• Non ci sono risultati.

Gli attivisti afroamericani: Arthur Jafa, Kahlil Joseph ed Henry Taylor.

2.1.4 1960-1990: Maggiore spazio politico e culturale.

O: An European school, the students about half African half European TM: A French school?

4. Il confronto tra gli artisti: Chris Ofili e Simone Leigh.

5.1. May You Live in Interesting Times: la Biennale d’Arte di Venezia del 2019.

5.1.1. Gli attivisti afroamericani: Arthur Jafa, Kahlil Joseph ed Henry Taylor.

In occasione della 58a Mostra Internazionale d’Arte di Venezia, due artisti Afroamericani hanno presentato opere che riflettono in maniera approfondita sul concetto di blackness. Di diversa provenienza sociale ma adoperando simili mezzi espressivi, Arthur Jafa e Kahlil Joseph sollevano questioni legati al razzismo in America, questioni contro le quali si propone di combattere il Black Lives Matter, movimento attivista internazionale, nato entro la comunità statunitense ed in lotta contro la discriminazione e la violenza verso i neri. Tale fenomeno di arresto nel processo di integrazione della comunità di colore viene osservato con

4

79

occhio analitico da entrambi gli artisti, i quali tentano di opporsi ed osteggiarlo attraverso la propria arte.5

Nato a Tupela (Mississipi) nel 1960, Arthur Jafa è cresciuto nella regione del Mississipi Delta, uno dei luoghi più poveri degli Stati Uniti. Tuttavia, tale contesto ha consentito all’artista di sviluppare una propria percezione delle comunità nere degli Stati Uniti. Artista e filmmaker impegnato tra il cinema, le arti visive e i media culturali, Jafa si è aggiudicato il Leone d’Oro come miglior partecipante alla Mostra internazionale May You Live in

Interesting Times per aver affrontato in maniera pregante e decisiva i temi razziali. Nel corso

della carriera, infatti, il suo impegno è sempre stato quello di «difendere l’umanità delle vite dei neri» ed «esaminare le articolazioni razziali nella cultura di massa»6, in modo da facilitare allo spettatore la comprensione del concetto stesso di razza. Il suo immaginario risulta piuttosto diverso rispetto a quello proposto dalle immagini black, solitamente stereotipate, che dilagano nella cultura occidentale, ed il suo proposito è quello di «colmare il divario tra

blackness, intesa come conoscenza ed esperienza somatica, e l’universo della ‘produzione

visivo-culturale nera’ formale»7 che, secondo il parere dell’artista stesso, non è in grado di riflettere in maniera oggettiva la complessità ed il potere dell’espressività nera.8

Nella sede di Arsenale, Arthur Jafa ha presentato una monumentale installazione scultorea.

Big Wheel I, II, III (fig. 54) sono tre enormi pneumatici, alti e larghi quasi due metri, avvolti

da grandi catene, e corredati da un nucleo di materiali metallici fusi tra loro che ricordano i meteoriti. Questi ready-made, ispirati probabilmente dalla cultura monster truck del Mississipi, sono pregni di significati che rimandano alla storia afroamericana. Le catene infatti simboleggiano il soggiogamento a cui molti neri sono stati costretti durante gli anni del colonialismo; i pneumatici, invece, rimandano all’industria automobilistica statunitense, oggi in declino, ma che un tempo ha garantito lavoro a molti Afroamericani. A questa installazione è stata affiancata Little Buddha, fotografia che ritrae il figlio dell’artista all’età di due anni, collocata vicino a due blocchi altoparlanti (fig. 55).

5

Lorenzo Taiuti, Biennale di Venezia. Back to Black, «Artribune», 30-05-2019, s.n.p. https://www.artribune.com/arti-visive/arte-contemporanea/2019/05/biennale-venezia-kahlil-joseph-arthur- jafa/.

6

Kalia Brooks Nelson, Arthur Jafa, in May You Live In Interesting Times: Biennale Arte 2019, Venezia, La Biennale di Venezia, 2019, p. 268.

7 Ibidem. 8

80

Per la sede di Giardini, Jafa ha invece realizzato un lavoro cinematografico intento a «presentare (a livello visivo, concettuale, culturale e idiomatico) il mondo da una prospettiva nera»9 ed in tutte le sue sfaccettature. In un’intervista rilasciata alla Biennale, Jafa ha affermato: «the whole history of the world is the history of whiteness to certain degrees».10 Data questa consapevolezza, l’artista ha riflettuto su tale affermazione, tentando di dare una «definizione provvisoria della whiteness, considerata un sistema di potere in tutto il mondo».11 L’opera The white album (fig. 56) si propone quindi di capovolgere il punto di vista solitamente adottato. Nel filmano non solo vengono incluse immagini di violenza e follia del suprematismo bianco (ad esempio, le riprese del pestaggio del camionista Reginald Denny durante la rivolta a Los Angeles del 1992; il video dell’assassino bianco, Dylan Roof), ma sono presentati anche scatti e scene dimostrative dell’affetto che l’artista nutre per i bianchi. Ed è proprio questo l’aspetto attraente ed autentico del film, l’essere insieme dimostrazione di confidenza e di straniamento nei confronti della comunità bianca.12

The White Album è solo uno tra i tanti «film sperimentali ed estatici, liberi dagli stereotipi di

Hollywood, dai cliché e dalle strutture narrative tradizionali»13 prodotti da Arthur Jafa. Questi, infatti, può essere considerato esponente del cosiddetto New Black Film Renaissance, di cui l’afroamericano Steve McQueen14

è senza dubbio il riferimento.15 Insieme ad altri registi, quali lo stesso Kahlil Joseph, Malik Sayeed, Bradford Young, Terence Nance e Ya’Tovia Gary, Jafa ha esplorato le tematiche del cinema black attraverso strumenti e tecniche non commerciali. I suoi film legittimano «una nuova visione di cinema impuro che

9

Ibidem. 10

Si veda la video intervista dell’artista: https://www.youtube.com/watch?v=Sz_FJi2lhck. 11

Kalia Brooks Nelson, Arthur Jafa, cit., p. 268. 12

Ibidem. 13

Il ruggito d’oro di Arthur Jafa, «Il Manifesto», 17-11-2019, s.n.p. https://ilmanifesto.it/il-ruggito-doro-di- arthur-jafa/.

14

Steve McQueen è un artista visivo, regista e sceneggiatore afroamericano. I suoi lavori sono stati presentati in diverse esposizioni tra cui anche Biennale di Venezia nel 2009.

15 Arthur Jafa ha prodotto insieme alla regista Julie Dash il film Daughters of the Dust (1991). Grazie alla collaborazione di Elissa Blount Moorhead e Malik Sayeed ha dato vita a Tneg, studio per la ricerca e la promozione del cinema e della musica nera del ventunesimo secolo; la casa cinematografica ha prodotto, tra gli altri, il video 4:44 del cantante afroamericano Jay-Z. Facente parte dell’associazione Gavin Brown’s Enterprise, ha partecipato con i suoi film a molte mostre internazionali.

81

miscela e frulla video clip presi da tv, cellulari, Internet e documentari, esplorando il concetto di razzismo negli USA».16

Pur avendo intrapreso studi assai differenti e provenendo da uno Stato e da una condizione sociale diversi, Khalil Joseph è spinto dallo stesso impulso a riflettere sui concetti di

blackness e di come questi vengano sviluppati nelle culture contemporanee occidentali. Il

media adottato è il medesimo, il cinema, che l’artista utilizza per realizzare corti e lungometraggi stilizzati, eleganti e caratterizzati dalle stesse qualità dei video pubblicitari.

BLKNWS è stata la proposta per la Biennale del 2019. Il gioco di parole del titolo, che

rimanda chiaramente all’espressione black news, è eloquente ed efficace. Il film consiste in un flusso ininterrotto di immagini provenienti da varie fonti: filmati non professionali, video di YouTube, memes digitali, stories di Instagram, servizi televisivi, e molte altre scene, storie e vicende di neri impegnati in attività che toccano i più diversi campi, dallo sport alla politica, dall’arte all’economia (fig. 57). Le sequenze, montate secondo la prassi del cinema sperimentale al fine di ottenere brevi ed incalzanti pezzi in movimenti, sono ispirate all’idea duchampiana del ready-made: per Khalil Joseph, dunque, «qualsiasi cosa può essere ‘notizia’, soprattutto in un mondo in cui le notizie sono manipolate».17 Il video, iniziato nel 2018 ed

ancora in corso di realizzazione e montaggio, si evolve di pari passo con la cultura che esso rispecchia. Presentato su due schermi diversi – la separazione simboleggia «la disgregazione dei modelli e dei tropi dei media tradizionali»18 – esso è stato allestito su fondali diversi nelle due sedi della Mostra: ad Arsenale è collocato davanti ad una fotografia di soldati neri della Prima Guerra Mondiale; nella sede di Giardini, invece, è incorniciato da un’immagine di monache di colore. In quest’ultima sede, inoltre, è stato affiancato a poster e slogan, collocati sulle pareti sulle pareti che recano scritte come “Decostruire le filosofie europee”. BLKNWS, afferma l’artista, nasce con intento dimostrativo ed informativo, non polemico, come ad una prima visione sembrerebbe essere: Joseph vuole semplicemente illustrare la complessità e la varietà della presenza afroamericana all’interno della società statunitense. 19

16 Il ruggito d’oro di Arthur Jafa, cit., s.n.p. 17

Myriam Ben Salah, Kahlil Joseph, in May You Live In Interesting Times: Biennale Arte 2019, Venezia, La Biennale di Venezia, 2019, p. 273.

18 Ibidem. 19

82

Così come Arthur Jafa e Kahlil Joseph, anche l’afroamericano Henry Taylor racconta dell’esperienza nera all’interno della vita americana, servendosi, tuttavia, di uno strumento artistico più tradizionale, la pittura. Nato nel 1958 nella città californiana di Ventura, Henry Taylor è cresciuto ad Oxnard, dove ha lavorato per anni come tecnico psichiatrico prima di intraprendere un percorso artistico e frequentare il California Institute of the Arts. Il docente James Jarvise20, acceso ammiratore del suo talento artistico, ha spronato Taylor a portare avanti gli studi artistici, ed è grazie al suo sostegno che l’artista poté conseguire il diploma di primo livello in Belle Arti nel 1995. Di origini africane, le pitture di Henry Taylor si propongono di approfondire proprio le tematiche di identità della comunità nera americana, sollevando le questioni di disuguaglianza razziale, vagabondaggio, povertà, importanza e presenza della famiglia: «my paintings are what I see around me…they are my landscape paintings», ha affermato l’artista.21

Nella sede di Arsenale è stato esposto un monumentale trittico pittorico nel quale sono narrate tre storie apparentemente indipendenti, ma che poste una di fianco all’altra sembrano raccontare un’unica storia (fig. 58). Il primo terzo è una versione del ritratto senza autore di Toussaint Louverture, leader afroamericano della rivoluzione haitiana del 1791. Se nel dipinto originale il protagonista spicca su uno sfondo di una catena montuosa ed è circondato da un cielo nuvolo e minaccioso, per la propria opera Taylor ha scelto di semplificare il retroscena (reso anonimo grazie all’utilizzo di ampie campiture di colore azzurro) per far sì che l’attenzione si focalizzasse sul personaggio protagonista centrale, la cui presenza rimanda immediatamente alla vicenda nel quale egli stesso è stato coinvolto. La parte centrale del trittico è un tributo all’opera Remember the Revolution#1 di Glenn Ligon, artista concettuale afroamericano, il quale ha dedicato una serie di lavori alle questioni di razza e identità. L’ultimo terzo dell’opera è stato invece realizzato facendo riferimento ad una fotografia scattata al funerale di Carol Robertson, una delle quattro ragazze rimasta uccisa, nel 1963, a causa di una bombardamento di una chiesta cristiana a Birmingham, in Alabama; ciò che viene rappresentato, infatti, è un gruppo di persone afroamericane in un atteggiamento raccolto.22 Molto diversi tra di loro, per quanto riguarda i soggetti, ma ispirati dal medesimo

20

James Jarvise (1970) è un illustratore e designer inglese. 21

Si veda: https://www.blumandpoe.com/artists/henry_taylor?non_represented=false.

22 Helen Melesworth, Henry Taylor, in May You Live In Interesting Times: Biennale Arte 2019, Venezia, La Biennale di Venezia, 2019, p. 334-335.

83

impulso, sono i dipinti esposti al Padiglione Centrale dei Giardini: Another Wrong (2013),

Elan Supreme (2016), I became… (2016) e Hammons meets a hyena on holiday (2016) (fig.

59). Quest’ultimo trae spunto da una fotografia scattata a David Hammons, nel 1983, nelle vesti di venditore di palle di neve. La iena, la moschea ed il costume di Babbo Natale, oggetti apparentemente slegati tra di loro, sono tre elementi fortemente estranianti e di difficile comprensione.23 Come è apparso chiaro dall’opera appena descritta, i quadri di Henry Taylor sono popolati da soggetti ed oggetti disomogenei tra loro, fusi in un «mix culturale afroamericano».24 La grande abilità dell’artista, tuttavia, consiste nell’essere stato in grado di alleggerire i propri disegni, pregni di questioni razziali e di riferimenti alla passata storia dell’arte grazie all’adozione di un linguaggio caratterizzato da gesti pittorici parziali, frasi interrotte, figure incomplete, uso di colori vivi e vibranti; in questo modo, Taylor ha ottenuto facilmente l’attenzione dello spettatore.