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Le quindici canzoni distese: indagini sul lessico secondo il Vocabolario Dantesco. Con appendice su Lo doloroso amor che mi conduce e Traggemi de la mente Amor la stiva.

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DIPARTIMENTO DI

FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA

CORSO DI LAUREA IN ITALIANISTICA

TESI DI LAUREA

Le quindici canzoni distese: indagini sul lessico secondo il Vocabolario

Dantesco. Con appendice su Lo doloroso amor e Traggemi de la mente.

CANDIDATO

RELATORE

Giulia Pedonese

Chiar.mo Prof. Mirko Tavoni

CONTRORELATORE

Chiar.mo Prof. Fabrizio Franceschini

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2 INDICE

Introduzione ... p. 3 Schede ... p. 12 Bibliografia ... p. 93

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3 INTRODUZIONE

Il presente lavoro consiste nell’analisi di cento lemmi relativi al lessico delle quindici canzoni distese, della canzone estravagante Lo doloroso amor che mi conduce e dell’incipit Traggemi de la

mente Amor la stiva. La ricerca è stata svolta attraverso la schedatura delle singole voci nelle

modalità previste dal Vocabolario Dantesco (VD) con riferimento alle norme di redazione del dicembre 2016. In accordo con la natura e gli scopi del VD, i lessemi danteschi sono stati messi a confronto, dove possibile, con le corrispondenti voci del Tesoro della Lingua Italiana delle Origini (TLIO), del Vocabolario degli Accademici della Crusca e dell’Enciclopedia Dantesca e con i corpora messi a disposizione dall’Opera del Vocabolario Italiano (OVI). Ciascuna scheda segnala le varianti lessicalmente significative derivanti dalla tradizione diretta delle opere di Dante.

Per quanto riguarda le Rime, la citazione dei contesti rispetta i criteri formali del Corpus OVI, che segue la numerazione di Contini nella sua edizione delle Rime1 pubblicata nel 1939 e ristampata con

revisioni e aggiunte fino al 1965. Il testo critico di riferimento è quello stabilito da Barbi nel 1921 per la Società Dantesca Italiana2 anche se in questo lavoro si è sempre tenuto conto delle modifiche

apportate dall’Edizione Nazionale del 2002 a cura di De Robertis3. Nel complesso, ci si è limitati a segnalare le varianti discutendo delle implicazioni linguistiche e interpretative in NOTA, anche se in un solo caso, relativo alla voce carriera (vd.), si è scelto di basare la scheda su una variante adiafora messa a testo per la prima volta da De Robertis. A fronte del problema filologico originato dalla mancanza di un archetipo, l’edizione critica ha infatti il pregio di incrociare i dati relativi all’ordinamento con quelli derivati dal confronto tra le diverse lezioni.

Questo è vero soprattutto per le quindici canzoni, per cui De Robertis individua sette gruppi di manoscritti indipendenti e una famiglia legata a Boccaccio, che trascrisse le stesse quindici canzoni nello stesso ordine in tre codici diversi (Toledano 104.6, Chigiano L.V.176, Riccardiano 1035). Sebbene non sia possibile tracciare uno stemma preciso di questa famiglia, che, da sola, comprende più della metà dei testimoni, il confronto fra la tradizione boccacciana e quella indipendente mostra che il raggruppamento delle quindici canzoni potrebbe essere anteriore a Boccaccio4. Ciò ha avuto ricadute anche sull’ordinamento, chiaro solo per le quindici canzoni distese, che per questo sono

1 Contini, G. (1965). Dante Alighieri. Rime. Torino: Einaudi.

2 Barbi, M. (1921). Rime. In Le opere di Dante. Testo critico della Società Dantesca Italiana. Firenze: Bemporad. 3 De Robertis, D. (2002). Dante Alighieri. Rime. Edizione Nazionale a cura della Società Dantesca Italiana, Firenze: Le

Lettere.

4 L’ipotesi è sostenuta da Tanturli (L’edizione, pp. 257-258) sebbene le prove si basino soltanto su una ricostruzione

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poste da De Robertis in apertura delle Rime. Il rispetto del criterio filologico fa in modo che, all’inizio dell’intera raccolta, si trovi Così nel mio parlar vogli’esser aspro, la cui separazione dalle altre canzoni petrose ha fatto discutere5. Tuttavia, la dichiarazione di poetica dell’incipit (vd. aspro) può far pensare a un ruolo proemiale6 opposto a quello conclusivo svolto dal congedo di Amor, da

che convien pur ch’io mi doglia, in cui sembrerebbe di scorgere una σφραγίς7.

La scelta delle parole schedate è stata operata sulla base di criteri linguistici relativi all’etimologia e all’uso, con particolare attenzione alle principali questioni interpretative. Pur restando il più possibile aderenti al modello del VD, il campo NOTA è stato inteso anche come momento di

riflessione critica con lo scopo di approfondire i termini chiave di ciascun componimento. Per questi motivi sono state privilegiate alcune canzoni come ad esempio Così nel mio parlar, intessuta di neologismi e termini privi di tradizione lirica. Nel gruppo delle petrose è stata riservata particolare attenzione anche a Io son venuto dato il valore scientifico di alcune voci mediate dal latino per cui è stato proposto, in alcuni casi, il confronto con nuovi passi delle fonti classiche. In

Poscia ch’Amor si è posto l’accento sui provenzalismi e sui concetti cardine di sollazzo (vd.) e leggiadria (vd.), oggetto di un ampio studio di Fenzi. Una scelta analoga è alla base dei lemmi

analizzati in Le dolci rime, dove si attua la ridefinizione della gentilezza (vd.) per mezzo di un lessico filosofico specifico. In Tre donne è stato posto l’accento su voci relative al congedo con riferimento alla questione della datazione, mentre in Doglia mi reca sono stati sottolineati termini utili a far luce sul significato della canzone e del suo invio a Bianca Giovanna, oggetto di discussione tra gli studiosi. Infine, in Amor, da che convien ci si è concentrati su voci che potessero evidenziare il problema della datazione e del rapporto della canzone con l’epistola a Moroello (vd. soprattutto montanino).

Per ciò che concerne le altre canzoni analizzate si è scelto di indagare i debiti danteschi nei confronti della tradizione poetica, fra cui spicca soprattutto il rapporto con Guido Cavalcanti. È il caso dei lemmi scelti a rappresentare le prime due canzoni di Convivio, in cui si è cercato di accennare anche alla questione dell’allegoria originaria, e delle canzoni dottrinali Amor che movi e

Io sento sì d’amor, dove la teorizzazione morale vuole distaccarsi dalla cavalcantiana Doglia mi reca senza poter prescindere dalle sue forme. Allo stesso modo, è stata considerata l’affinità della

tematica dell’amor doloroso in E’ m’incresce di me e in Lo doloroso amor, canzone estravagante rispetto alle prime quindici, ma posta da De Robertis subito dopo la «montanina» per un criterio di

5 Gorni, Sulla nuova edizione, pp. 583-584.

6 Ma non programmatico, dal momento che non sembra possibile riscontrare una proposta di sistemazione delle Rime

che possa risalire a Dante: vd. De Robertis, Rime 2005, p. 3.

7 Tanturli, Il libro, pp. 132-134. A differenza di De Robertis, lo studioso ritiene di poter ravvisare una traccia di volontà

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forma poetica e che, per questo motivo, non è sembrato opportuno escludere. All’ambito del confronto con la tradizione cortese afferisce anche la selezione di termini relativi alla più antica tra le canzoni dantesche, Doglia mi reca, in cui si è voluto sottolineare l’impiego del lessico militare. In ultimo, dal momento che De Robertis, seguito dall’edizione 2011 di Giunta, annovera per la prima volta l’incipit Traggemi de la mente Amor la stiva tra le Rime dantesche, si è deciso di includere la voce stiva (vd.) e il conseguente dibattito linguistico lasciato aperto dalla perdita del resto della canzone.

I risultati di questa indagine a campione hanno permesso in primo luogo di approfondire il ruolo delle fonti classiche nelle canzoni petrose, dove sono stati riscontrati alcuni importanti latinismi e alcune prime attestazioni connesse con l’uso latino. A questo proposito preme sottolineare che, per quanto i moderni mezzi di ricerca permettano con relativa facilità il reperimento di loci paralleli, prima di istituire un collegamento con eventuali antecedenti si è sempre tenuto fermo il criterio della precisa corrispondenza linguistica. In questo modo, per quanto riguarda, ad esempio, il latinismo faretra (vd.), si è individuato il possibile ipotesto virgiliano di Aen. 11.858-859, che potrebbe comportare il richiamo a una vendetta antica (quella di Opi nei confronti di Arrunte) qui soltanto auspicata, a conferma dell’iperbolica resistenza della donna, chiusa in un’armatura di

diaspro (vd.).

Un latinismo attestato per la prima volta è fummifero (vd.), che si realizza a partire da una creazione di Virgilio e sembrerebbe attestare la conoscenza da parte di Dante delle Naturales Quaestiones di Seneca8. Nella NOTA relativa a questa voce si è scelto però di menzionare anche il passo di Lucano,

Phars. 7.192 poiché, dallo spoglio dei database online di Brepolis, Lucano risulta l’unico ad

utilizzare fumifer in un contesto in cui il fumo non è un prodotto della combustione, ma deriva dai vapori dell’acqua che sgorga dal sottosuolo. La presenza di questa fonte nel testo di Io son venuto è segnalata dai vv. 14-19, che sembrano presupporre un passo di Phars. 9.447-457 (vd. sturbare). Inoltre, bisogna tenere presente che la condensazione di due diversi passi di Lucano non sembrerebbe estranea al «procedimento riassuntivo9» tipico di Dante nei confronti di questo autore, che, se si accetta l’ipotesi di una possibile mediazione lucanea di una parola essenzialmente virgiliana, sarebbe utilizzato non soltanto come spunto generale nell’ambito di un’affinità ideologica, ma anche per una più profonda rielaborazione dei modi espressivi10.

8 Contini, Rime, p. 153. Tuttavia, Fenzi sottolinea piuttosto i rapporti del passo dantesco con Alberto Magno (vd. Fenzi,

Io son venuto, pp. 94-98).

9 Paratore, Dante, p. 16. 10 Paratore, Dante, p. 5.

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Altre voci che potrebbero celare un rimando alle fonti classiche in Io son venuto sono algente (vd.) e inforcare (vd.), entrambe prime attestazioni dantesche. Il latinismo algente riassume la teoria scientifica sulla genesi del cristallo implicata anche ai vv. 25-29 di Amor, tu vedi ben (vd.

cristallino) intrecciandola con la tradizione poetica latina. Un discorso a parte va riservato al verbo inforcare, il cui significato contestuale, relativo alla congiunzione di Venere con il Sole, è stato

ricostruito da Fenzi11 attraverso il confronto con Inf. 22.60. Sulla base di alcuni passi delle

Metamorfosi di Ovidio, Maffia Scariati12 ritiene che sia la Luna e non il Sole a coprire Venere con un ragionamento che vale la pena qui ripercorrere. Il primo argomento a sostegno di questa tesi è il fatto che, per poter inforcare, il «raggio lucente» debba essere necessariamente munito di ‘forca’ o ‘corna’, che, nelle Metamorfosi, sono appannaggio esclusivo della Luna, tradizionalmente più luminosa di Venere: «Iamque coactis / cornibus in plenum noviens lunaribus orbem, / illa Paphon genuit / de qua tenet insula nomen» (Met. 1.11); «Orbe resurgebant lunaria cornua nono, / cum dea venatu, fraternis languida flammis» (Met. 2.453-454); «Luna quater iunctis inplerat cornibus orbem» (Met. 2.344); «dumque quater iunctis explevit cornibus orbem / luna, quater plenum tenuata retexuit orbem» (Met. 7.530-531).

Tuttavia, il rimando alla fonte classica poggia su una base che può risultare vacillante se si considera che, nell’opera dantesca, inforcare sembra riferirsi all’atto di circondare un oggetto o una persona con gli arti e non a quello di infilzare per mezzo di corna o forcone. Nel contesto metaforico di Purg. 8.135, la costellazione del Capricorno «inforca» la sua porzione di cielo con le zampe pur essendo, in teoria, munito di corna, per cui l’interpretazione del passo risulta vicina a quella di Purg. 6.99, dove il verbo descrive il momento di montare a cavallo ‘inforcando’ la sella con le gambe. Il termine potrebbe alludere all’impiego di una ‘forca’ solo a Inf. 22.60, ma la sua accezione risulta ambigua: Barbariccia infatti si rivolge agli altri diavoli dicendo: «state in là, mentr’io lo ‘nforco» e sembra che le sue parole debbano interpretarsi in accordo con la funzione dei diavoli della quinta bolgia, che è precisamente quella di infilzare i dannati con i loro ronconi; ma poi il suo proposito si realizza nel chiudere con le braccia Ciampolo di Navarra in modo che Dante e Virgilio possano parlargli. Questa lettura del passo infernale, restituita da Buti, dimostra che per

inforcare non è necessario essere muniti di forcone né di corna, ma di braccia o zampe, oppure di

un raggio di luce biforcuto. Dunque, sebbene un’eco delle Metamorfosi sia plausibile per quanto riguarda l’identificazione del «pianeto che conforta il gelo», che potrebbe essere la Luna e non Saturno (cfr. infra), non sembra legittimo richiamarsi a Ovidio per determinare il valore di questa voce.

11 Le Rime, pp. 284-285. 12 Dante, pp. 170-171.

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La perifrasi iniziale di Io son venuto pone inoltre un problema di datazione che, per quanto gli studiosi si siano adoperati in calcoli astronomici, risulta ancora una crux. Secondo le ricostruzioni di Angelitti13, la congiunzione superiore di Venere con il Sole implicata ai vv. 4-6 si verificò in concomitanza con l’opposizione al Sole di Saturno nel dicembre 1296. Tuttavia, ai vv. 7-9 la descrizione potrebbe riferirsi tanto a Saturno quanto alla Luna, entrambi pianeti tradizionalmente freddi14. Considerando dunque la Luna, altre due possibili date sarebbero il 1294 o il 1304. Tutte le possibilità (compresa quella del 1312, scartata da Angelitti a causa di un’eclissi totale di Luna) sono state vagliate dagli interpreti, ma la datazione del gruppo agli anni 1296-97 è comunemente accettata, sebbene, in realtà, Io son venuto sia la sola canzone effettivamente databile15. Infatti, la contiguità di ispirazione non implica necessariamente una vicinanza temporale tra le poesie del gruppo, data la possibilità di un ritorno a poetiche precedenti in fasi diverse della produzione dantesca, come testimoniato dalla canzone Amor, da che convien, dove alcuni elementi linguistici e strutturali potrebbero sembrare affini alle petrose (vd. sbandeggiata).

Un altro aspetto di questa ricerca è l’analisi delle prime attestazioni dantesche, in larga parte relative, come si è già avuto modo di vedere, all’ambito delle petrose, ma con alcuni esempi anche nelle canzoni al di fuori del gruppo. A questo proposito, è necessario ricordare che sono state incluse anche le prime attestazioni del Fiore (vd. crespo e increspare) in accordo con le norme del

VD, che considerano il Fiore e il Detto d’amore come opere attribuibili a Dante pur in subordine

rispetto alla Commedia e agli altri testi. In particolare, si sono individuate alcune forme attestate solo in Dante, come sbandeggiata (vd.), scherana (vd.) e stiva (vd.) e l’attestazione unica

oltrapagato (vd.). Per quanto riguarda scherana si è cercato di problematizzare la questione relativa

all’etimo incerto. Il DEI s.v. scherano riconduce il termine al provenzale escaran, che però è ritenuto da Castellani16 un prestito successivo, entrato nella lingua occitanica proprio a partire dall’italiano. A sostegno di questa ipotesi, lo studioso afferma che escaran è attestato solo una volta in Peire Vidal, senza però citare l’occorrenza precisa. Con un controllo sul corpus offerto da

Trobadors è stato possibile identificare il passo in questione con il v. 36 di Bon’aventura don Dieus als Pizas, dove il termine compare al plurale insieme a «ribautz» con accezione spregiativa: «de

crois ribautz e de mals escaras».

Il sostantivo femminile sbandeggiata comporta, oltre al problema linguistico affrontato nella NOTA,

anche un problema di ordine interpretativo. L’identificazione della donna di cui si parla ha fatto

13 Sulle principali apparenze, pp. 5-6.

14 Fenzi, Le rime, pp. 283-284 e Fenzi, Io son venuto, pp. 58-59. 15 Giunta, Rime, pp. 463-465.

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discutere i lettori di Dante a partire da Boccaccio, Trattatello 116.17, che la considera «una alpigina, la quale, se mentito non m'è, quantunque bel viso avesse, era gozzuta», mentre alcuni, come Zingarelli e Cosmo17 hanno preferito vedervi «una nobildonna dei Conti Guidi». Tuttavia, per quanto sia verosimile che si tratti di un amore autobiografico18, bisogna considerare con Pazzaglia19 che le donne, all’interno delle Rime dantesche, sono spesso «occasioni» al ragionar d’amore e non più referenti reali.

La voce sbandeggiata e l’attestazione unica oltrapagato segnalano una possibile influenza di Guittone che, rilevata altre volte nel corso di questo studio, si configura come sotterranea, ma costante, soprattutto sul piano linguistico. Infatti queste voci, insieme a barbato (vd.), disamorato (vd.) e, forse, montanino (vd.), pur costituendo una frazione minima di tutto il lessico delle Rime, testimoniano un riferimento ai modi espressivi di Guittone dalle petrose ad Amor, da che convien. Nel valore contestuale di montanino, che a Rime 53.76 sembra privo di connotazione negativa (a differenza di quanto accade con la corrispondente voce latina nel De Vulgari Eloquentia20),

Picone21, sulla scia di Allegretti22, ha rilevato un possibile rovesciamento dell’opposizione

tradizionale fra città e montagna. In questo modo sarebbe possibile istituire un confronto con altri due luoghi di Guittone: Lettere in prosa, 14, p. 182.8, dove Firenze, all’indomani di Montaperti «no è cità, ma alpi, ove alpestri e selvaggi se sogliano trovare homini come fere» e Rime 8.56, in cui Guittone arriva ad augurarsi che Arezzo «fusse in alcuna serra / de le grande Alpi che si trovan loco» a causa della corruzione degli abitanti.

L’ipotesi che anche nella canzone dantesca l’ormai degenerata Firenze «vota d’amore e nuda di pietate» (v. 79) costituisca il polo negativo del contrasto con la montagna, intesa come nuovo luogo civilizzato23, risulta attraente. Tuttavia, bisogna considerare che il termine montanino, in Dante, sembrerebbe privo di valenza politica e volto piuttosto a misurare la distanza fisica (e ormai anche affettiva) del poeta dalla sua terra. D’altra parte, solo mantenendo i connotati tradizionali di luogo impervio e ostile (cfr. vv. 67-70) la montagna, in Amor, da che convien, può dare la misura del degrado raggiunto da Firenze e, insieme, del sofferto saluto dell’esule che dalla città si congeda. Può essere pertinente a questo proposito il confronto con Cino 156.3, dove la montagna resta luogo

17 Cit. in Gorni, La canzone, p. 132 e in Foster-Boyde, Dante, p. 331. 18 Carpi, La nobiltà, p. 540.

19 Il mito, p. 79.

20 Tavoni, De Vulgari, p. 1373. 21 Sulla canzone, p. 108. 22 Allegretti, La canzone, p. 112.

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d’esilio pur essendo teatro di una folgorazione amorosa24: «poscia ch'i' corsi / su quest'antica

montagna de gli orsi, / de l'aere e di mio stato vi scrivo».

Per la voce stiva, appurato che, in Dante, si tratta del latinismo con il valore di ‘manico dell’aratro’, resta poco chiaro il significato della metafora mente-aratro. L’ipotesi che il contesto di De Vulg. 2.11.5 si riferisca alla figura di Amore arator è stata avanzata da Marigo25 e recentemente ripresa da Tavoni26. La rarità del latinismo, non altrimenti attestato, e la difficoltà del suo impiego metaforico hanno indotto Pézard27 a modificare il testo in «traggemi de la mente, Amor, la spina», leggendo «Amor» come vocativo e «traggemi» come imperativo sulla base del confronto con Rime 43.49-50: «e la crudele spina / però del cuor Amor non la mi tragge» e Cielo d'Alcamo, Contrasto 3: «tràgemi d'este focora, se t'este a bolontate». Questa lettura però non tiene conto della tradizione manoscritta28 e rischia di piegare il testo a un senso facilior dato che l’atto metaforico di prendere in mano la stiva (oggi diremmo: le redini) e condurre la mente del poeta non sarebbe estraneo alla caratterizzazione di Amore o del desiderio come guida29 presente a Rime 13.1: «Volgete gli occhi a

veder chi mi tira», Rime 7.4-5: «e 'l disio amoroso, che mi tira / ver' lo dolce paese c'ho lasciato» e

nell’Ep. IV a Moroello (vd. scolorito): «[[Amor]] liberum meum ligavit arbitrium».

A differenza di Giunta30, che intende «de la mente» come complemento di specificazione indicante l’immagine della mente-aratro, Spaggiari31 si basa sulla tradizione cristiana per fare di Amore una

trasposizione dell’«Agricola celeste» che predispone l’anima a ricevere la buona novella: in questo caso, Amore preparerebbe la mente del poeta, intesa come campo da arare, a seguire le sue leggi. Questa interpretazione, supportata da un ampio spoglio di testi, implica la lettura di «de la mente» a metà fra l’uso locativo e il complemento di limitazione32, che, bisogna ammettere, può trovare un

riscontro a Inf. 7.41: «Tutti quanti fuor guerci / sì de la mente in la vita primaia, / che con misura nullo spendio ferci», anche se il frammento in questione sembrerebbe forse più vicino all’uso di

Rime 20.59: «nel libro de la mente che vien meno». Ad ogni modo, per quanto lo studio linguistico

possa arricchirsi di nuovi confronti, la questione non può che rimanere sospesa per la perdita della

24 vd. Fenzi, Ancora sulla Epistola, pp. 71-72. 25 De Vulgari, pp. 249- 250. 26 De Vulgari, p. 1501. 27 La rotta gonna, pp. 45-46. 28 De Robertis, Rime 2002, p. 241. 29 Giunta, Rime, p. 641. 30 Loc. cit. 31 Traggemi de la mente, pp. 205-206. 32 Spaggiari, Traggemi de la mente, p. 213.

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canzone, citata nell’indice di Rime di Dante trascritto da Angelo Colocci nel ms. Vaticano latino 4823 con l’aggiunta della notazione deest33.

Sebbene il VD non sia un vocabolario etimologico, alcuni risultati interessanti sono emersi dallo studio dei gallicismi, non sempre individuabili né precisamente classificabili come francesismi o provenzalismi. Tra i gallicismi discussi, si segnalano: dardo (vd.) che, per ammissione di Cella34, potrebbe anche costituire germanismo; espiare (vd.), considerato francesismo dal DEI, ma probabile forma di spiare con prostesi e messione (vd.), che risulta provenzalismo soltanto nel DEI e sembrerebbe fare sistema nel tessuto linguistico di Poscia ch’Amor (cfr. infra). Si può discutere se si tratti di gallicismo nel caso di carriera (vd.) segnalato come provenzalismo dal DELI s.v. carro ed effettivamente giustificato a testo dal confronto con l’uso provenzale35.

Un uso significativo dei provenzalismi si riscontra nella canzone Poscia ch’Amor, con le parole chiave disamorato (vd.), donneare (vd.), messione (vd.), leggiadria (vd.) e sollazzo (vd.). Questo studio, sebbene parziale, dimostra come Dante metta in discussione i fondamenti concettuali della tradizione cortese per costruire i propri attraverso un’arcaicità controllata36 che dà nuova vita a

termini ormai in disuso rispetto alle norme sociali dell’epoca. La ridefinizione della leggiadria si sviluppa su due piani: quello linguistico, caratterizzato dall’esclusione del significato negativo di ‘leggerezza’ proprio della tradizione precedente, e quello morale, che ha il ruolo di fornire alla parola nuova sostanza semantica in relazione al comportamento virtuoso dell’uomo nobile. La ricaduta sociale di questa operazione permette, da un lato, di dare consistenza a una classe nobiliare evanescente che il sistema di valori cortesi non riusciva più, da solo, a sostenere; dall’altro, essa fa in modo di ridefinire il ruolo del poeta e della poesia volgare all’interno dello stesso ordine socio-culturale così creato37, andando apparentemente contro quanto detto in Vn 25.6, in cui si criticano «coloro che rimano sopra altra matera che amorosa».

La misura del distacco dalle rime d’amore è dato, in incipit, dal termine disamorato, il cui valore è stato chiarito nella relativa scheda. In questa sede però preme sottolineare che il discorso poetico, per quanto dichiari sia in Poscia ch’Amor che ne Le dolci rime la volontà di prescindere dall’esprienza pregressa, nella sua realizzazione linguistica non sembra mettere da parte niente di quanto acquisito durante l’apprendistato cortese e si configura piuttosto come un’evoluzione della

33 Tavoni, loc. cit. 34 I gallicismi, p. 49.

35 Giunta, Rime, pp. 423-424. 36 Fenzi, Sollazzo, p. 219.

37 Anche se il cambio di prospettiva sul ruolo del poeta resta, nella canzone, più una conseguenza implicita che un vero

e proprio problema, affrontato da Dante in altri luoghi, quali De Vulg. 2.4.2-3 e, con diverso esito, nella Commedia: vd. Tavoni, Qualche idea, pp. 327-334.

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concezione di Amore -che, è bene chiarirlo, Dante non abbandonerà mai. Questo aspetto è stato evidenziato, oltre che nelle già citate voci disamorato e leggiadria, soprattutto in donneare e, relativamente a Le dolci rime, nella voce lealtà (vd.), che potrebbe aprire uno spiraglio all’amor cortese anche all’interno della definizione filosofica della gentilezza (vd.), per quanto l’interpretazione di Convivio non sviluppi questa lettura.

La stessa volontà di ridefinizione morale, linguistica e poetica sembra alla base della canzone Le

dolci rime. L’analisi in questo caso ha tenuto conto del rapporto fra la canzone, considerata nella

sua unità, e la prosa di Convivio, privilegiando la lettura del testo poetico. A differenza di Poscia

ch’Amor, nella terza canzone del trattato non vi è più solo un ragionamento di tipo morale, ma

anche filosofico, volto a definire i tratti della vera nobiltà con gli strumenti della logica aristotelica. In questo senso vanno intesi i frequenti latinismi che De Robertis considera volontari38 perché in linea con lo scopo dichiarato della canzone, cioè quello di definire la gentilezza per via sillogistica. L’aderenza lessicale alle auctoritates orienta la lettura della canzone come una summa che Dante rivolge «contra-li-erranti» su probabile modello di San Tommaso39, che indirizza la sua opera

contro la presunzione intellettuale di coloro che non abbracciano la vera fede40.

Le prospettive di ricerca aperte da un simile studio potrebbero avere il pregio di chiarire alcune questioni interpretative alla luce di nuovi confronti linguistici e documentari, oltre a quello di indagare più da vicino il significato delle parole di Dante. A questo proposito sarebbe utile allargare il campo ad altri termini chiave delle Rime dantesche, procedendo per famiglie lessicali e per aree semantiche contigue. In questa prima prova ci si è limitati a sostantivi quali leggiadria e gentilezza, ma molto si potrebbe ricavare, ad esempio, dal confronto con i corrispondenti leggiadro e gentile e con altri lessemi ad essi collegati, quali nobiltà, cortese e vile. Si tratta di termini ampiamente attestati anche nel resto delle opere dantesche e soprattutto nella Commedia, la cui analisi avrebbe portato il presente lavoro forse troppo lontano dai suoi scopi originari. Tuttavia, alla luce dei primi risultati ottenuti, non si nasconde la volontà e la speranza, da parte dell’autrice, di poter proseguire questo percorso in futuro.

38 vd. colligere e particola. 39 Borsa, Le dolci rime, p. 95.

40 L’intento della Summa contra gentiles sembra quello di rivolgersi ai non cristiani, ma la lettura di «disviano» a Conv.

4.30.3 può far pensare che Dante la credesse rivolta soprattutto contro gli eretici e gli scismatici: vd. Fioravanti,

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12 ADORNEZZA s.f.

DEFINIZIONI: 1 Ciò che rende adorno,

ornamento esteriore. 2 Bellezza, grazia. 2.1

Adornezza di miracoli: somma bellezza,

splendore

LOCUZ. E FRAS.:Adornezza di miracoli: 2.1.

FREQUENZA:

Altre opere 5 (5 Conv.)

LISTA FORME E INDEX LOCORUM:

Altre opere adornezza Conv. 2.15.2, Conv.

2 canz. 1.50 (:), Conv. 4.24.11; addornezze Conv. 2.10.11; adornezze Conv. 1.10.12.

CORRISPONDENZE:

Testi italiani antichi: … . Commenti danteschi: ... .

Vocabolari: TLIO; Crusca in rete; ED.

NOTA:Il sost. plur. è tradizionale nell’ambito

della lode di madonna a partire da Giacomo da Lentini 7.25: «passate di bellezze ogn'altra cosa, / come la rosa - passa ogn'altro fiore; / e l'adornezze quali v'acompagna / lo cor mi lancia e sagna», dove vale ‘bellezza’ al sing. (Antonelli,

Giacomo da Lentini, p. 208) per un

procedimento di espansione semantica tipico dei Siciliani (Coluccia, Storia, pp. 181-184). A Conv. 1.10.12 le «accidentali

adornezze» del dettato poetico sono la

rima, la quantità sillabica e il metro, con un’accezione del sost. simile all’uso ret. di

ornamento (vd.), con rif. per analogia alla

stessa funzione accessoria delle vesti denunciata a Rime 30.37 (vd. Fioravanti,

Convivio, pp. 166-167).

LOCUZ. E FRAS.: In Lapo Gianni 12.43 ricorre un verso quasi identico a Conv. 2, canz. 1.50: «e 'serverai meraviglia sovrana, / com' èn format' angeliche bellezze, / e di novi miracoli adornezze / ond' Amor tragge l' altezza d' onore». De Robertis (Rime 2005, p. 31) ipotizza che si tratti di derivazione da Dante e sottolinea che novi

al posto di «alti» è var. della trad. dantesca con possibile ripresa di Vn 21.4.14: «sì è novo miracolo e gentile» (De Robertis,

Rime 2002, p. 40). Il tema per cui la donna

realizza in sé straordinarie «adornezze» è in Guido Cavalcanti 44.8: «favella / Amor delle bellezze c' ha vedute, / dice che questa gentiletta e bella / tutte nove

adornezze ha in sé compiute» e l’att.

sembra rilevante nella misura in cui, in Voi

che ‘ntendendo, v. 50, «di sì alti miracoli adornezza» indica la donna stessa, che

risplende di un ‘complesso’ di miracoli (Foster-Boyde, Dante, pp. 167-168 e De Robertis, Rime 2005, p. 31). Questo possibile valore ontologico non sembra ulteriormente sviluppato nella prosa di

Conv. 2.10.11, dove il signif. letterale del

testo è ricondotto alla menzione tradizionale delle «adornezze» di madonna. Lo stesso scarto fra poesia e prosa si percepisce in sede di interpretazione allegorica, dove «adornezza» corrisponde a «li addornamenti delli miracoli» e poi a «li addornamenti delle meraviglie» (Conv. 2.15.11). Come nota Fioravanti (Convivio, p. 343), questo brano pone l’accento soprattutto sui «miracoli», che Dante considera nell’accezione di ‘cose che suscitano meraviglia’ leggendo gli «adornamenti» (ma non più, si badi, l’adornezza) come la dimostrazione delle loro cause. Ciò è in accordo con Aristotele,

Metafisica 982 b 12-13 secondo cui gli

uomini intrapresero la riflessione filosofica per indagare le cause di ciò che suscitava in loro meraviglia. Assottigliandosi dunque la connessione con la lettera del testo poetico, risulta forse difficile ipotizzare che la locuz. avesse in origine il signif. allegorico suggerito da Dante rel. alla natura stessa della donna–Filosofia, che assumerebbe retrospettivamente il valore di adornezza di miracoli in qualità di loro ‘dimostrazione’.

(13)

13

1 Ciò che rende adorno, ornamento esteriore.

[1] Conv. 1.10.12: [la quale non si potea bene manifestare] nelle cose rimate per le accidentali adornezze che quivi sono connesse, cioè la rima e lo tempo e lo numero regolato.

2. Bellezza, grazia.

[1] Conv. 4.24.11: La prima si è Obedienza; la seconda Soavitade; la terza Vergogna; la quarta Adornezza corporale, sì come dice lo testo nella prima particola.

[2] Conv. 2.10.11: impone a lei, cioè a l'anima mia, che chiami omai costei sua donna, promettendo a lei che di ciò assai si contenterà, quando ella sarà delle sue addornezze acorta.

2.1 Adornezza di miracoli: somma bellezza,

splendore.

[1] Conv. 2, canz. 1.50: Ché se tu non t'inganni, tu vedrai / di sì alti miracoli adornezza, / che tu dirai: 'Amor, segnor verace, / ecco l'ancella tua: fa che ti piace'.

ALGENTE agg.

DEFINIZIONI:1 Gelido, ghiacciato.

FREQUENZA:

Altre opere 1 (1 Rime).

LISTA FORME E INDEX LOCORUM:

Altre opere algente Rime 45.25.

VARIANTI: Rime 45.25: aere v; agente Ha Lr2 Md1 R83 R803 Add2t L46 McZ Mg11 Mr S;

algene Naz3; argento U2; argiente As2ab As3t; lagente C9b4 [-R108] Pal6 V3; peraugente B4

Naz7 Si7t; ingente µ Pal2; lo tempo Mg13.

CORRISPONDENZE:

Testi italiani antichi: … . Commenti danteschi: ... .

Vocabolari: TLIO; Crusca in rete; ED.

NOTA: Prima att. Latinismo. Voce dotta, difesa da De Robertis come lectio

difficilior (Rime 2002, pp. 120-121). Viene

considerata coniazione dantesca a partire da autori latini quali Plinio, Stazio, Marziale e Ovidio dell’Ars Amatoria (De Robertis, Rime 2005, p. 115). Nello specifico, si segnala il brano di Stazio,

Theb. 3.466, in cui algens è impiegato

nella descrizione del paesaggio invernale: «Hoc gemini vates sancta canentis olivae / fronde comam et niveis ornati tempora vittis / evadunt pariter, madidos ubi lucidus agros / ortus et algentes laxavit sole pruinas». Nel contesto di Rime 45.25, l’agg. è in rapporto di «sinonimia subordinante» con «freddo» (Frasca, La

furia, p. 57) e dà la misura scientifica della

temperatura estrema a cui, secondo la credenza dell’epoca, l’acqua diventa cristallo (vd. cristallino). L’unica altra att. è Petrarca, Canzoniere 185.8: «d'Amor tragge indi un liquido sottile / foco che m'arde a la più algente bruma».

AUTORE:Giulia Pedonese.

1 Gelido, ghiacciato.

[1] Rime 45.25: Segnor, tu sai che per algente freddo / l'acqua diventa cristallina petra / là sotto tramontana ov'è il gran freddo.

ANGELA s.f.

DEFINIZIONI: 1 Donna di straordinaria

bellezza e virtù (fig.).

FREQUENZA:

Altre opere 3 (1 Vn, 2 Conv.).

LISTA FORME E INDEX LOCORUM:

Altre opere angela Conv. 2 canz. 1.29,

2.9.1; angiola Vn 2.8.

(14)

14 Testi italiani antichi: … .

Commenti danteschi: ... .

Vocabolari: TLIO; Crusca in rete; ED.

NOTA: Prima att. Beatrice, nella Vn, è

spesso accostata alla figura di un angelo (soprattutto dopo la sua morte), ma è molto raro che venga chiamata angelo tout

court (cfr. Foster-Boyde, Dante, p. 165).

L’«angela che ‘n cielo è coronata» di

Conv., canz. 3.29 richiama la «donna che

riceve onore» di Oltre la spera e riassume la situazione esposta ai vv. 14-19. Secondo Fenzi (Voi che ‘ntendendo, p. 34), in accordo con l’interpretazione di Barbi (Dante, p. 51), la visione di Beatrice in cielo riattualizza e supera l’esperienza poetica della Vn alla luce di un signif. allegorico originario della prima canzone di Conv. Anche Guinizzelli parla delle sembianze della donna-angelo in un contesto in cui sono presenti le intelligenze motrici del cielo (vd. Al cor

gentil, vv. 41 e ss.) senza però passare dal

piano comparativo a quello ontologico. In

Voi che ‘ntendendo, l’immagine di

Beatrice non è più salvifica, ma suscita pensieri di morte e cede il passo alla Filosofia, che rappresenta qui il vero amore (Fenzi, Voi che ‘ntendendo, p. 35). Si potrebbe supporre che la caratterizzazione negativa del sentimento per Beatrice passi anche attraverso l’uso di termini dell’amor doloroso cavalcantiano, quali ad es. «dolente» al v. 14 e «affannata» al v. 33. Tali esempi, tuttavia, rientrano nell’ambito della descrizione tradizionale del sentimento amoroso senza comportare di necessità una concezione cavalcantiana dell’amore per donna, dal momento che si riscontrano

altri es. di lessico vicini a Cavalcanti in riferimento al nuovo amore per la sapienza (vd. spiritello), come «trema» al v. 22 e «angoscia» al v. 26 (Barbi- Pernicone, Rime, pp. 382-383).

AUTORE: Giulia Pedonese.

1 Donna di straordinaria bellezza e virtù

(fig.). || Propr. femm. di angelo.

[1] Vn 2.8: Elli mi comandava molte volte che io cercasse per vedere questa angiola giovanissima; onde io ne la mia puerizia molte volte l'andai cercando.

[2] Conv. 2, canz. 1.29: Trova contraro tal che lo distrugge / l'umil pensero che parlar mi sòle / d'un'angela che 'n cielo è coronata.

ANIMATO agg.

DEFINIZIONI: 1 Dotato di anima sensibile, di

funzioni vitali e movimento. 1.1 Dotato di anima vegetativa.

FREQUENZA:

Altre opere 12 (3 Vn, 9 Conv.).

LISTA FORME E INDEX LOCORUM:

Altre opere animata Vn 25.9 (2) animate

Vn 25.9, Conv. 3, canz. 2.64, Conv. 3.2.13, 3.3.4, 3.8.16;

animato Conv. 4, canz. 3.41 (:),

Conv. 4.3.4, 4.10.1, 4.10.4 (2).

CORRISPONDENZE:

Testi italiani antichi: … . Commenti danteschi: ... .

Vocabolari: TLIO; Crusca in rete; ED.

NOTA:A Vn 25.9, l’agg. ha il valore generico

di ‘vitale’ ed è usato per distinguere ciò che è dotato di vita da ciò che non lo è, presupponendo lo stesso rif. alla teoria aristotelica poi precisata nella prosa di

Conv. (cfr. infra) senza però assumere

(15)

15 potenze dell’anima, vegetativa, sensitiva e intellettiva, considerate in ordine gerarchico e caratterizzanti, nell’ordine, le piante, gli animali e l’uomo, fa capo ad Aristotele, Anima II.3, 415a 7-11, fonte dichiarata di Conv. 3.2.12: «Onde la potenza vegetativa, per la quale si vive, è fondamento sopra ‘l quale si sente, cioè vede, ode, gusta, odora e tocca; e questa vegetativa potenza per sé puote essere anima, sì come vedemo nelle piante tutte». Ai vv. 41-48 di Le dolci rime, volendo dimostrare per analogia l’errore di chi prima riconduce la gentilezza (vd.) al possesso di «antica ricchezza» e poi la identifica con i «belli costumi», Dante costruisce una proposizione errata nelle sue premesse, dal momento che il genere più prossimo all’uomo è quello animale e non quello vegetale (vd. «legno»), e difettosa nel suo sviluppo, in quanto dice animato e non razionale «che è differenza per la quale [l’]uomo dalla bestia si parte» (Conv. 4.10.4-5). In questo modo, animato dimostra il suo signif. specifico di ‘dotato di anima vegetativa’, che, sebbene presente di necessità anche nell’uomo, non lo definisce, vd. Conv. 3.2.14: «E quella anima che tutte queste potenze comprende, [ed] è perfettissima di tutte l’altre, è l’anima umana, la quale colla nobilitade della potenza ultima, cioè ragione, partecipa della divina natura». Come precisa Fioravanti (Convivio, p. 629), pur essendovi un medesimo errore di ragionamento, animato è manchevole per eccesso, in quanto indica una classe più ampia di quella necessaria a definire l’uomo, mentre i «belli costumi» non possono comprendere tutte le caratteristiche concettuali della nobiltà in quanto sono solo una piccola parte di essa (vd. Conv. 4.10.5).

AUTORE: Giulia Pedonese.

1 Dotato di anima sensibile, di funzioni vitali

e movimento.

[1] Vn 25.9: Per Lucano parla la cosa animata a la cosa inanimata, quivi.

[2] Conv. 3.3.4: Le piante, che sono prima animate, hanno amore a certo luogo più manifestamente, secondo che la complessione richiede.

1.1 Dotato di anima vegetativa.

[1] Conv. 4, canz. 3.41: Chi diffinisce: 'Omo è legno animato', / prima dice non vero, / e dopo 'l falso parla non intero.

[2] Conv. 4.10.4: e poi «parla non intero», cioè con difetto, in quanto dice 'animato', non dicendo 'razionale', che è differenza per la quale [l'] uomo dalla bestia si parte.

ASPRO agg.

DEFINIZIONI:1 Che ferisce l’udito, dissonante. 1.1 [Ret.] Rel. al suono non armonioso delle

parole, con rif. alla difficoltà di stile e contenuti. 2 Ruvido al tatto. 2.1 Aguzzo, pungente. 2.2 Detto di luogo impervio o irto di vegetazione. 3 Rif. a persona avversa e crudele.

FREQUENZA:

Commedia 8 (5 Inf., 3 Purg.). Altre opere 4 (3 Conv., 1 Rime).

1 (1 Fiore).

LISTA FORME E INDEX LOCORUM:

Commedia aspra Inf. 1.5, Purg. 2.65; aspre Inf. 11.72, 32.1; aspri

Inf. 13.7; aspro Inf. 16.6, Purg. 11.14, 16.6.

Altre opere aspra Conv. 4.2.12, 4.2.13, 4,

canz. 3.14; aspro Rime 46.1 (:).

aspro Fiore 30.7.

VARIANTI: Inf. 1.5: dura Po; Inf.13.7: asprei

Mad; Conv. 4.2.13: aspro X.

CORRISPONDENZE:

Testi italiani antichi: … .

(16)

16 Vocabolari: TLIO; Crusca in rete; ED.

NOTA: Il signif. 3.1 è «tecnicismo della trad.

retorica» (Mengaldo, L’aspro parlare, p. 29) che in Dante si specializza nella riflessione poetica e così viene recepito dai commentatori: vd. soprattutto Jacopo della Lana, Inf., c. 32, 1-9: «di sí trista materia convirave essere lo trattado o ver in prosa o in rimma aspra e no consonante». Mentre «aspre» di Inf. 11.72 riguarda esclusivamente l’aspetto fonico, nel contesto di Rime 46.1, l’agg., oltre ad essere programmatico nell’opporsi alla fase stilnovistica precedente (cfr. Manni,

Dante, p. 165), non si riferisce soltanto al

«suono de lo dittato» come si dichiara a

Conv. 4.2.13 a commento di Le dolci rime,

v. 14 (Boyde, Dante’s style, p. 100), ma anche al contenuto delle parole, violento e aggressivo in risposta all’ostilità della donna (cfr. Giunta, Rime, p. 500 e Pelosi,

Diaspro, p. 17) con un’applicazione del

principio della convenientia che si estende al rapporto tra il poeta e la donna oggetto del poetare (vd. impetrare).

AUTORE: Giulia Pedonese.

1. Che ferisce l’udito, dissonante.

[1] Inf. 11.72: Ma dimmi: quei de la palude pingue, / che mena il vento, e che batte la pioggia, / e che s'incontran con sì aspre lingue, / perché non dentro da la città roggia / sono ei puniti, se Dio li ha in ira?

1.1 [Ret.] Rel. al suono non armonioso delle

parole, con rif. alla difficoltà di stile e contenuti.

[1] Inf. 32.1: S' ïo avessi le rime aspre e chiocce, / come si converrebbe al tristo buco / sovra 'l qual pontan tutte l'altre rocce, / io premerei di mio concetto il suco / più pienamente.

[2] Conv. 4.2.13: E però dice «aspra» quanto al suono del dittato, che a tanta materia non conviene essere leno.

[3] Rime 46.1: Cosí nel mio parlar voglio esser aspro / com'è ne li atti questa bella petra, / la quale ognora impetra / maggior durezza e più natura cruda.

2 Ruvido al tatto.

[1] Purg. 16.6: Non fece al viso mio sì grosso velo / come quel fummo ch'ivi ci coperse, / né a sentir di così aspro pelo, / che l'occhio stare aperto non sofferse.

2.1 Aguzzo, pungente.

[1] Inf. 13.7: Non han sì aspri sterpi né sì folti / quelle fiere selvagge che 'n odio hanno / tra Cecina e Corneto i luoghi cólti.

2.2 Detto di luogo impervio o irto di

vegetazione.

[1] Inf. 1.5: Ahi quanto a dir qual era è cosa dura / esta selva selvaggia e aspra e forte / che nel pensier rinova la paura!

3 Rif. a persona avversa e crudele.

[1] Fiore 30.7: perch'ella dottava tradigione, / Mise lo Schifo in sul portal primiere, / Perch'ella il sentia aspro cavaliere.

ASSEMBRO s.m.

DEFINIZIONI:1 Cumulo, somma (di vizi).

Altre opere 1 (1 Rime).

LISTA FORME E INDEX LOCORUM:

Altre opere assembro Rime 49.132 (:).

Varianti: Rime 49.132: assembra Giuntv,

assempro As3 L122, essembro R91b R735a,

exemplo Add2v, rassembro Vl.

CORRISPONDENZE:

(17)

17 Commenti danteschi: ... .

Vocabolari: TLIO; Crusca in rete; ED.

NOTA: Francesismo. Prima att. Probabile formazione dantesca dal v. assembrare (Contini, Rime, p. 190 e Giunta, Rime, p. 580) che, come si può vedere dal Corpus OVI è att., prima di Dante, esclusivamente con il signif. traslato astratto di ‘paragonare’, ‘essere simile’ (vd. TLIO s.v. assembrare e cfr. Cella, I gallicismi, p. 322, che ne individua l’etimo dal fr.

assembler). Con il signif. originario di

‘mettere insieme’, il v. è att. a partire da Bind. D. Scelto, Storia di Troia cap. 98, p. 162.22: «Et così chom'io vi dico, furo assembrate tutte le navi ad Athenia; sì fu l'assembramento molto trasmaraviglioso a vedere». Da questo contesto (datato al 1322) si nota che il sost. derivato dal v. non è assembro, ma «assembramento», termine che pare avere più fortuna nelle att. sia prima che dopo il XIV sec. Il sost. ricorre prevalentemente in contesto militare, vd. Filippo da Santa Croce, Deca

prima di Tito Livio L. 5, cap. 16: «fecero

un assembro di volonterosi» anche con il valore di ‘scontro’, ‘combattimento’, vd. Filippo da Santa Croce, Deca prima di Tito

Livio L. 10, cap. 27: «Il primo assembro

fu sì fiero e sì aspro, e tanto si combattero per iguali forze». Non sembra aderente al contesto dantesco l’interpretazione del v. 132 come ‘lotta tra vizi’ (vd. ED s.v. assembro) dal momento che, in Doglia mi

reca, lo scopo della canzone è mettere in

guardia le donne dall’insieme dei vizi umani, di cui l’avarizia, trattata ai vv. 64-126, è solo un esempio (De Robertis, Rime

2005, p. 194).

VARIANTI. La presenza di assempro ed

exemplo come var. della trad. manoscritta

(De Robertis, Rime 2002, p. 250) fa

pensare a una probabile influenza di

assempro, cioè ‘esempio’ (vd. TLIO s.v.

esempio 2) sulla neoformazione dantesca. Sebbene si tratti di una var. facilior, sembra opportuno notare che una costruzione simile a Rime 49.132 con

assempro preceduto da complemento di

specificazione è att. in Guittone, Rime 8.15: «forma di cortesia e di piagenza / e di gente accoglienza, / norma di cavaler', di donne assempro» con ripresa in senso negativo a distanza di pochi versi, vd. Rime 8.31: «non di cavalier' norma / ma di ladroni, e non di donne assempro».

AUTORE: Giulia Pedonese.

1 Cumulo, somma (di vizi).

[1] Rime 49.132: In ciascun è di ciascun vizio assembro, / per che amistà nel mondo si confonde: / ché l'amorose fronde / di radice di ben altro ben tira.

AVVEZZARE v.

DEFINIZIONI:1 Abituare.

FREQUENZA:

Altre opere 1 (1 Rime).

LISTA FORME E INDEX LOCORUM:

Altre opere avvezza Rime 38.76 (:).

CORRISPONDENZE:

Testi italiani antichi: … . Commenti danteschi: ... .

Vocabolari: TLIO; Crusca in rete; ED.

NOTA:Nelle att. prec. il v. è accompagnato da un compl. indir. perlopiù introdotto dalla prep. a o in, cfr. Brunetto Latini, Tesoretto 2776: «E un altro per impiezza / a la zara

(18)

18 s'avezza» e Fr. da Barberino, Doc. Am., pt. 1, 13.7: «Convegnendo te stare / con quey ch'àn teco gran dimesticheça, / non men con lor t' aveça / in bei costumi e nobil reggimento». L’uso assol., più raro, è att. in Dante da Maiano 7.6: «Savere e cortesia ti fu donata; / chi n' ha furata, - pòi dir l' hai tu avezze: / [I]dio oltreplagente t' ha formata / ed innalzata; - ed eo n' aggio baldezze». Barbi-Pernicone (Rime, p. 509) leggono «e tanto Amor m'avvezza» di

Rime 38.76 come ‘mi tiene abitualmente’,

ma, dall’analisi delle att. del Corpus OVI, sembra che il signif. più probabile sia ‘dare un’abitudine’ (cfr. De Robertis, Rime

2005, p. 99 e Giunta, Rime, p. 422) di cui

Foster-Boyde (Dante, p. 207) accentuano il valore contestuale di ‘costringere’.

AUTORE: Giulia Pedonese.

1 Abituare.

[1] Rime 38.76: Ond'elli avven che tanto fo dimora / in uno stato, e tanto Amor m'avvezza / con un martiro e con una dolcezza, / quanto è quel tempo che spesso mi pugne, / che dura da ch'io perdo la sua vista / infino al tempo ch'ella si racquista.

BARBATO agg.

DEFINIZIONI: 1 [Bot.] Aggrappato per mezzo

di radici, radicato (in contesto fig.).

FREQUENZA:

Altre opere 1 (1 Rime).

LISTA FORME E INDEX LOCORUM: Altre opere barbato Rime 44.5.

CORRISPONDENZE:

Testi italiani antichi: … .

Commenti danteschi: ... .

Vocabolari: TLIO; Crusca in rete; ED.

NOTA: Il signif. del termine è chiarito da

Brunetto Latini, Tesoretto, 443, p. 191: «e la terra divise / e 'n ella fece e mise / ogne cosa barbata / che 'n terra è radicata». L’agg. si collega al contesto amoroso già in Guittone, Lettere in prosa, 29, p. 347.18: «Tutti amori non radicati in bono, nei tenpi detti, simile sono a biado barbato in sasso: a tenpo di gran calore disecca e torn' a nulla; e sì amore». Tuttavia, nel caso di Rime 44.5, più che all’infertilità di una pianta che abbia le sue radici in una pietra, la metaf. esprime la costanza dell’amore fondato «supra firmam petram» come la Chiesa di Cristo (Giunta, Rime, p. 481). Il termine sembra in rapporto polemico con Guittone 78.4: «de coralmente amar mai non dimagra / la voglia mia, né di servir s'arretra, / lei, ver' cui de bellezza ogn'altr'è magra, / per che ciascun ver' me sementa 'n petra» di cui si riprende anche la rima «arretra / petra» a

Rime 46.2-6. In questo modo, Dante

esprimerebbe la volontà di superare Guittone in entrambi gli ambiti della poesia amorosa e dottrinale, negando la separazione fra amore e sapienza con l’esperimento delle Petrose (cfr. Fenzi, Le

Rime, pp. 243-244 e Pelosi, La novità, pp.

41-46).

AUTORE:Giulia Pedonese.

1 [Bot.] Aggrappato per mezzo di radici,

radicato (in contesto fig.).

[1] Rime 44.5: e 'l mio disio però non cangia il verde, / sí è barbato ne la dura petra / che parla e sente come fosse donna.

(19)

19 DEFINIZIONI:1 Sost. Diventare bianco, biancheggiare.

FREQUENZA:

Altre opere 1 (1 Rime).

LISTA FORME E INDEX LOCORUM: Altre opere bianchir Rime 44.2.

VARIANTI: Rime 44.2: biancar: As1 B2 L38

Mv McZ r T3 Naz3.

CORRISPONDENZE:

Testi italiani antichi: … .

Commenti danteschi: ... .

Vocabolari: TLIO; Crusca in rete; ED.

NOTA: Deaggettivale da bianco, il v. è sost. solo in Dante. Contini (Rime, p. 158) interpreta «in senso neutro» come in Giovanni Villani L. 10, cap. 77, vol. 2, p. 280.23: «fecesi una moneta falsa in Firenze, ch'era quasi tutta di rame

bianchita d'ariento di fuori» e mette in

relazione il ‘biancheggiare’ dei colli allo spegnersi del colore vivo dell’erba descritto a Rime 44.3. Questa lettura è sostenuta dal precedente di Arnaut Daniel (modello dichiarato della sestina dantesca, cfr. De Vulg. 2.10.2 e 2.12.2), che, ne

L’aura amara, v. 3, utilizza il generico clarzir, cioè ‘schiarire’ (a cui l’ed. critica

Perugi preferisce la variante esclarzir, vd.

Canzoni, pp. 112-120) per il diradarsi dei

boschi a causa dell’inverno (Perugi,

Canzoni, p. 369). Tuttavia, resta la

possibilità di rif. il termine al colore decisamente bianco della neve (Barbi-Pernicone, Rime, p. 556) come si desume da Rime 44.7-12: «Similemente questa nova donna / si sta gelata come neve e

l’ombra: / ché non la move, se non come petra, il dolce tempo che riscalda i colli, / e che li fa tornar di bianco in verde». Probabilmente da scartare è invece l’interpretazione allegorica secondo la quale bianchir si riferisce alla canizie del poeta, giunto innamorato alla vecchiaia, come si legge nella rubrica del codice Ashburnhamiano 843, dal momento che non si tratta affatto dell’inverno come ultima stagione della vita, ma di un paesaggio invernale che corrisponde all’atteggiamento dell’amata (De Robertis,

Rime 2005, p. 106).

AUTORE:Giulia Pedonese.

1 Sost. Diventare bianco, biancheggiare.

[1] Rime 44.2: Al poco giorno e al gran cerchio d'ombra / son giunto, lasso, ed al bianchir de' colli, / quando si perde lo color ne l'erba.

BORRO s.m.

DEFINIZIONI: 1 Caldo borro: voragine

tormentosa della passione (fig.).

LOCUZ. E FRAS.:caldo borro 1.

FREQUENZA:

Altre opere 1 (1 Rime).

LISTA FORME E INDEX LOCORUM: Altre opere borro Rime 46.60 (:).

CORRISPONDENZE:

Testi italiani antichi: … .

Commenti danteschi: ... .

Vocabolari: TLIO; Crusca in rete; ED.

NOTA: Prima att. Il signif. di ‘burrone’ non comporta necessariamente la presenza di un corso d’acqua (GDLI s.v. borro 1),

(20)

20 perciò considero il signif. di ‘fossato’ (vd. TLIO s.v. borro 1) come secondario, in

quanto aggiunge l’idea di ‘scavo artificiale’, che non sembra compresa nell’accezione dantesca.

LOCUZ. E FRAS.: Come si comprende da un’imitazione di Paolo dell’Abaco (Chigiano L. iv. 131), che riprende anche la forma «squatra» (vd. squatrare), l’espress. notevole caldo borro è stata in seguito letta con il signif. di ‘inferno’ (Contini, Rime, p. 170): «Ahi ventre golforeo che non li squatra / el forte laccio dell’avaro Giuda / che disperato suda / nel caldo borro sostenendo guai».

AUTORE:Giulia Pedonese.

1 Caldo borro: voragine tormentosa della

passione (fig.). || Propr. burrone (in cui scorre un corso d’acqua).

[1] Rime 46.60: Omè, perché non latra / per me, com'io per lei, nel caldo borro?

BRUCARE v.

DEFINIZIONI: 1 Logorare consumando pian

piano (fig.).

FREQUENZA:

Altre opere 1 (1 Rime).

LISTA FORME E INDEX LOCORUM: Altre opere bruca Rime 46.33 (:).

CORRISPONDENZE:

Testi italiani antichi: … . Commenti danteschi: ... .

Vocabolari: TLIO; Crusca in rete; ED.

NOTA: Prima att. Termine non poetico (Mengaldo, L’aspro parlare, p. 31)

impiegato in senso metaf. a partire dal signif. concreto di ‘strappare l’erba con i denti’, ancora presente nel contesto (vd.

manducare). Fra le att. successive, l’unica

con signif. non letterale è Fazio degli Uberti, Dittamondo L. 5, cap. 9.93 (di chiara ispirazione dantesca), dove il v. ha il valore di ‘finire’, ‘consumarsi’: «Ed ello a noi: se tanta grazia luca / in voi, quant'è 'l disio, fatemi saggio / del cammin vostro e onde move e bruca».

AUTORE:Giulia Pedonese.

1 Logorare consumando pian piano (fig.) ||

Propr. modo di nutrirsi tipico degli erbivori. [1] Rime 46.33: Che più mi triema il cor qualora io penso / di lei in parte ov'altri li occhi induca, / per tema non traluca / lo mio penser di fuor sì che si scopra / ch'io non fo de la morte, che ogni senso / co li denti d'Amor già mi manduca: / ciò è che 'l pensier bruca / la lor vertù, sí che n'allenta l'opra.

CALCINA s.f.

DEFINIZIONI:1 Malta composta da una base di

calce e acqua.

FREQUENZA:

Altre opere 1 (1 Rime).

LISTA FORME E INDEX LOCORUM: Altre opere calcina Rime 44.18.

CORRISPONDENZE:

Testi italiani antichi: … .

Commenti danteschi: ... .

Vocabolari: TLIO; Crusca in rete; ED.

NOTA: Dato il contesto di Rime 44.18, in cui «ha serrato» indica l’azione di Amore sul poeta, paragonata all’indurirsi del

(21)

21 materiale da costruzione intorno alla «pietra», è più probabile che per calcina si intenda almeno la calce spenta, cioè calce mista ad acqua (ma il termine può indicare anche la malta composta da calce spenta e sabbia, vd. GDLI s.v. calcina 1). Per questa ragione, mi distacco dalla def. di TLIO s.v. calcina 1 che, non considerando il contesto dantesco, riporta il signif. di ‘calce non bagnata con acqua’ e ammette la possibilità che si tratti di ‘calcina stemperata con acqua’ solo nella locuz.

calcina spenta (vd. TLIO s.v. calcina 1.2).

Contini la ritiene una voce «più reale» di

calce e priva di trad. illustre (Rime, p.

159). Come si può vedere anche dal Corpus OVI, le att. precedenti di calcina sono costituite per la maggior parte da testi pratici e, comunque, in nessun caso da testi lirici.

AUTORE:Giulia Pedonese.

1 Malta composta da una base di calce e

acqua.

[1] Rime 44.18: Perché si mischia il crespo giallo e 'l verde / sì bel, ch'Amor lì viene a stare a l'ombra, / che m'ha serrato intra piccioli colli / più forte assai che la calcina petra.

CARRIERA s.f.

DEFINIZIONI:1 Tenere carriera: dirigersi.

LOCUZ. E FRAS.:Tenere carriera 1.

FREQUENZA:

Altre opere 1 (1 Rime).

LISTA FORME E INDEX LOCORUM:

Altre opere carriera Rime

VARIANTI: Rime 38.91: camera L Mg11 Mr R50 Add2 c' C6 C9 Ha – Barbi, Contini.

CORRISPONDENZE:

Testi italiani antichi: … . Commenti danteschi: ... .

Vocabolari: TLIO; Crusca in rete.

NOTA: Il sost. vale ‘strada’ ed è considerato

da De Robertis (Rime 2002, p. 95) come una possibile alternativa rispetto alla var.

camera (cfr. infra) sulla base del riscontro

con Brunetto Latini, Tesoretto, 2175: «colui n'andò in sua terra / ben apreso di guerra, / e io presi carriera / per andar là dov'iera / tutto mio intendimento» e Inf. 17.11: «Mala via tieni!».

VARIANTI. La var. camera darebbe luogo

all’espress. tenere camera dal signif. di ‘abitare, convivere’ (Contini, Rime, p. 131 e Barbi-Pernicone, Rime, p. 511) di cui non vi sono esempi nel Corpus Ovi, ma che risulta vicina al proverbio il buono fa

camera col buono (registrato in

Giusti-Capponi, Raccolta, p. 54, cit. in Giunta,

Rime, p. 423).

LOCUZ. E FRAS.: Il signif. di ‘percorrere una strada, dirigersi’ è precisato dal complemento di compagnia introdotto da

con, per cui il signif. contestuale

dell’espress. è ‘s’accompagna’ (De Robertis, Rime 2005, p. 100). L’unica altra occorrenza è in Sacchetti, Pataffio, cap. 5.83, p. 24: «Di ben far verso 'l gomito procaccio; / per le tre livre tonde tien

carriera, / e stralluna e lede essendo in

braccio», ma, per la natura linguisticamente composita dell’opera in cui si trova, non sembra che l’att. possa testimoniare un uso corrente. Piuttosto, Giunta (Rime, pp. 423-424) suggerisce l’ipotesi che l’espress. derivi dal prov., per cui, oltre alle due att. segnalate da Levy (Le roman de Floriant et Florete s.v.

(22)

22

carriera, cit, in Giunta, loc. cit) si vd.

Guiraut Riquier, L’autre jorn m’anava, v. 10: «la tengui carreira, / trobei la fronteira / a for benestan», Cerveri de Girona, Entre

Caldes e Penedes, v. 28: «tenetz vostra

carreyra» e, dello stesso autore, De Pala a

Torrossela, v. 82: «apres tenetz carreyra».

Dato il frequente influsso del lessico prov. sulla poesia di Dante, gli editori moderni hanno preferito accettare a testo la var. che determina la locuz. tenere carriera.

AUTORE: Giulia Pedonese.

1 Tenere carriera: dirigersi.

[1] Rime 38.91: espia, se far lo puoi, de la sua setta, / se vuoi saver qual è la sua persona: / ché 'l buon col buon sempre carriera tene. || Var.: camera L Mg11 Mr R50 Add2 c' C6 C9 Ha – Barbi,

Contini.

COLLIGERE v.

DEFINIZIONI: 1 Accumulare (ricchezze). 1.1

Raccogliere in sé, possedere.

FREQUENZA:

Commedia 1 (1 Purg.). Altre opere 3 (3 Conv.).

LISTA FORME E INDEX LOCORUM:

Commedia colletta Purg. 18.51 (:).

Altre opere colletta Conv., canz. 3.57 (:),

Conv. 4.11.3, 4.12.1.

CORRISPONDENZE:

Testi italiani antichi: … . Commenti danteschi: ... .

Vocabolari: TLIO; Crusca in rete; ED.

NOTA: Latinismo. Il part. pass. del v.

colligere, nella canzone Le dolci rime,

costituisce un «latinismo volontario» (De Robertis, Rime 2005, p. 64). Il v. si riscontra con il signif. di ‘raccogliere’

anche in Disputatio roxe et viole 199: «Violeta: per gran vertù son nada, / in tute parte eo apayro e sì posso fi colegia, / quello che m'à talento me acolie con alegreza». Ai vv. 51 e 56 di Le dolci rime, la ricchezza è detta per natura imperfetta e, dunque, vile, in quanto il suo accumulo non appaga il desiderio, anzi, è causa di rinnovate angosce come già in Guittone,

Rime 146.10: «e arricchendo più, non più

pagate, / ma, dove più montate, / più pagamento scende e cresce ardore» (cit. in Barbi-Pernicone, Rime, p. 423). In questo modo, l’esclusione delle «divizie» (v. 49) dal concetto di gentilezza (vd.) sembra ridursi, con ragionamento sillogistico analogo a quello utilizzato nella prima parte della canzone (vd. animato), a una contraddizione in termini che lega la natura dell’uomo gentile alla def. di nobiltà, essendo l’agg. «vile» rif. alle ricchezze l’opposto di nobile, vd. Conv. 4.11.2 «onde tanto quanto la cosa è perfetta, tanto è in sua natura nobile; quanto imperfetta, tanto vile» e cfr. Peirone, Significante, pp. 21-22.

AUTORE: Giulia Pedonese.

1 Accumulare (ricchezze).

[1] Conv. 4, canz. 3.57: Che siano vili appare ed imperfette, / ché, quantunque collette, / non posson quïetar, ma dan più cura.

1.1 Raccogliere in sé, possedere.

[1] Purg. 18.51: Ogne forma sustanzïal, che setta / è da matera ed è con lei unita, / specifica vertute ha in sé colletta, / la qual sanza operar non è sentita, / né si dimostra mai che per effetto, / come per verdi fronde pianta vita.

COMMIATO s.m.

DEFINIZIONI:1 Per commiato (di qno.): con il

permesso, per licenza di qno.

(23)

23 FREQUENZA:

Altre opere 1 (1 Rime).

LISTA FORME E INDEX LOCORUM:

Altre opere commiato Rime 49.21 (:).

CORRISPONDENZE:

Testi italiani antichi: … . Commenti danteschi: ... .

Vocabolari: TLIO; Crusca in rete; ED.

NOTA: Latinismo. Il sost. compare solo nell’espress. notevole «per suo

commiato», att. unicamente a Rime 49.21

(vd. def. 1). Pézard (Corroux, pp. 14-15) attribuisce a commiato il signif. lat. di ‘liberazione’, per cui la locuz. indicherebbe non soltanto la spontaneità dell’atto, ma anche il senso di sollievo ad esso conseguente. Tuttavia, oltre al fatto che tale valore è estraneo al lat. classico, sembra più opportuno accostare il passo dantesco all’espress. milit. dare commeatum alicui (vd. Forcellini s.v. commeatus). Inoltre, la lettura di Pézard

sembra dipendere dall’interpretazione di «partire da sé» come un invito a deturparsi e, nello specifico, a cavarsi gli occhi in quanto fonte principale di bellezza (Corroux pp. 8-9), lettura considerata possibile da Foster-Boyde, (Dante, pp. 299-300). Al contrario, sembrerebbe più aderente al contesto l’interpretazione ‘coprire la propria bellezza’ di Barbi-Pernicone (Rime, pp. 607-608): in questo modo, i vv. 19-20, generati dalla domanda retorica del v. 18, sarebbero un ampliamento del concetto espresso al v. 14: «coprir quanto di biltà v’è dato»,

conformemente al tono satirico della canzone (cfr. Giunta, Rime, pp. 559- 560). LOCUZ. E FRAS.: L’espress. innova in senso

morale il topos per cui la donna viene pregata di allontanare da sé la sua bellezza qualora non voglia che il poeta l’ami (cfr. FqMars 155,22 II, 22: «e s'a vos platz qu'en autra part me vire, / ostatz de vos la beutat e·l gen rire» (cit. in Giunta, Rime p. 563). È probabilmente da escludere che la locuz. determini una semplice cadenza conclusiva con il signif. di ‘completamente’, ‘una volta per tutte’ come suggerito da De Robertis (Rime

2005, p. 183) perché il discorso sembra

insistere sulla spontaneità dell’atto (vd. Contini, Rime, p. 185) in protesta contro la mancanza di virtù negli uomini, altrettanto deliberata e, perciò, colpevole, cfr. vv. 22-23: «Omo da sé vertù fatto ha lontana: / omo no, mala bestia ch'om simiglia».

AUTORE: Giulia Pedonese.

1 Per commiato (di qno.): con il permesso,

per licenza di qno.

[1] Rime 49.21: dico che bel disdegno / sarebbe in donna, di ragion laudato, / partir beltà da sé per suo commiato.

CONTESSA s.f.

DEFINIZIONI:1 Moglie del conte, donna con il

titolo nobiliare di conte.

FREQUENZA:

Altre opere 1 (1 Rime)

LISTA FORME E INDEX LOCORUM:

Altre opere Contessa Rime 49.153.

VARIANTI: Rime 49.153: cortese Naz2 R144 R340.

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