del bodhisattva.243 Tutto questo per

241 Riguardo al Saṅghabhedavastu si può dire che il manoscritto incompleto rinvenuto a Gilgit

viene datato attorno al VI e VII sec. d.C.. Tuttavia, il Vinaya M lasarvāstivāda entro il uale si inserisce è precedente: «The painstaking work of tracking and tracing developments outside the texts by Schopen and others before him has placed the in northwest India around “the first or second century of our era”». S. Clarke, Family Matters, op. cit., p. 20. Riguardo al ahā as : «We do not have hard evidence, such as inscriptions, attesting to the emergence of the Lokottaravāda, even if, from a number of later mentions of this school, we can estimate that it was already in existence in the first centuries of our era […] The uestion of the completion of the ahā as , after several centuries of compiling and incorporating a mass of disparate materials, is also a delicate one. But there is evidence that some of the later strata were not composed and included in the wider text before the 4th century AD. The

ahā as is mentioned as an autonomous text in sources dating from the late 6th century onward». V.

Tournier, “The ahā as and the Vinayapiṭaka of the Mahāsāṃghika-Lokottaravādin”, op. cit., p. 94.

242 Vale la pena ricordare un passo molto citato di Sylvain lévi che ben si presta a riassume la

natura composita ma straordinariamente normativa del Vinaya M lasarvāstivāda: «Un écrivain dont la fougue verbale et l’imagination surabondante évo uent le souvenir de Rabelais, et du meilleur de Rabelais, a pris prétexte des récits ternes et desséchés qui se répétaient dans le couvent à l’appui des prescriptions de la discipline ecclésiasti ue, pour en tirer une succession de contes ui veulent tre édifiants, mais ui sont surtout amusants, pittores ues ou émouvants à souhait. Le Vinaya des M lasarvāstivādin’s est une espèce de Bṛhatkathā à l’usage des moines». S. Lévi, “Note sur des manuscrits sanscrits provenant de Bamiyan (Afghanistan) et de Gilgit (Cachemire)”, in Journal Asiati ue», Vol. 23, 1932, p. 23. Cit. in G. Schopen “Cross-Dressing with the Dead”, op. cit., p. 75.

mostrare e rimarcare, ancora, l'incremento costante e dinamico a cui i vari apparati che formano l'agiografia del Buddha son stati sottoposti nel corso del tempo e all'interno delle diverse redazioni testuali. Un'estensione, quindi, che ha contemplato innesti, inclusioni e revisioni attorno a tematiche varie e differenti, insieme teoretiche e normative, filosofiche e relazionali, ma sempre articolate al fine di rendere aggiornata, persuasiva e cogente la riflessione sulla vita del fondatore.

Ora, a riprova di quanto detto, è utile segnalare un'altra importante biografia del Buddha che sembra essere stata prodotta a seguito di medesime logiche di impiego e di formalizzazione, cioè logiche funzionali al mettere in atto quel ‘discorso agiografico’ sul Buddha così carico di istanze performative e costituenti. Ci si riferisce al celebre Buddhacarita di A vaghoṣ a composto con ogni probabilità attorno al I-II sec. d.C.. È un'opera, questa, che in passato è stata riconosciuta prettamente da un punto di vista estetico, visto l'uso di un sanscrito poetico particolarmente tecnico ed espressivo tipico della letteratura kāvya, ma che a una più attenta indagine si rivela portatrice di ben più radicali proponimenti e volontà performative.244

Come già visto, anche in questo testo l'autore sembra aver adoperato, manipolato e ridisposto materiali già presenti all'interno dei diversi canoni buddhisti, ma allo stesso modo sembra anche essersi servito di tematiche e concetti estranei alla produzione intellettuale buddhista. Ebbene, attraverso la narrazione della vita del Buddha, innestata in realtà su una ben più fitta rete intertestuale e interdiscorsiva, A vaghoṣ a è stato capace di veicolare e consegnare al suo uditorio precise intenzioni, interpretazioni e costruzioni ideologiche su questione dottrinali e speculative, ma anche su delicate istanze d'ordine sociale e politico. Nel testo, infatti, si possono riscontrare inedite e innovative riflessioni riguardanti aspetti specifici della dottrina buddhista, dunque concetti messi a punto secondo le specifiche vedute teoretiche dell'autore,245 ma anche

244 Alcune delle questioni trattate erano già state evidenziate dal lavoro fondamentale di edizione

critica e traduzione compiuto da Edward H. Johnson. Cfr. E.H. Johnson, Aś a h ṣa’s Buddhacarita or Acts of the Buddha. Part II: Cantos i to xiv Translated From the Original Sanskrit Supplemented by the Tibetan Version, The University of the Panjab, Lahore, 1936, pp. xxiv-lxxix.

245 È un chiaro esempio la posizione filosofica riguardante l‘assenza di sé’ (sans.: anā an; pāli:

ana ā) che il testo eredita e trasforma secondo una sua originale linea argomentativa. Cfr. V. Eltschinger, “Aśvaghoṣa and His Canonical Sources I: Preaching Selflessness to King Bimbisāra and the

una vera e propria attività di attacco e delegittimazione che riguarda le posizioni teoretiche proprie di altre tradizioni coeve e di altri e autorevoli sistemi religiosi:

«in his systematic critique of contemporary non-Buddhist salvational systems […] Aśvaghoṣa provided detailed philosophical arguments against Vedic ritualism, asceticism, early Sāṃkhya and maybe Vaiśeṣika philosophy, as well as against the proponents of God ( ś ara), Nature (s abhā a) or Time (kā a) as the ultimate principles behind or above phenomenal reality […] In so doing, the poet developed an original apology of debate and philosophy, both of which were held in low esteem by disciplinary and ethically rigorist segments of the Buddhist communities».246

Ma oltre a questa dimensione propriamente speculativa giocata sull'avanzamento del pensiero buddhista e sulla contesa ermeneutica con altre tradizioni, nel testo vi è anche un chiaro attacco alla riflessione socio-normativa proposta da gruppi esterni alla compagine buddhista. A più riprese, infatti, nell'opera di A vaghoṣ a si attaccano gli assetti sociali propugnati dalle tradizioni intellettuali brahmaniche. Si intendono le convinzioni e disposizioni in materia di gestione politica, sociale e giuridica proposte all'interno della produzione giurisprudenziale brahmanica che evidentemente erano sentite come distanti e avverse ai principi cardine del buddhismo.

Numerosi e ben articolati sono gli studi che mostrano come proprio attorno al tema della ‘norma’ (dharma) sia giocato buona parte del Buddhacarita. Nel poema, infatti, si fa chiaro riferimento a opere cardine della tradizione brahmanica come Rāmāyaṇ a e Mahābhārata, contemplando in particolare le porzioni normative di questi testi dove si delinea l'orientamento e la condotta politico-sociale per l'individuo e la comunità. Dietro una tale operazione di richiamo narrativo vi è, in realtà, una ben più cogente volontà di sovvertire alcuni dei temi più importanti e persuasivi dell'epica indiana classica al fine di mostrare e legittimare la scelta e le proposte differenti del Buddha e quindi del devoto buddhista.247

Magadhans (Buddhacarita 16.73-93)”, in Journal of Indian hilosophy», Vol. 41 (2), 2 13, pp. 167-194. er altri paralleli intertestuali si veda anche: V. Eltschinger, “Aśvaghoṣa and His Canonical Sources II – Yaśas, the Kāśyapa Brothers and the Buddha’s Arrival in Rājagṛha (Buddhacarita 16.3-71)”, in Journal of the International Association of Buddhist Studies», Vol. 35 (1-2), 2013, pp. 171-224.

246 V. Eltschinger, “Aśvaghoṣa and His Canonical Sources I”, op. cit., pp. 16 -169.

In particolare, sottoposta a un vero e proprio fuoco incrociato di critiche e accuse è la ‘norma [che prevede precisi compiti] in base alle fasi/periodi d'età’ (ā ramadharma).248 Facile intuire che la scelta alla ‘rinuncia’ compiuta dal Buddha – e da tutti i praticanti buddhisti –, dovesse smarcarsi nel modo più assoluto da un'idea di ordinamento collettivo che prevedeva stadi progressivi e consecutivi di accesso ai ruoli sociali e che, in particolare, stabiliva solo in tarda età la possibilità di ricerca della ‘realizzazione’. Ed è proprio all'interno dei serrati dialoghi che il giovane Gautama intrattiene col padre Śuddhodana che la contesa volta a giudicare i gradi di scorrettezza di tale ordinamento normativo diviene anche una feroce disputa atta a stabilire il ‘tempo corretto’ per affrontare ress, New York, 2 11, pp. 625-6 2; A. Hiltebeitel, “Aśvaghoṣa’s Buddhacarita: The First Known Close and Critical Reading of the Brahmanical Sanskrit Epics”, in «Journal of Indian Philosophy», Vol. 34, 2006, pp. 229–286; P. Olivelle (trad.), Li e he ha by Aś a h ṣa, New York University Press/JJC Foundation, New York, 2008, pp. xxiv-lv.

248 Questi ‘stadi di vita’ pensati per i maschi di buona nascita, ovvero i ‘nati due volte’ (dvija), sono

così ripartiti all'interno dei trattati giuridici che li includono: brahmacarya (‘studentato’), gṛhastha (‘capofamiglia’), ānapras ha (‘ritiro nella foresta’), saṃnyāsa (‘rinuncia definitiva’). Tuttavia, come mostrato dalle ricerche di Patrick Olivelle, all'interno della prolifica letteratura giurisprudenziale brahmanica la riflessione sorta attorno alla loro classificazione è varia e discordante. Infatti, i diversi trattati giuridici che presentano gli ‘stadi di vita’ divergono proprio sulle modalità e i tempi d'accesso a questi. In particolare, la loro sistemazione in sequenza, ovvero la loro presa in carico ordinata e progressiva dalla nascita alla morte di un soggetto, sembra essere giunta in una fase relativamente tarda della stesura dei testi normativi e sarebbe avvenuta a seguito di una precisa strategia brahmanica