• Non ci sono risultati.

Così lontani, ma ancora così vicini: ulteriori questioni istituzionali, sociali e familiari dietro gli eventi della ‘rinuncia’

Moti di fuga nell’episodio dell’abbandono della casa del Buddha

5.3 Così lontani, ma ancora così vicini: ulteriori questioni istituzionali, sociali e familiari dietro gli eventi della ‘rinuncia’

Fin qui si è visto come l'episodio dell'‘abbandono’ raccolga, all'interno delle sue diverse e divergenti narrazioni, alcune delle questioni ideali e delle istanze dottrinali e pratiche che interessano il praticante buddhista all'avvio del suo personale percorso soteriologico. È necessario, però, comprendere e porre maggiore attenzione anche ad altre ragioni istituzionali che si ritrovano sempre nei racconti che mettono in scena tale evento e che sono legate alla dimensione pubblica e collettiva della comunità monastica. Serve, cioè, scorgere le forme di gestione e di controllo dell'ingresso nel saṅ gha, così come è importante fare luce sulle modalità di mantenimento dell'ordine e dell'unità del gruppo monastico ancora promosse attraverso l'evento della ‘rinuncia’.

Nelle pagine precedenti si è cercato di mostrare come il senso di rottura sociale offerto dall'episodio dell'‘abbandono’ non sia

casuale e derivato da un moto di fuga imprevisto e improvviso, come una lettura superficiale dei testi può far pensare. L'uscita di casa, invero, non vuole rendere il gesto di un generico abbandono e distacco dall'ambito riconosciuto delle forze sociali, ma consegna il senso della precisa scelta buddhista. In altre parole, più che porre l'uscita dalla mera quotidianità, l'‘abbandono’ mira a costituire l'avvio e l'ingresso entro una nuova e diversa soggettività. Per questa ragione, come afferma Patrick Olivelle a proposito delle finalità di autori e redattori dei testi sulla ‘rinuncia’: «we should bear in mind that the aim of the author is not to define renunciation qua tale, but to define what he regards as true renunciation».399 Dunque, gli autori dei testi qui considerati, dietro la rappresentazione di quali concetti e quali azioni hanno costituito la drastica e personale scelta del Buddha, hanno di conseguenza mostrato anche i precisi concetti e le specifiche condotte proprie della rinuncia buddhista, sebbene articolate nelle specificità delle varie scuole e dei vari testi.

E non poteva essere altrimenti, dal momento che sul territorio sud asiatico, all'epoca, oltre alla scelta buddhista, numerose erano le ‘vie’ di realizzazione (sans.: panthān, pathi, pratipada, mārga, vartman; pāli: paṭ ipadā, magga) che implicavano l'abbandono del ‘focolare domestico’ (aupāsana) e l'ingresso in più ristretti gruppi sociali basati sulla cosiddetta ‘associazione volontaria’.400

Insomma, ‘vie’ alternative che, sempre in vista di un fine ultimo come la ‘liberazione’, si opponevano al mantenimento e alla riproduzione dello status quo familiare e che, per fare questo, invitavano necessariamente a uscire, a deviare, a liberarsi dai vincoli e dai percorsi sociali riconosciuti e prestabiliti.401 Cosicché, per questi gruppi di ‘rinuncianti’ (sans.: ramaṇ a; pāli: saman ā), oppure di ‘vaganti’ (sans.: parivrājaka, parivrāt, pravrajita; pāli: paribbājaka/paribbājikā) come spesso li identificano le fonti brahmaniche intente a registrarne la presenza e regolarne le condotte, ciò che era prioritario fare era dotarsi di forme e formule ufficiali di emancipazione e di uscita dalle stringenti dinamiche del vivere

399 P. Olivelle, “A Denifition of orld Renunciation”, in Collected Essays II: Ascetics and Brahmins.

Studies in Ideologies and Institutions, Firenze University Press, Firenze, 2008, p. 65.

400 Cfr. F. Squarcini, Tradens, traditum, recipiens, op. cit., pp. 50-77, 129-162.

401 Sulla dimensione retorica, metaforica e pragmatica della ‘via’, del ‘camminare’ e del

‘vagabondare’ si veda: . livelle, “ n the Road: The Religious Significance of alking”, in Rocznik Orientalistyczny», Vol. 50, 2007, pp. 173-187.

comune e sociale.402 Tuttavia, per questi stessi gruppi era allo stesso tempo necessario mettere in campo strategie di legittimazione e reciproca differenziazione. In altre parole, essi dovevano distinguersi fra loro attraverso formule riconosciute e riconoscibili in cui i momenti delicati e decisivi dell'uscita dalla società e dell'ingresso nel nuovo gruppo fossero guidati da precise modalità di adesione e affiliazione.403

A dimostrazione di queste precise politiche identitarie organizzate dai testi è possibile prendere come esempio l'uso che entro le fonti buddhiste si fa proprio dei termini parivrājaka e parivrājikā, così come i corrispettivi termini pāli paribbājaka e paribbājikā.404

Con questi lemmi, vengono denotati in modo generico il/la ‘rinunciante’, o meglio, in senso letterale, ‘colui/colei che si è completamente allontanato/a’. Questa caratterizzazione generica e indefinita del rinunciante, però, non è mai direttamente riferita agli appartenenti del saṅ gha,405 ma si assiste a un suo utilizzo in senso negativo e oppositivo. Tanto che nei confronti di tali figure i monaci e le monache hanno spesso contese, ovvero opposte e divergenti

402 Cfr. P. Olivelle, “Renouncer and Renunciation in the Dhar aśās ras”, in R. Lariviere (a cura di),

ies in Dhar aśās ra, Firma KLM, Calcutta, 1984, pp. 115-121 (par. Entry Into Renunciation).

403 Un discorso sulla ‘rinuncia’ dalle complesse e assai delicate dinamiche quindi che ha

riguardato, ad esempio, anche il coevo gruppo ‘ascetico’ jaina. Si veda a prosposito: J. Geen, “The ower of ersuasion: The use of Dialogues to Justify and romote ‘Early’ Renunciation in the Jaina and Hindu Traditions”, in B. Black; L. atton (a cura di), Dialogue in Early South Asian Religions: Hindu, Buddhist, and Jain Traditions, Routledge, London/New York, 2016, pp. 191-2 5; . Granoff, “Jain Stories Inspiring Renunciation”, in D.S. Lopez Jr. (a cura di), Religions of Asia in Practice: An Anthology, Princeton University Press, Princeton, 2002, pp. 88-93; P. Dundas, The Jains (Second edition), Routledge, London/New York, 2002, pp. 153-157. Per uno sguardo antropologico a queste necessità di identificazione e differenziazione dei rinuncianti si rimanda a: R. Burghart, “Renunciation in the Religious Traditions of South Asia”, in Man», Vol. 1 (4), 19 3, pp. 635-653.

404 Cfr. M. Jyväsj rvi, “Parivrājaka and Parivrajitā: Categories of Ascetic Women in Dharmaśās ra

and Vinaya Commentaries”, in «Indologica Taurinensia», Vol. 33, 2007, pp. 73-92.

405 Si assiste al massimo all'uso aggettivale di parivrajitā e corrispettivi pāli pa a i ā, pa a i ikā,

pa a i ā, pa a ikā in riferimento alle monache, oppure pabbajita, pabā i a in riferimento ai monaci. In ogni caso, mai si assiste all'impiego sostantivale per qualificare esponenti della comunità monastica buddhista. Cfr. Ibidem, pp. 77-82.

prospettive pratico-dottrinali.406 A questo si aggiunge che nel contesto delle fonti in pāli i termini paribbājaka e paribbājikā compaiono persino all'interno delle classificazioni che danno elenco dei gruppi di asceti non buddhisti.407 Per questi motivi, nell'ottica delle identità in costruzione e delle distinzioni identitarie che i testi promuovono si può affermare che: «Buddhist monastic discourse attempts to create a difference – to draw visible distinctions, both in terms of language and external behavior – that would set Buddhist monks and nuns apart from those dubious others».408 Dunque, le figure di questi ‘allontanati’ sembrano servire ai proferitori del discorso buddhista da contraltare alle figure che (e)seguono correttamente l'insegnamento del Buddha. Questi generici rinuncianti, in altre parole, fungono da individui ‘altri’ che, pur essendosi allontanati dalle case, non perseguono le modalità, i mezzi e i fini stabiliti dal saṅ gha, ovvero quella serie di qualifiche che rendono il senso del ‘noi’ buddhista. Tutto questo quasi a dire ‘è vero che anche loro se ne sono andati, ma non come noi, dunque non sono noi’.409

Per tali ragioni, quindi, gli autori dei testi biografici qui indagati hanno incluso nelle varie rappresentazioni dell'‘abbandono’ di Gautama aspetti ed elementi, regole e questioni, problemi e soluzioni propri della prospettiva buddhista, offrendo cioè una versione precisa e istituzionale dell'atto di ‘rinuncia al mondo’. In quello che va compreso come un campo semantico capace di dare senso alla ‘rinuncia’ di Gautama si sono così articolati e inclusi tutti gli elementi utili a definire e illustrare il relativo campo della rinuncia ordinaria a cui il neofita buddhista deve corrispondere e deve fare suo. Vale a dire tutte quelle istruzioni, direttive e

406 Basti vedere le domande poste dal paribbā aka Sāmaṇḍaka a Sāriputta nella porzione

ā aṇ aka-vagga (SN 39.1-16 in PTS: SN, IV, pp. 261-262), oppure il confronto fra Udāyi (definito samaṇa) e il paribbā aka akuludāy e la conversione finale di uest'ultimo in Cūḷasak āyi-sutta (PTS: MN, II, pp. 29-40).

407 Cfr. ad es. Sattajaṭila-sutta (SN 3.11 in PTS: SN, I, p. 78); AN 5.293-295 in PTS: AN, III, pp. 276-277

(in part. AN 2.297).

408 Cfr. M. Jyv sj rvi, “ ari rā aka and ari ra i ā”, op. cit., p. 4.

409 Per ulteriori riflessioni sulla costruzione dell'alterità e dell'identità entro il Vinaya Theravāda

si veda: C. Maes, “Flirtation with the ther: An Examination of the rocesses of thering of the Early Buddhist Ascetic Community in the āli Vinaya”, in Bulletin of the School of riental and African Studies», 2016, pp. 1-23.

compiti capaci di rendere un individuo un bhikṣ u. Tutto questo al fine di orientare e di controllare il corretto adempimento dell'abbandono di casa e il conseguente ingresso nella sfera monastica.

A seguito della necessità pressante di distinguersi da altre ‘vie’ e da altri rinuncianti, l'importanza, ovvero la capacità di portare dentro, di creare il senso del gruppo, della ‘grande rinuncia’ non può essere sminuita. Essa si è resa uno strumento nodale nel continuo sforzo istituzionale di controllare e gestire altri e nuovi abbandoni, di includere altri e diversi individui, di formare altri e numerosi ramaṇ a/saman ā del Buddha.

A questo proposito, solo per dare il senso del potere aggregante che si raccoglie attorno alla ‘rinuncia’ del Buddha, ci si può rivolgere a un sutta assai celebre e molto indagato nella letteratura specialistica, si sta parlando di Aggañña-sutta.410 Questo testo, mosso dalla volontà di mostrare l'eccellenza della compagine buddhista attraverso una dimostrazione di tipo cosmogonico che ironicamente vuole prendere di mira i miti fondativi brahmanici, mostra l'affinità tra l'‘abbandono’ operato dal Buddha e quello dei monaci ordinari. Tuttavia, questa volta, la resa della ‘rinuncia’ non è presente sotto forma di formula e pericope atta a sintetizzare la scelta personale del monaco, bensì come criterio accomunante che lega l'intera compagine dei monaci. Si legge:

«Vāseṭṭha, il re Pasenadi del Kosala sa che l'asceta Gautama ha abbandonato l'illustre famiglia degli Sakya. Gli Sakya, o Vāseṭṭha, sono vassalli del re Pasenadi del Kosala. Essi gli rendono onore, si prostrano, gli fanno omaggio e lo trattano da amico. Così [similmente] il re Pasenadi del Kosala rende onore al Tathāgata […] Voi, o Vāseṭṭha, che siete diversi [l'un l'altro] per nascita, nome, stirpe e famiglia, avete abbandonato casa per raggiungere lo stato di senza casa. Quando vi si chiede “chi siete?”, dite: “Noi siamo i rinuncianti [appartenenti] al figlio degli Sakya”.411 Quando

410 Cfr. DN 27 in PTS: DN, III, pp. 80-99.

411 La traduzione che offre Steven Collins we are sons of the Sakyan» (S. Collins, “The Discourse

on What is Primary (Aggañña-Sutta): An Annotated Translation”, in Journal of Indian hilosophy», Vol. 21, 2003, pp. 341, 354) è corretta da Oliver Freiberger in «Wir sind Asketen, die zum Sakyasohn gehören», pensato come un marcatore di identità sociologica (Cfr. O. Freiberger, Der Orden in der Lehre. Zur religiösen Deutung des Saṅgha im frühen Buddhismus, Harassowitz Verlag, Wiesbaden, 2000, pp. 221- 225). Cfr. anche . Harvey, “The aṅ ha of Noble ā akas, with Particular Reference to their Trainee Member, the erson ‘ ractising for the Realization of the Stream-entry-fruit’”, in Buddhist Studies Review», Vol. 30 (1), 2013, p. 9.

qualcuno ha fede nel Tathāgata […] uella persona può dire opportunamente: “Io sono figlio del Buddha, nato dalla sua bocca, nato dal

dhamma, creato dal dhamma, erede del ha a”».412

Ebbene, da questo breve passo si può facilmente riconoscere quanto l'abbandono di casa sia l'elemento centrale che accomuna tanto la rappresentazione del Buddha quanto quella del multiforme e variegato gruppo dei bhikkh . Questo esempio mostra come nell'auto- rappresentazione del gruppo monastico, di fatto fornita dagli istituti buddhisti, fosse necessario ancorare la ‘rinuncia’ ordinaria, collettiva e pubblica dei diversi monaci all'episodio dell'‘abbandono’ del Buddha. Tutto ciò al fine di dare fondamento e legittimità a quell'idea di ‘noi’ collettivo raccolta proprio attorno alla comunanza di intenzioni e di pratiche sempre rinviate ad un modello unico e autorevole. Pertanto, risulta altrettanto chiaro quanto il rimando identitario che conferisce unità ai molti – mostrati come diversi per origine e provenienza ma uniti proprio attraverso quanto hanno deciso e fatto in comune –, poggi proprio sull'assonanza che esiste in primis fra la ‘rinuncia’ del Buddha e quella di coloro che seguono la sua ‘via’, ma qui sarebbe il caso di dire di coloro che si rifanno e ripetono in prima istanza la sua ‘dipartita’.

Queste designazioni identitarie, o meglio, questi atti di identificazione che vengono sanciti attraverso il rimando all'atto iniziale dell'‘abbandono’ di Gautama conducono addirittura a un successivo e più importante accostamento inclusivo. I bhikkh , infatti, vengono pensati e resi figli del discendente degli Sakya di Kapilavastu, dunque figli del Buddha, nati dalle sue parole, riprendendo il mito brahmanico dell'origine dell'uomo e delle classi sociali che vede appunto i brāhmaṇ a essere i più importanti nella gerarchia che ordina i viventi poiché nati dalla bocca del Puruṣ a, dell'uomo primordiale (ruolo successivamente incarnato anche dalla divinità Brahmā).413 Cosicché, l'accostamento a causa del medesimo atto

412 ānā i kh Vāseṭṭhā rā ā asena sa “ a aṇ a an ar akyak ā pabba i ” i. akyā kh

pana Vāseṭṭha rañño Pasenadi- sa assa an y ā bha an i. ar n i kh Vāseṭṭha sakyā ra e asena i hi sa e nipa akāraṃ abhi ā anaṃ paccuṭṭhānaṃ añjalikammaṃ sā ika aṃ […] karoti taṃ rā ā asena i sa a hā a e nipa akāraṃ […] he kh a ha Vāseṭṭhā nānā a ā nānānā ā nānā ā nānāk ā a āras ā ana āriyaṃ pabba i ā. “ e he i?” p ṭṭhā sa ānā, “ a aṇā akyāp iya hā i” paṭi ānā ha. Yassa kh panassa Vāseṭṭhā a hā a e sa hā ni iṭṭhā […] asse aṃ kallaṃ a anāya “bha a a ' hi p ras kha ā ha a ha ani i ha a āyā ” i.” (DN 27 in PTS: DN, III, pp. 83-84).

di ‘rinuncia’ finisce per beneficiare di una ben più dirompente identificazione attraverso l'accostamento a un Buddha che è un nobile ks atriya,414 cosa che di riflesso rende ogni appartenente al saṅ gha capace di pensarsi rinato entro un nuovo e più elevato ordo ordinatus, una famigliare del Buddha per diritto acquisito, reso di fatto erede legittimo del suo insegnamento.415

Ecco perché, entro un siffatto gioco di nessi e relazioni, in quella che ha tutta l'aria di essere un'operazione che ingloba e riconduce a sé alcuni dei meccanismi generatori dell’ordine sociale, l'atto della ‘rinuncia’ si fonde con tutta una serie di motivazioni cosmologiche, genealogiche e dinastiche che hanno come fulcro il Buddha e che permettono al testo di garantire da una parte il primato simbolico della scelta buddhista, dall'altra l'unità e la coesione interna del gruppo dei monaci.

Queste logiche di affiliazione che il testo crea in continuità con la biografia del Buddha mettono in luce, però, anche altro. Mostrano cioè la preoccupazione e l'urgenza delle agenzie buddhiste di legittimare in senso sociale, dentro e fuori l'ambito monastico, il nuovo status acquisito e la nuova posizione raggiunta da questi ‘nuovi individui’ volontariamente riuniti. In altri termini, l'attenzione nell'avvalorare la scelta individuale e l'unità collettiva rivela un attento e continuo processo di mediazione fra sociali (varna) e mito eziologico che fonda il primato simbolico brahmanico. Brahmā, invece, risulta creatore delle classi sociali in ahābhāra a XII,73.3-8.

414 Il lungo racconto che, ad esempio, apre Saṅghabedhavastu include e approfondisce le vicende

raccontate in Aggañña-sutta e pone in risalto la stirpe guerriera di Gautama e la sua figura di sovrano dharmico. Qui, Maugdalyāyana delinea la genealogia del fondatore che procede dai primi deva Ābhāsvara fino all'asceta Gautama progenitore di Ikṣvāku (pāli: kkāka), figura ben nota e presente in molti testi brahmanici come sovrano ideale e primo re della dinastia solare. A questo segue l'elenco di re che da Ikṣvāku portano alla fondazione di Kapilavastu sino a Siṃhahanu e alla salita al trono da parte di Śuddhodana, prima di introdurre la discesa dal cielo Tuṣita di Gautama, il futuro Buddha. Cfr. SBhV, I, pp. 5-39.

415 Questa dimensione genealogica e fortemente istitutiva, persino politica, di Aggañña-sutta è

stata oscurata nella storia degli studi dedicati al testo. Infatti, l'analisi del racconto ha preso in considerazione in particolare brani che, a parere di alcuni studiosi, sembravano presentare una teoria dell'egualitarismo e parevano descrivere una sorta di ‘contratto sociale’ ante litteram. Un tipo di lettura criticata da: A. Huxley, “The Buddha and the Social Contract” in Journal of Indian hilosophy», Vol. 24 (4), 1996, pp. 407-420. Per una replica: S. Collins, Nirvana and Other Buddhist Felicities, op. cit., pp. 602-615.

realtà diverse – quella ‘ascetica’ e quella ‘laica’ –, retoricamente poste dai testi come divergenti e opposte, ma di fatto sempre legate e sempre implicantisi. Lungi dal considerare l'ingresso nella comunità monastica come un definitivo allontanamento dal mondo, le strategie di legittimazione del testo, tra cui anche il richiamo biografico all'‘abbandono’, segnano e segnalano il complesso e mai sopito compito di negoziare, gestire e controllare l'uscita di un individuo da una condizione familiare e sociale stabilita e il suo ingresso entro una nuova dimensione collettiva fondata su altre e nuove regole, altre e differenti condotte e logiche aggreganti. Dimensioni e ‘semiosfere’, queste, impossibili da scindere e separate in modo netto dal momento che l’istituto monastico si è trovato a dover governare le relazioni sociali di soggetti provenienti da ambienti sociali dai quali è spesso difficile affrancarsi, così come a dover impostare strategie per il reclutamento di novizi e nuovi devoti all'interno delle varie comunità, ma anche per ottenere beni e risorse primarie sul territorio. Da qui, dunque, la volontà dei magisteri buddhisti di motivare, legittimare e rendere adeguata la propria scelta e la propria posizione agli occhi degli ‘altri’, ovvero agli occhi di coloro che stanno e restano ‘fuori’ dal gruppo, di coloro che potrebbero entrarci, ma anche di coloro che ‘vedono entrare’ nel saṅ gha esponenti delle proprie (spesso ricche) famiglie.

In tal senso, è utile tenere separate le idee di ‘discorso ascetico’ e di ‘discorso monastico’. Elementi complementari nel costruire l'identità del gruppo buddhista, ma anche divergenti visto le diverse finalità che si prefiggono nei confronti del bhikkhu: l'uno di offrire l'aspettativa, il fine ideale e sovra-mondano che diviene anche il moto di fuga dalla società presentata come ostacolo alla ‘realizzazione’, l'altro si propone invece di gestire la contingenza, ovvero i mezzi pratici intra-mondani del monaco, dunque il grado pragmatico di intervento in una realtà complessa e che rende la ‘fuga’ radicale impossibile.416

416 Si segnalano qui solo alcuni fra i testi principali che mettono a tema la questione e muovono le

Tutto questo lo si capisce bene dalle battute iniziali dello stesso Aggañña-sutta. Tutte le soluzioni che il testo contiene, infatti, sembrano partire dalla necessità di emanciparsi da alcune accuse che importanti esponenti brāhmaṇ a rivolgono ai discepoli del Buddha. Accuse che hanno molto a che fare con il tema della ‘rinuncia’ e dell'‘abbandono’ delle case. Si legge a riguardo:

«Il Buddha disse a Vāseṭṭha: “Vāseṭṭha, voi brāh aṇa per nascita, brāh aṇa per stirpe, brāh aṇa di famiglia avete abbandonato la casa per lo condizione di senza casa. Non vi oltraggiano e vi diffamano i brāh aṇa [per uesto]?”. “Sì, i brāh aṇa ci oltraggiano e diffamano completamente”. “Come [lo fanno]?” […] “[Dicono:] voi avete lasciato la migliore delle classi e siete andati verso la classe inferiore [composta da] asceti rasati, servitori, scuri di pelle, progenie nata dai piedi del [vostro] progenitore”».417

Da qui si capisce bene la priorità del sutta di contraddire la supposta inferiorità dei seguaci del Buddha così da rimarcare invece l'eccellenza della scelta compiuta e, di conseguenza, la virtù e il prestigio acquisito dall'essere diventati ‘figli del Buddha’. Tutto questo è però reso possibile proprio dall'utilizzo dello strumento biografico che si rende in grado di operare un vero e proprio blending fra la figura del Buddha e l'intera compagine dei monaci, in un meccanismo capace di accostare le azioni e lo status nobile del fondatore alle condotte e alle qualità acquisite da tutti coloro che lo hanno seguito nelle scelte e in particolare, come si è visto sopra, corso del lavoro: J. Neelis, Early Buddhist Transmission and Trade Networks: Mobility and Exchange within and beyond the Northwestern Borderlands of South Asia, Brill, Leiden, 2010, pp. 1-39; G. Schopen, “The Good Monk and His Money in a Buddhist Monasticism of “the Mahāyāna eriod””, in G. Schopen, Buddhist Monks and Business Matters, University of Hawai’i ress, Honolulu, 2 4, pp. 1-18; O. Freiberger,