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Successi e maturità artistica.

2.1.4 1960-1990: Maggiore spazio politico e culturale.

O: An European school, the students about half African half European TM: A French school?

4. Il confronto tra gli artisti: Chris Ofili e Simone Leigh.

4.1. Chris Ofili.

4.1.4. Successi e maturità artistica.

L’ascesa per Ofili avvenne quando, nel 1993, Stuart Morgan15

invitò l’artista a prendere parte alla mostra To Bodly Go presso la Cubitt Street Gallery, atelier e laboratorio artistico non lontano da King Cross. Le fama di Morgan come critico e curatore garantì ad Ofili visibilità da parte del mondo dell’arte.

12 The Elephant Man, an interview with Chris Ofili, «frieze», 06-03-1994, s. n. p.

https://frieze.com/article/elephant-man. 13

Judith Nesbitt, Beginnings, cit., pp. 8-21.

14 Katherine Brinson, After the fall, in Chris Ofili, Athens, DESTE, 2015, p. 8. 15

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Curators should be shot, they say. Artists could do better themselves. Weary of cheap abuse, an over-sensitive critic decides to get his own back. First he picks up the telephone just long enough to invite three young painters to show at Cubitt Street. Instead of visiting their studios, he gives them directions to the space and the time to arrive. There they find paint and primed canvases. From that moment, they will have two weeks to make large works, which will be hung an hour before the opening. Their only instructions will be to go for broke. Can punk curating produce masterpieces? All will be revealed in To Boldly Go.16

La mostra fu inaugurata il 13 maggio 1993 e terminò alla fine del mese. Ofili espose tre suoi dipinti realizzati con palle di sterco: Whooley, Ongley and Cattle (poi distrutta), Open e

Painting with Shit on it (fig. 26).17

Ofili si era ormai allontanato dai canoni accademici per costruire una propria personale poetica; «you don’t exist, unless you start to build yourself, and start to work»18

, affermava. La sua arte divenne a tal punto nota che la rivista frieze, all’epoca poco propensa alla pubblicazione di articoli su singoli artisti, gli dedicò una pagina nel 1994.19 Con lo scopo di ottenere visibilità, Ofili si recò in quell’anno a New York; qui incontrò Gavin Brown, artista e proprietario della Gavin Grown’s Enterprise, il quale dimostrò grande interesse per i suoi lavori. A Londra, Victoria Mirò lo invitò a prendere parte a una mostra collettiva intitolata

Painting.20

In quegli anni in cui la risposta da parte del pubblico esperto era ampia e positiva, Ofili a sua volta cercò di costruirsi una personale opinione sul mondo culturale dell’epoca. Già a partire dagli anni Ottanta del Novecento, l’atmosfera hip-hop cominciava a diffondersi in Inghilterra: il gruppo Public Enemy acquistava spazio e fama; i film di Spike Lee uscivano nelle sale cinematografiche; un’ondata di cultura “nera” si stava sviluppando in Gran Bretagna e nel mondo Occidentale. Dati questi eventi Ofili si sentì legittimato ad incorporare in maniera più esplicita elementi della cultura black all’interno delle proprie opere. La metà degli anni Novanta furono dunque per l’artista una “via di Damasco”: pur incorporando nelle proprie

16 Si veda il press release online della mostra: http://cubittartists.org.uk/1993/05/13/boldly-go/. 17

Judith Nesbitt, Beginnings, cit., pp. 8-21. 18

Ivi., p. 12.

19 L’articolo è ora consultabile online: https://frieze.com/article/elephant-man. 20

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opere aspetti davvero molti differenti tra di loro, tutti furono necessari a dare forma e a conferire maturità e pianezza al suo linguaggio artistico. 21

Questa concatenazione di modalità lo portò a sperimentare l’uso del collage, ottenendo i ritagli dalle più svariate riviste. Emerge immediatamente da questi lavori la capacità di eclettismo di Ofili, caratteristica che lo distinguerà per tutto il corso della carriera, poiché fu in grado di farsi ispirare da molti saperi, storico-artistici ma non solo. Si pensi all’opera 7

Bitches Tossing their Pussies before the Divine Dung (fig. 27), di taglio visionario e molto

simile al lavoro di William Blake The Four and the Twenty Elders Casting their Crowns

before the Divine Thrones (fig. 28); il plus che Ofili fu in grado di conferire all’opera fu

l’inserimento di immagini pornografiche.22

Nel 1996 uscì con una nuova serie di opere, Afrodizziac, presentata per la prima volta alla Galleria Victoria Mirò (fig. 29). Si trattava di dipinti carichi di tonalità, con increspature di colori psichedelici e superfici efflorescenti; in questi lavori totalmente astratti, l’artista spinse la tela all’eccesso; «Ofili recalls that “it was about trying to get as deeply lost as possible in both the process of painting and the painting itself”».23

Nel giro di pochi anni, tuttavia, la vorticosa astrazione e decoratività di Ofili cominciò a incorporare nuovamente figure dai tratti fisionomici africani, rappresentate con una nuova e spavalda energia. Presenze archetipe, piuttosto che veri e propri ritratti, questi personaggi erano i protagonisti di un mondo immaginario che combinava figure di colore con elementi della cultura popolare o artistica.24 Si pensi a Captain Shit (1998): un’icona da red carpet e figurino sexy nel suo abito di spandex, circondato da stelle nere e nel pieno del suo splendore pop (fig. 30). Il titolo completo dell’opera, The Adoration of Captain Shit and the Legend of

the Black Stars, evoca una maliziosa incongruità: al posto della tradizionale vignetta di Gesù

bambino è presente questo pseudo-supereroe, adorato da un vorace pubblico di fans e da un harem di sensuali occhi femminili. Interessante notare che i fans di questo semidio sono di carnagione bianca: lo scopo di Ofili fu infatti illustrare il paradosso della cultura black di quegli anni, avidamente fruita da un audience occidentale e bianca, pur essendo ancora

21 Ibidem. 22 Ibidem. 23 Ivi., p. 15. 24

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presenti i problemi razzisti e le polemiche razziali.25 In Pimpin’ ain’t easy, del 1997, la mascolinità iperbolica diventa ancora più assurda. Un enorme fallo rappresentato con volto da personaggio dei cartoni animati, circondato da immagini di idoli sportivi maschili ed affiancato da gambe femminili spalancate, guarda al di là della tela alla ricerca di un eventuale pubblico. Sono lavori carichi di un umorismo sardonico, che a prima vista possono apparire cupi o di poco gusto, tuttavia «Ofili’s hybridizing of mass-media banality with more elevated subject matter results in what he freely identifier as “things you can laugh at”».26

La reputazione sempre in crescendo dell’artista si consolidò con una mostra tenutasi alla Southampton City Art Gallery, successivamente riproposta alla Serpentine Gallery di Londra ed alla Whitworth Art Gallery di Manchester nel 1998 – un successo popolare e critico che gli valse la nomination al Turner Prize nel 1998. Chris Ofili fu il primo pittore, dopo il 1985, ad aver ottenuto la nomination, ed in assoluto il primo artista nero ad aver mai vinto il premio. Per quest’evento, Ofili realizzò No Woman, No Cry (fig. 31), tela appartenente alla serie di dipinti raffiguranti personaggi femminili – in questo periodo infatti l’artista era particolarmente affascinato e attratto dalle figure femminili, che traeva da un’ampia gamma di mondi e realtà.27 L’opera in questione riproponeva un titolo ormai noto all’interno della cultura londinese dell’epoca: No Woman, No Cry è infatti il brano del celeberrimo cantante giamaicano Bob Marley. La tela fu realizzata in omaggio a Doreen Lawrence, la madre dell’adolescente nero Stephen Lawrence, ucciso in un attacco razzista a Londra nel 1993. «“It was an issue that was still bubbling” he said. “This kid had been killed by white racists. The police had fucked up the investigation, and the image that stuck in my mind was not just his mother but sorrow—deep sorrow for someone who will never come back”».28

Così come in No Woman, No Cry anche il dipinto The Holy Virgin Mary (fig. 32), realizzato nel 1996, è carico di dolore e di solidarietà; entrambi sono accomunati dalla sofferenza di una madre per la perdita del figlio. Protagonista della seconda tela è una Vergine nera, circondata da raggi colorati e da collage di immagini pornografiche, elementi profani in un’opera a tema

25 Judith Nesbitt, Beginnings, cit., pp. 8-21. 26

Katherine Brinson, After the fall, cit., p. 9. 27

Judith Nesbitt, Beginnings, cit., pp. 8-21.

28 Calvin Tomkins, Into the Unknown, Chris Ofili returns to New York with a major retrospective, «The New Yorker», 29-10-2014, s.n.p. https://www.newyorker.com/magazine/2014/10/06/into-the-unknown.

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religioso.29 L’artista ha parlato della propria tela con i seguenti termini: «One of the starting points was the way black females are talked about in contemporary gangsta rap. I wanted to juxtapose the profanity of the porn clips with something that’s considered quite sacred. It’s quite important that it’s a Black Madonna».30 La sua opera nacque come tentativo di dare risposta alle domande che in infanzia si era posto sulla razza e sulla figura della Madre Vergine, dando vita ad una propria versione della storia, ad una Madonna “africanizzata”. L’ambizione dell’artista di fondere nella stessa opera stereotipi etnici, religiosi e sessuali si scontrò con la critica artistica e con alcuni schieramenti politici di quegli anni: sedici giorni dopo Sensation, la mostra al Brooklyn Museum dove era stata esposta The Holy Virgin Mary, il giornale Daily News parlò del museo definendolo una gallery of horror, e descrisse il dipinto di Ofili in questi termini: splattered with elephant dung. Altri giornali, incluso il Times, si soffermarono sulla notizia. Persino il sindaco di New York Rudy Giuliani, il quale all’epoca stava concorrendo per le elezioni al senato statunitense contro la candidata democratica Hilary Clinton, si dichiarò oltraggiato dall’opera di Ofili, che definì “sick stuff”, e tentò di tagliare i finanziamenti comunali destinati al museo, chiedendo che l’opera venisse rimossa dalla mostra – tuttavia i fondi furono nuovamente garantiti.31 Dopo questo scandalo, la persecuzione mediatica nei confronti di Ofili durò per settimane. L’artista, che in quei giorni si era stabilito a Londra, smise di rispondere alle chiamate; la sua assistente di studio, Tasha Amini, cercò di proteggerlo dai giornalisti e dai fotografi. Per tutelarsi l’artista decise di prendere parte soltanto ad un numero limitato di mostre e di non rilasciare più interviste di alcun tipo.32