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frecce (da portare a tracolla o agganciato alla sella).

[1] Rime 46.7: non esce di faretra / saetta che già mai la colga ignuda.

FERO agg.

DEFINIZIONI: 1 Feroce, aggressivo. 1.1

Incapace di provare pietà.

FREQUENZA:

Commedia 5 (4 Inf., 1 Purg.). Altre opere 11 (7 Conv., 4 Rime).

LISTA FORME E INDEX LOCORUM:

Commedia feri Inf. 23.135 (:); fero Inf.

12.107 (:), 21.31, 31.84, Purg. 17.26 (:).

Altre opere fera Conv. 3, canz. 2.76, Conv.

3.9.4, 3.15.19, Rime 29.23, 49.90, 53.32 (:); feri Conv. 4, canz. 3.5 (:), Conv. 4.2.4; fero, Conv. 3, canz. 2.85 (:), Conv. 3.10.3, Rime 13.9.

CORRISPONDENZE:

Testi italiani antichi: … . Commenti danteschi: ... .

Vocabolari: TLIO; Crusca in rete; ED.

NOTA: Nell’ambito della poesia amorosa,

l’agg. indica trad. la mancanza di pietà dell’amata nei confronti dell’amante, come in Giacomo da Lentini 3.28: «da donna troppo fera - spero pace» (vd. Antonelli,

Giacomo da Lentini, p. 81). Nell’Inf. il

termine assume l’accezione forte di ‘feroce’, ‘aggressivo’, mentre, nel Conv., esso fa sempre coppia con l’agg.

disdegnoso per indicare l’alterigia tipica

della superbia (Fioravanti, Convivio, p. 445). L’unica eccezione è data da Conv. 3, canz. 2.85: «ché l'anima temea, / e teme ancora, sì che mi par fero / quantunque io veggio là 'v'ella mi senta» dove l’agg., isolato, mantiene però il valore di ‘incapace di provare di pietà’ in rel. alla vista della donna «orgogliosa» (Fioravanti,

Convivio, p. 364). Il congedo di Amor che nella mente assume una funzione interpretativa di solito riservata alla prosa o alla Commedia (Pinto, Amor che nella

mente, p. 33) e confronta l’immagine della

donna come esempio di umiltà (vv. 68-70) con un altro testo in cui essa è detta invece superba. Probabilmente si tratta della ballata Voi che savete, dove, ai vv. 21-24 è descritta una donna priva di pietà: «Io non ispero che mai per pietate / degnasse di guardare un poco altrui, / cosí è fera donna in sua bieltate / questa che sente Amor ne gli occhi sui». (De Robertis, Rime 2005, p. 49). Il congedo di Amor che nella mente sembra connesso anche con Le dolci rime, vv. 5-8, dal momento che in entrambi i casi si pone l’accento sull’apparenza di crudeltà della donna, concetto rafforzato nel commento di Conv. 4.2.4 (De Robertis,

Rime 2005, p. 55). Sia per la seconda che

per la terza canzone di Conv., il testo in prosa riferisce un termine tipico dell’amor cortese all’ambito della filosofia, in cui la

42 fierezza della donna indica la resistenza della materia ad essere compresa (vd. Lόpez-Cortezo, Contra-li-erranti, p. 39). A

Purg. 17.26 l’agg. è accompagnato da

«dispettoso», legato all’area semantica dell’alterigia in modo analogo a

disdegnoso (vd. TLIO s.v. dispettoso 3.1), e indica la superbia di Aman come esempio di peccato punito: «Poi piovve dentro a l'alta fantasia / un crucifisso, dispettoso e fero / ne la sua vista, e cotal si moria».

AUTORE: Giulia Pedonese.

1 Feroce, aggressivo.

[1] Inf. 23.135: appressa un sasso che da la gran cerchia / si move e varca tutt' i vallon feri, / salvo che 'n questo è rotto e nol coperchia.

[2] Inf. 12.107: Quivi si piangon li spietati danni; / quivi è Alessandro, e Dïonisio fero / che fé Cicilia aver dolorosi anni.

1.1 Incapace di provare pietà.

[1] Purg. 17.26: Poi piovve dentro a l'alta fantasia / un crucifisso, dispettoso e fero / ne la sua vista, e cotal si moria.

[2] Conv. 3, canz. 2.76: Canzone, e' par che tu parli contraro / al dir d'una sorella che tu hai; / ché questa donna che tanto umil fai / ella la chiama fera e disdegnosa.

[3] Conv. 4, canz. 3.5: Le dolci rime d'amor ch'io solia / cercar ne' miei pensieri / convien ch'io lasci; non perch'io non speri / ad esse ritornare, / ma perché li atti disdegnosi e feri / che nella donna mia / sono appariti, m'han chiusa la via / dell'usato parlare.

FINITA s.f.

DEFINIZIONI:1 Fine della vita, morte (estens.).

FREQUENZA:

Altre opere 2 (2 Rime).

LISTA FORME E INDEX LOCORUM:

Altre opere finita Rime 36.9 (:), 37.68 (:).

CORRISPONDENZE:

Testi italiani antichi: … . Commenti danteschi: ... .

Vocabolari: TLIO; Crusca in rete; ED.

NOTA: L’uso del part. pass. con valore di nome astratto è tipico della poesia italiana delle origini, in cui finita è considerato termine di diffusione internazionale (Corti,

Contributi, p. 61 e cfr. Foster-Boyde, Dante, p. 190). Non ritengo che la locuz.

«sanza finita» di Rime 37.68 abbia il valore di ‘per sempre’ come l’espressione notevole att. in Guinizzelli 15.4: «l'umana gent' è sì smarrita / che largamente questo mondo piglia / com' regnasse così senza

finita» dal momento che la durata

temporale è espressa da «guari», cioè ‘a lungo’ e «star sanza finita» indica l’atto di evitare la morte, cioè il mantenersi in vita (Giunta, Rime, p. 409). In entrambe le att. dantesche, il sost. è sinon. di ‘morte’ ed è legato al tema della mancata corresponsione amorosa da parte di una donna troppo giovane (vd. «per giovanezza» di Rime 37.57 e «pargoletta» di Rime 36.2). Sembra significativo che, nella Canzone 37, il sost. ricorra nel contesto simil-cavalcantiano dei vv. 65-68 in quanto morte causata dal disfacimento degli spiriti vitali. Tuttavia, bisogna notare che Dante sembra dare alla sua def. di Amore un’impostazione trascendente in contrasto con la concezione medico- scientifica di Donna me prega (Molinari,

Amor che movi, p. 130) fin dalla

macrostruttura della canzone, basata sul modello dell’oratio cristiana che risale, secondo De Robertis, alla trad. dell’inno cletico (Deus qui, p. 194). In particolare, De robertis (Deus qui, p. 199) e Giunta (Rime, pp. 387-389) individuano un preciso rif. alla preghiera boeziana O qui

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perpetua. Mi chiedo dunque se, più che a

un ritorno alla vecchia teoria degli spiriti (De Robertis, Rime 2005, p. 89), si possa pensare anche in questo caso, come per

oscurità (vd.), a un certo grado di polemica

contro la visione cavalcantiana dal momento che, come osserva Molinari (Amor che movi, p. 129), i vv. 65-68 potrebbero risentire della nuova interpretazione della teoria degli spiriti come influenze astrali drammatizzata in

Voi che ‘ntendendo vv. 12-13 (cfr. De

Robertis, Rime 2005, pp. 24-25).

AUTORE: Giulia Pedonese.