L'Armata Italiana in Russia (la denominazione ufficiale del Corpo di spedizione inviato sul Fronte Orientale) venne costituita nel luglio 1942 su specifica richiesta dei vertici militari tedeschi che nella primavera del 1942 hanno bisogno di divisioni per continuare l'avanzata in territorio russo e designata come 8ª Armata.
Da un punto di vista prettamente teorico non vi era identità tra l'8ª Armata e l'ARMIR poiché sotto la prima furono dipendenti anche formazioni provenienti da altre nazioni, mentre la seconda avrà la capacità di distaccare proprie divisioni sotto altri comandi.41
Tra il luglio e l'agosto del 1942 avvenne la partenza verso la Russia: la prima delle divisioni alpine a lasciare l'Italia fu la Tridentina il 14 luglio 1942, seguita dalla Cuneense il 27 luglio; la Julia invece partirà solo verso ferragosto a causa della necessità di ristabilire gli effettivi dopo le perdite subite in Grecia.
Il battesimo del fuoco toccò alla Tridentina, sul finire dell'agosto 1942. L'ARMIR venne proprio in questo periodo posta alle dipendenze del Gruppo di Armate B tedesco e venne destinata alla protezione del fianco sinistro delle truppe impegnate nella battaglia di Stalingrado. Tra l'inizio e la metà di agosto l'ARMIR si schierò, infine, lungo il bacino del Don, tra la 2ª Armata ungherese a nord e la 6ª Armata tedesca, sostituita a fine settembre dalla 3ª Armata romena, a sud.
La prima avvisaglia che quello degli italiani non sarebbe stato un settore facile avvenne tra il 30 luglio e il 13 agosto a Serafimovich (a circa 150 chilometri a nord-ovest di Stalingrado): qui, a un primo tentativo dei russi di oltrepassare il Don, si opposero tenacemente i
bersaglieri della Celere (i sovietici persero la testa di ponte, ma il prezzo in vite umane per gli italiani sarà alto).
Tra il 20 agosto 1942 e il 1º settembre le truppe sovietiche scatenarono un'offensiva di vaste proporzioni contro i reparti ungheresi, tedeschi e italiani (che subirono il peso maggiore dell'attacco) schierati nell'ansa settentrionale del Don. Nel settore dell'ARMIR, i russi erano riusciti a stabilire due teste di ponte nei villaggi di Bobrovskiy (presso Serafimovich) e Kremenskaya (a circa 40 chilometri a est di Serafimovich) e da qui colpirono con tre divisioni (97ª, 203ª e 14ª della Guardia) la divisione Sforzesca, composta da elementi al battesimo del fuoco e sfiancati dalle lunghe marce per raggiungere il fronte (anche 50 chilometri al giorno).
L'ordine di resistere a ogni costo su un fronte di 25 chilometri fu eseguito dalla Sforzesca con abnegazione, ma dopo due giorni di aspri combattimenti la divisione venne travolta. Gli italiani riuscirono a chiudere la pericolosa falla intervenendo con reparti della Celere, tra cui il Savoia Cavalleria e un battaglione di Camicie Nere, il battaglione alpino Monte Cervino e in seguito anche la divisione alpina Tridentina.
Il generale Messe, per allentare la pressione, ordinò anche di caricare con la cavalleria: i Lancieri di Novara attaccarono il 20 agosto a Yagodnyy, mentre il 24 agosto il Savoia Cavalleria con i suoi seicento uomini caricò duemila russi nell'episodio di Isbuscenskij, passato agli annali come l'ultima carica della cavalleria italiana nella storia.
Alla fine il fronte venne mantenuto e le divisioni sovietiche, dopo aver perso metà dei loro effettivi, dovettero ritirarsi rinunciando all'obiettivo di raggiungere la rotabile Bolshoy-Gorbatovskiy alle spalle della prima linea italiana, venti chilometri a sud del fiume Don, ma le teste di ponte erano state consolidate e a Verchnij Mamon, circa 200 chilometri a ovest del settore della Sforzesca, i sovietici erano riusciti a stabilire una robusta testa di ponte sulla riva destra del Don, utile per le
future offensive, strappando il terreno alle divisioni Ravenna e Cosseria e al 318º Reggimento tedesco.
Settembre e ottobre trascorsero tranquillamente, con le truppe italiane disposte a difesa di un tratto di fronte lungo circa 270 km (da Belegore a nord-ovest fino a Veshenskaya a sud-est): l'ampiezza era tale che tutte le divisioni erano schierate in prima linea, con l'eccezione della Vicenza (impegnata a contrastare i partigiani nelle retrovie) e del Raggruppamento Barbò (giudicato inadatto al ruolo di difesa statica).
A partire da nord-ovest, il fianco sinistro da Belegore a Novo Kalitva era costituito dal Corpo d'Armata alpino (divisioni Tridentina, Julia e Cuneense con alle spalle la Vicenza), al centro da Novo Kalitva a Sukhoy Donets c'erano il II Corpo d'Armata (divisioni Cosseria e Ravenna) ed il XXXV Corpo d'Armata (ex CSIR, ora formato dalla divisione Pasubio e dalla 298ª divisione tedesca), all'ala destra da Sukhoy Donets fino a Veschenskaya si trovava il XXIX Corpo d'Armata tedesco (divisioni Torino, Celere, Legione Croata, 62ª divisione tedesca e divisione Sforzesca, ancora in fase di riorganizzazione dopo la disastrosa battaglia di fine agosto). Alle estremità dello schieramento italiano si trovavano, invece, altre due deboli armate alleate: a nord la 2ª Armata ungherese, sul fianco destro la 3ª Armata rumena che, entrata in linea solo nei primi giorni di ottobre, prese le difese del pericoloso settore di Serafimovič sostituendo i reparti italiani. Proprio da questa testa di ponte avrebbe preso il via il 19 novembre 1942 la grande operazione Urano dell'Armata Rossa che in pochi giorni avrebbe sbaragliato le pur combattive divisioni rumene, male equipaggiate e scarsamente dotate di armi anticarro, dando inizio all'interminabile reazione a catena che avrebbe rovinosamente coinvolto in dicembre anche l'armata italiana. Già il 19 novembre, l’Armata Rossa aveva lanciato una massiccia offensiva volta ad accerchiare le truppe tedesche della 6ª Armata di Paulus bloccate a Stalingrado. L'azione aveva portato all'annientamento della 3ª Armata romena, schierata a sud-est
dell'ARMIR. All'alba del 16 dicembre l'offensiva sovietica (operazione Piccolo Saturno, prima fase della "Seconda battaglia difensiva del Don") si scatenava anche contro le linee tenute dal II Corpo dell'ARMIR, che custodiva il settore centrale del fronte italiano; l'attacco sovietico non colse di sorpresa i reparti italiani, visto che già dall'11 dicembre erano in corso scaramucce e piccoli scontri lungo il fronte.
Il primo attacco russo, proveniente dal saliente di Verchnij Mamon, fu respinto, ma il 17 dicembre i sovietici impiegarono le loro truppe corazzate e l'aviazione, travolgendo le linee della Ravenna e obbligandola alla ritirata. Nello stesso tempo, a sud-est, vennero distrutti anche i resti della 3ª Armata rumena. L'obiettivo della grande manovra era congiungere le due braccia della tenaglia, costituite da gruppi corazzati, alle spalle dello schieramento italo-tedesco-rumeno tra Nova Kalitva e Veshenskaya. Gariboldi tentò di tappare le varie falle come meglio poté, spostando reparti da una posizione all'altra, ma il ripiegamento senza preavviso della 298ª divisione germanica, schierata tra la Ravenna a sinistra e la Pasubio a destra, finì per mettere ancora più in crisi il già traballante fronte.
Il 19 dicembre le avanguardie corazzate sovietiche avevano già raggiunto Kantemirovka, a 40 chilometri all'interno della linea italiana del Don, trenta chilometri più a sud raggiunsero Chertkovo, e il 21 dicembre le due colonne russe provenienti da nord e da est si incontrarono a Degtevo, a circa settanta chilometri a sud di Sukhoy Donets, chiudendo di fatto il XXXV Corpo d'armata italiano e il XXIX Corpo d'Armata tedesco in un'immensa sacca.
Quasi prive di mezzi di trasporto e di carburante (anche i carri leggeri L6/40 andarono quasi tutti persi sotto la forza dell'attacco sovietico), costrette a vagare a piedi in cerca di una via di scampo dall'accerchiamento, le divisioni di fanteria dell'ARMIR, composte da decine di migliaia di uomini ormai difficilmente controllabili, finirono in
gran parte annientate, falcidiate dalla fame e dal freddo micidiale (30 gradi sotto zero) e sottoposte non solo agli attacchi delle colonne corazzate nemiche, ma anche dei reparti partigiani che agivano alle loro spalle. Elementi delle divisioni Torino e Pasubio, insieme ai tedeschi della 298ª, riuscirono a resistere a Chertkovo, circondati dai russi.
Nella conca di Arbuzovka, invece, si consumò un dramma: 20- 25.000 perdite tra morti, dispersi e prigionieri, solo pochi gruppi riuscirono a sfuggire all'accerchiamento. L'offensiva sovietica non coinvolse il Corpo d'Armata alpino, che continuò a tenere le sue posizioni sul Don.
La Divisione Julia, sostituita sulla linea del fronte dalla Divisione Vicenza, fu schierata, insieme al XXIV Corpo d'Armata tedesco, sul fianco destro, lasciato scoperto dalla disfatta del II Corpo. 42
La Julia si attestò sul fiume Kalitva, dove si dissanguò in continui combattimenti per mantenere il fronte. Intanto sul Don, ormai coperto di ghiaccio resistente e quindi transitabile anche per i carri armati, i sovietici apprestavano la seconda fase dello sfondamento. Il 12 gennaio 1943 i sovietici diedero il via all'offensiva Ostrogorzk- Rossoš (seconda fase della Seconda battaglia difensiva del Don), travolgendo la 2ª Armata ungherese, schierata a nord del Corpo d'Armata alpino. Il giorno seguente investirono i resti delle fanterie italiane schierate insieme al XXIV Corpo d'Armata tedesco sull'esile fronte di circa 40 chilometri tra la confluenza Kalitva-Don a nord e Kantemirovka a sud, puntando a ovest su Rovenki, dove erano trincerati i resti della Cosseria, e a nord-ovest sulla città di Rossoš, dove c'era il comando del generale Nasci. Ormai il Corpo d'Armata alpino era chiuso in una sacca che includeva le divisioni Julia, Cuneense, Tridentina e Vicenza. L'ordine di ripiegare dal Don venne dato (con molto ritardo, per volontà di Italo Gariboldi) solo il 17 gennaio. A Podgornoje, venti
chilometri a nord di Rossoš, dove il 18 gennaio confluirono sbandati italiani, ungheresi e tedeschi, il caos divenne indescrivibile. In testa alle colonne in ritirata si misero i reparti della Tridentina in grado di affrontare la battaglia. Anche i resti della Vicenza riuscirono in qualche modo ad aprirsi la strada verso ovest. Più a sud, invece, Julia e Cuneense dovettero sacrificarsi contro le forze corazzate sovietiche per evitare che il fianco sinistro della ritirata crollasse, mettendo in crisi l'intera operazione di sganciamento.
Il 21 gennaio Gariboldi avvertì il generale Nasci che Valuyki era caduta in mano russa e ordinò di puntare venti chilometri più a nord su Nikolajevka, che si trovava a circa 50 chilometri a ovest delle avanguardie italiane. Tale segnalazione però non arrivò mai ai reparti superstiti della Julia e della Cuneense, che continuavano a combattere battaglie di retroguardia sul fianco sinistro della Tridentina. Il 22 gennaio vennero così annientati gli ultimi superstiti della Julia; tra il 25 e il 26 fu la volta dei resti della Cuneense e della Vicenza, catturati dai russi presso Valuyki. La Tridentina, invece, dovette affrontare gli ultimi due ostacoli per uscire dalla sacca: i villaggi di Arnautovo e Nikolajevka (Nikolajevka ora si chiama Livenka). A mezzogiorno del 26 gennaio, finalmente, dopo un'ultima sanguinosa battaglia, dopo aver lasciato sul campo morti e feriti in grande quantità, la Tridentina riuscì a rompere l'accerchiamentosovietico.
In dieci giorni, le tre divisioni alpine, la Divisione Vicenza, alcune unità tedesche del XXIV Corpo e una gran massa di sbandati italiani, rumeni ed ungheresi, avevano coperto più di 120 km in condizioni climatiche proibitive (neve alta e temperature tra i −35° e i −42°), con pochi mezzi di trasporto e vestiario insufficiente, sottoposte ad incessanti attacchi di truppe regolari e di partigiani sovietici.
Il 30 gennaio i sopravvissuti del Corpo d'Armata alpino (insieme a 16 000 tra tedeschi ed ungheresi) si raccolsero a
Schebekino, dove poterono finalmente riposare dopo 350 chilometri di marce estenuanti e dopo tredici battaglie. Gravissime in particolare le perdite delle divisioni alpine: dei 57 000 alpini partiti per la Russia, ne ritornarono solo 11 mila.
Con la sostanziale distruzione dell'ARMIR ebbe di fatto termine la partecipazione italiana alla campagna sul fronte orientale. A partire dal 6 marzo, i sopravvissuti delle divisioni italiane verranno progressivamente rimpatriati.