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Identità e razza nella storia dell'arte africana

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Academic year: 2021

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Corso di Laurea magistrale

in Storia delle arti e conservazione dei beni artistici

Tesi di Laurea

All black artist make black art?

Emancipazione di artisti di origine o discendenza africana

nel panorama artistico contemporaneo

Relatore

Prof. Diego Mantoan

Laureanda

Elisabetta Osarite Moiraghi Matricola 871928

Anno Accademico

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Indice

1. Introduzione, p. 1

2. Storia degli artisti africani in Occidente, p. 4

2.1. La migrazione verso l’America, p. 4

2.1.1. 1619-1865: Schiavitù e privazione culturale, p. 4

2.1.2. 1865-1920: Emancipazione e fondamenta per il cambiamento, p. 11

2.1.3. 1920-1950: Nuova identità etnica e Rinascimento afroamericano,

p. 17

2.1.4. 1960-1990: Maggiore spazio politico e culturale, p. 26

2.2. Gli spostamenti verso l’Europa, p. 29

3. L’opinione dei critici e degli storici dell’arte, p. 30

3.1. Okwui Enwezor: accedere al panorama artistico internazionale, p. 30

3.2. Olu Oguibe: andare oltre l’Occidente, p. 35

3.3. Salah M. Hassan: autoanalisi ed autorappresentazione identitaria, p. 40

4. Il confronto tra gli artisti: Chris Ofili e Simone Leigh, p. 46

4.1. Chris Ofili, p. 46

4.1.1. Gli inizi: ’87, ’88, ’89, p. 46

4.1.2. Zimbabwe e Berlino, p. 47

4.1.3. ELEPHANT SHIT, p. 49

4.1.4. Successi e maturità artistica, p. 50

4.1.5. Verso un nuovo approccio artistico, p. 54

4.1.6. Trinidad: la svolta riflessiva, p. 57

4.1.7. L’attività scultorea di Chris Ofili, p. 58

4.1.8. Dualismo ed opposizioni: poetica dell’artista, p. 60

4.1.9. L’Africa nell’arte di Chris Ofili, p. 62

4.2. Simone Leigh, p. 64

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4.2.2. Simone Leigh: un diverso approccio al discorso, p. 67

4.2.3. I want to explore the wonder of what it is to be a Black

American, p. 68

4.2.4. Le opere, p. 70

4.2.4.1. Le opere scultoree, p. 70

4.2.4.2. Installazioni e progetti sociali, p. 74

4.2.4.3. Video installazioni, p. 75

5. Gli Africani della 58a Mostra Internazionale d’Arte di Venezia, p. 76

5.1. May You Live In Interesting Times: la Biennale d’Arte di Venezia del

2019, p. 77

5.1.1. Gli attivisti afroamericani: Arthur Jafa, Kahlil Joseph e Henry

Taylor, p. 78

5.1.2. Stan Douglas, p. 83

5.1.3. Tavares Strachan, p. 84

5.1.4. Gli artisti della diaspora nera: Njideka Akunyili Crosby, Frida

Orupabo, Michael Armitage, Julie Mehretu, Otobong Nkanga, p. 87

5.1.5. Zanele Muholi e Kemang Wa Lehulere: due esperienze

sudafricane, p. 95

6. Conclusioni, p. 99 7. Immagini, p. 102

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1. Introduzione.

All’interno del panorama artistico occidentale sono in progressivo aumento gli artisti di diversa origine culturale ed etnica. È forse imprescindibile per un artista di qualsiasi provenienza il confronto con l’Occidente, poiché questa realtà occupa uno spazio non indifferente nel mondo contemporaneo e questo è avvenuto anche per molti artisti africani, i quali, in seguito ad eventi legati alla storia o alle proprie vicende personali, hanno dovuto confrontarsi con l’Occidente, luogo nel quale si sono trovati a vivere o lavorare. Le reazioni che un simile processo può suscitare in un essere umano sono innumerevoli, forse infinite, poiché cambiano a seconda dell’individuo, della personalità e dell’esperienza vissuta. Interessante è chiedersi come gli artisti contemporanei abbiano affrontato questo aspetto della loro vita all’interno della propria arte.

La presente tesi verte intorno a questo argomento. Indaga le questioni di identità e razza nell’arte africana contemporanea. Analizza se e come gli artisti di origine o discendenza africana, inseriti all’interno del mondo e del mercato artistico occidentale, abbiano declinato nei propri lavori questioni legate alla propria storia, cultura e tradizione. Nel parlare oggi di Africa si rischia sempre di incorrere in discorsi difficoltosi, poiché la storia di questo continente si presenta lunga e complessa, ed ancora più intricate sono stata le vicende degli Africani, che nel corso dei secoli hanno dovuto affrontare spostamenti ed evoluzioni di ogni genere. Di conseguenza, risulta difficile poter dare una definizione precisa di “artista africano”, poiché i significati sono molteplici e sconfinate. Tuttavia, in questa tesi, con il termine “africano” si vorrà intendere un individuo che ha origine o discendenza africana, a prescindere dal luogo nel quale è nato, vive o lavora.

Altrettanto complesso è il dover dare una definizione di identità, razza ed etnia. È forse più semplice discutere di razza ed etnia, concetti che hanno a che vedere con un insieme di individui accomunati da caratteristiche fisico-somatiche, culturali e sociali, piuttosto che analizzare concetti legati all’identità, materia che riguarda invece la concezione che un individuo ha di se stesso in quanto singolo e di se stesso in relazione alla società. Quest’idea, infatti, non sempre coincide con l’effettiva razza o etnia; un artista di origini africane nato in Occidente non necessariamente si definirà africano. Nonostante la difficoltà dell’argomento,

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si tenterà, ove possibile, di individuare questi concetti nelle opere degli artisti che si prenderanno in considerazione.

Dare spazio a questa categoria di artisti, ovvero contemporanei, africani e occidentali, è dunque il proposito di questa ricerca, il cui obiettivo non è costruire una teoria, nemmeno una storia, bensì andare alla ricerca di tendenze artistiche nel lavori di un gruppo di individui accomunati da un’origine e da una cultura di provenienza. Se ne osserveranno da vicino le opere per scoprirne i linguaggi ricorrenti, le tradizioni che ne fanno da motore, ed i messaggi che vi sottostanno. Si presterà particolare attenzione al tema dell’autorappresentazione etnica ed identitaria e come essa venga declinata. Se possibile si porteranno alla luce le intenzioni e i punti di vista di tali artisti. Ci si chiederà dunque se le tematiche identitarie vengano affrontate in maniera libera e spontanea, se siano sollevate per un bisogno insito dell’autore, oppure perché indotto a farlo dal contesto nel quale vive. Una volta osservate le diverse casistiche, verrà forse spontaneo domandarsi quali siano le posizioni di questi artisti all’interno del mondo culturale e artistico occidentale; quanto la loro presenza sia legittimata, affermata, significativa o necessaria.

La ricerca è stata svolta all’interno di limiti ben definiti. Come si è già accennato, si prenderà in considerazione il periodo contemporaneo, intendendo con “contemporaneo” le vicende artistiche che hanno avuto inizio lo scorso secolo e si sono protratte sino ai giorni nostri. Uno spazio temporale limitato permette infatti di focalizzarsi con maggiore precisione sui soggetti e sulle dinamiche di interesse. L’Occidente è l’area geografica su cui si punterà il riflettore: l’attenzione, infatti, non è per l’arte africana praticata nel proprio paese, ma per come essa si sia manifestata nei contesti occidentali. Purtroppo l’aggettivo occidentale ha confini culturali e geografici non esattamente definiti e definibili. Tuttavia, in questa ricerca, si designano con il termine “Occidente” gli attuali territori europei e degli Stati Uniti. Pur nella consapevolezza che l’arte africana sia stata praticata anche in altri paesi al di fuori dei confini occidentali, si è scelto di concentrare lo sguardo su tale area geografica, poiché sembra essere il contesto con il quale il numero più ampio di artisti africani ha dovuto confrontarsi.

La tesi è suddivisa in quattro capitoli distinti ma non scollegati tra di loro. Nel primo capitolo si delinea una storia degli artisti africani in Occidente, focalizzandosi principalmente sulle vicende verificatesi negli Stati Uniti a partire dal XVII secolo sino alla fine del Novecento; uno spazio è stato anche dedicato agli eventi che hanno determinato la diaspora africana e le

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migrazioni avvenute dall’Africa al continente europeo. Il secondo capitolo presenta il punto di vista di tre dei principali storici e studiosi di questa materia: Okwui Enwezor, Olu Oguibe e Sala Hassan. Nonostante siano numerosi e in progressivo aumento i teorici che stanno direzionando i propri studi su questo tipo di argomento, in questa tesi sono state prese in considerazione le opinioni di tre africani. La scelta è stata fatta in accordo con le intenzioni della tesi, ovvero ritagliare spazio a voci esclusivamente africane che si sono espresse nel panorama artistico occidentale.

Nella seconda parte della ricerca verrà dato spazio agli artisti ed ai loro lavori con lo scopo di analizzarne i temi ed i linguaggi. Il terzo capitolo mette a confronto due artisti di fama internazionale: il nigeriano-inglese Chris Ofili e l’americana-giamaicana Simone Leigh. Giustapporre due artisti della stessa generazione, la cui esperienza implica dei legami culturali con l’Africa, permette di comprendere in maniera chiara quanto le questioni identitarie siano soggettive e come possano essere originalmente sviluppate attraverso l’arte. Con l’ultimo capitolo si intende invece presentare i lavori di un gruppo di artisti che hanno esposto alla Mostra Internazionale d’Arte di Venezia del 2019, in modo da individuare gli Africani che progressivamente stanno emergendo sulla scena artistica occidentale contemporanea.

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2. Storia degli artisti africani in Occidente.

Prima di inoltrarsi nel vivo delle questioni artistiche ed identitarie, è necessario domandarsi per quale motivo e attraverso quali modalità molti artisti di origine o discendenza africana vivono e lavorano fuori dal proprio continente d’origine, come siano arrivati in America e nei Paesi europei. Da sempre all’interno ed al di fuori dell’Africa vi sono stati spostamenti che hanno fatto sì che il popolo africano si insediasse in molteplici paesi del mondo. La prima migrazione, ad esempio, è avvenuta nell’età della pietra, circa due milioni e mezzo di anni fa, quando le prime popolazioni erano costituite da nomadi. Gli spostamenti avvenivano principalmente via terra, con lo scopo di raggiungere i territori delle attuali Europa e Asia. Col tempo queste genti si stanziarono anche in terre più lontane, come le isole del Pacifico, la Melanesia, la Polinesia, la Nuova Zelanda e le Hawaii, spostandosi via mare.1

2.1. La migrazione verso l’America.

Secoli più avanti vi fu un nuovo vistoso e spostamento delle popolazioni africane verso Ovest. Quest’ultima fu una migrazione forzata e voluta dai coloni europei con lo scopo di sfruttare gli Africani come schiavi. Su questo capitolo della storia sono disponibili molteplici fonti e documenti grazie ai quali si è in grado di ricostruire una narrazione relativamente dettagliata degli artisti africani in America.

2.1.1. 1619-1865: Schiavitù e privazione culturale.

Risale al 1619 il primo insediamento inglese fondato in America da coloni europei. In quell’anno un vascello olandese era approdato a Jamestown, Virginia, sulla costa Est del Nord America, portando con sé tra i venti e i trenta passeggeri provenienti dall’Africa, fra cui tre donne. Questi Africani iniziarono la loro vita nel nuovo continente come servi a contratto presso padroni europei bianchi: furono i primi lavoratori neri su suolo americano. Alla scadenza dell’obbligazione, dopo aver terminato il periodo di lavoro, a costoro venne data la possibilità di riottenere lo status di uomini liberi, con l’assegnazione, in certi casi, di terre che

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sarebbero passate sotto la loro proprietà. La loro condizione non era dunque diversa da altri individui che già erano stati costretti a praticare le stesse attività.2

L’uso della manodopera servile nelle piantagioni e nelle fattorie americane si diffuse con molta rapidità in Virginia e in altre regioni più a Sud. A causa di questa precipitosa espansione delle colonie, il numero di servi bianchi non risultò più sufficiente per sostenere gli intensi ritmi di lavoro. La soluzione a tale problema fu l’asservimento degli Africani. Tra il diciassettesimo e il diciottesimo secolo ben 280.000 Africani vennero importati nel territorio americano per essere destinati alle colonie meridionali e, poiché il giro d’affari cominciava a basarsi proprio sulla tratta e sullo sfruttamento dei neri, a partire dal 1661 l’istituto della schiavitù venne codificato giuridicamente.3

Fu uno dei più grandi crimi della storia. Rapiti e venduti sulle coste del golfo di Guinea, spesso per opera di capi africani in rapporti con trafficanti bianchi, i neri venivano trasportati su navi nigeriane in condizioni di miseria e disumanità. Una volta sbarcati nel continente americano, venivano portati nelle fattorie e nelle piantagioni, dove erano costretti a lavorare per il resto della loro vita. Sottoposti a crudeltà ed umiliazioni, trattati come meri oggetti, senza più alcuna libertà di decisione né di espressione, essi avevano poche possibilità di cambiare o migliorare la loro condizione sociale. La tratta e la schiavitù dei neri si protrasse fino alla fine della guerra civile (1865).4 Se all’inizio dell’Ottocento la schiavitù era già stata abolita in gran parte degli stati del Nord5, nel 1860 più di un terzo della popolazione del Sud America era ancora costituita da schiavi africani: dalle coste atlantiche del Maryland ai territori subtropicali, dalla Georgia alla Florida, da stati dove i neri erano la maggioranza ad altri dove erano ancora molto pochi, il mondo della schiavitù in questi territori fu assai eterogeneo.

La vita dello schiavo variava da caso a caso. Nonostante l’immagine più comune del lavoratore nero sia quello costretto nelle grandi piantagioni, la maggior parte degli Africani era impiegato in fattorie di piccole o medie dimensioni. In quest’ultime essi dovevano lavorare fianco a fianco con i padroni, sempre sotto il loro diretto controllo; tale situazione li

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Nikole Hannah-Jones, Our democracy’s founding ideals were false when they were written. Black Americans

have fought to make them true, «The New York Times Magazine», 14-08-2019, s.n.p.

https://www.nytimes.com/interactive/2019/08/14/magazine/black-history-american-democracy.html. 3

Oliviero Bergamini, Storia degli Stati Uniti, Roma, GLF editori Laterza, 2003, pp. 9-14. 4 Ivi., pp. 68-72.

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costringeva a una vita ancora più pesante e penosa. Diverse le condizioni di coloro che invece lavoravano nelle grandi piantagioni. Essi avevano la possibilità, seppur limitata, di coltivare una propria vita sociale. In ogni caso, gli schiavi africani conducevano un’esistenza misera: costretti ad una dieta monotona e a vivere in tristi baracche, lavoravano dall’alba al tramonto, con la sola eccezione della domenica (e, raramente, del sabato pomeriggio). Venivano maltrattati, frustati e venduti; molte famiglie furono separate con la forza. Intere generazioni di Africani furono costretti a tale diminuzione, personale e sociale.6

Nonostante la storiografia abbia spesso dipinto gli schiavi neri come vittime passive, studi più recenti hanno evidenziato come gli Africani si sforzarono costantemente, mediante diverse strategie, di resistere all’oppressione fisica e psicologica ai quali venivano sottoposti. Furono molteplici infatti gli interventi di resistenza: dall’ammutinamento sulle navi alle insurrezioni nelle piantagioni. Alcuni schiavi, i più coraggiosi, ebbero veri e propri scontri fisici con il padrone allo scopo di ottenere maggiore rispetto ed autonomia. La maggior parte tentò di scappare al Nord sfruttando l’aiuto della “ferrovia sotterranea”, una rete di benefattori disposti ad aiutare e ospitare i fuggitivi neri. Ancora più diffuse le forme di resistenza passiva, come il furto di cibo o di oggetti, il danneggiamento degli strumenti della fattoria, il rallentamento dei ritmi di lavoro. Pur essendo state molteplici le reazioni degli schiavi, i padroni cercarono sempre di stanare le insurrezioni. I neri non obbedienti venivano puniti con il castigo, il pestaggio o addirittura con la morte; venne proibita loro l’alfabetizzazione; si istituì un sistema meritocratico secondo cui gli schiavi più servizievoli potevano essere premiati con incarichi di lavoro o condizioni di vita migliori.7

Nel suo libro Negro art: past and present, l’intellettuale Alain Locke affermava che la schiavitù non solo costrinse gli Africani ad allontanarsi dalla loro patria, ma li escluse totalmente dal loro mondo culturale originario, per essere riposizionati all’interno di una società ostile e alla quale non appartenevano. Quanto affermato dallo studioso afroamericano fu in parte vero: lontani dalla loro terra d’origine, gli Africani perdettero ogni contatto diretto con le loro civiltà e mentalità; tuttavia non tutte le arti, i miti, i rituali, non tutte le tecniche tradizionali, tipiche delle terre native, furono andate perse dagli schiavi africani nel loro

6 Oliviero Bergamini, Storia degli Stati Uniti, cit., pp. 68-72. 7

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nuovo ambiente di vita: molti di questi elementi continuarono ad esistere per il semplice motivo che gli Africani avevano bisogno di comunicare e sostenersi a vicenda.8

La tutela e la difesa della propria cultura, diversa e alternativa rispetto a quella dei bianchi, fu un aspetto ai quale gli schiavi non rinunciarono. Se i padroni cercarono di diffondere ed insegnare la religione cristiana nel tentativo di inculcare idee di obbedienza e sottomissione, i neri invece elaborarono una religiosità profondamente diversa, reinterpretando i racconti biblici in chiave di speranza e liberazione. Mantennero viva la tradizione di canti e preghiere, così come quella dei racconti e delle credenze rituali (influenzate dall’animismo africano). Composero danze e musiche per sviluppare un senso di comunità e aggregazione. Questo loro bagaglio di culture e tradizioni fu forte a tal punto da influenzare, nel corso dei decenni, persino la cultura bianca americana.9

La continuazione delle tradizioni artistiche africane nel periodo della schiavitù ebbe una base sicura in ogni caso. Nelle colonie americane la domanda di artigiani specializzati cominciò a superare l’offerta. In risposta a tale situazione molti padroni bianchi decisero di sfruttare i loro sottomessi come artigiani, piuttosto che come operai. Nel corso del diciottesimo secolo, si diffuse infatti un sistema di noleggio ed apprendistato di Africani talentuosi. Un numero significativo di neri impegnati in occupazioni di tale tipo è testimoniato dai molti giornali coloniali dell’epoca. Un esempio: il magazine History of Rhode Island, di Edward Peterson, informava che Gilbert Stuart, un ritrattista residente nelle nuove colonie inglesi in America, aveva ricevuto la sua prima lezione di disegno da Neptune Thurson, schiavo africano occupato in un negozio di rame a Boston.10 Non è possibile stabilire con precisione l’inizio di un’“arte nera” praticata fuori dall’Africa, tuttavia le origini si possono collocare proprio nei decenni dell’espansione coloniale, in occasione di queste nuove possibilità che si presentarono ai neri.11

Nel corso del Settecento e dell’Ottocento, i prodotti artistici realizzati da Africani e Afroamericani riflettevano ancora la tradizione artistica della loro terra d’origine, diversamente da come si verificò nei secoli successivi, quando la tendenza figurativa si era

8 Samella Lewis, African American art and artists, Berkley, Los Angeles, London, University of California press, 1990, pp. 7-21.

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Ibidem. 10 Ibidem. 11

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fatta più simile agli stili accademici occidentali.12 Furono essenzialmente due i tipi di prodotti africani che vennero realizzati nel periodo coloniale. Il primo era costituito da articoli per l’uso personale degli schiavi: oggetti carichi di implicazioni mitiche e religiose, realizzati mediante l’utilizzo di materiali differenti, quali il cotone, il legno e le pelli. Tipiche di quest’epoca le trapunte a mosaico di tessuti colorati, così come gli utensili in ceramica, le perle di conchiglia, le bambole, gli intagli in osso, i cesti e le lapidi. Il significato folklorico di questi oggetti venne tenuto segreto dai neri perché non fosse accessibile alla cultura americana bianca, tuttavia, a causa della poca trasmissione, alla lunga venne perduto e dimenticato. Il secondo tipo di articoli è costituito da prodotti richiesti dalla clientela bianca americana per uso pubblico e professionale. Nelle colonie del Nord e del centro America, gli schiavi assunti come artigiani rivestivano i ruoli di fabbri dell’oro e dell’argento, altrimenti potevano svolgere incarichi da ebanisti, tipografi, incisori, ritrattisti e costruttori di vasi in grès. I prodotti che i bianchi ricavavano dallo sfruttamento dei neri in questo settore erano utensili in ferro e ferro battuto, mobili, lavori ad intaglio, contenitori per uso quotidiano, barattoli smaltati, pelli, borse lavorate, copertine di libri e abiti ricamati. Inoltre, gli Afroamericani collaborarono enormemente alla manodopera richiesta per la costruzione o il mantenimenti di edifici e palazzi.13 Tra il diciottesimo e il diciannovesimo secolo, il passaggio dei neri dalla condizione di schiavi a quella di artigiani poteva essere promosso anche da famiglie di colore benestanti. Questi mecenati commissionavano agli artisti la realizzazione di ritratti personali o di famiglia, poi esposti nelle loro abitazioni a dimostrazione dello status sociale.14

Anche se furono pochi i neri ad ottenere un riconoscimento pubblico in qualità di artigiani o artisti tra il diciottesimo e il diciannovesimo secolo, è doveroso elencare alcuni nomi di personalità che si distinsero nel panorama artistico afroamericano dell’epoca. Si ricorda in primo luogo Scipio Moorhead, attivo negli anni Settanta del Settecento. Artista africano, visse prevalentemente a Boston, Massachusetts. Fu al servizio del reverendo John Moorehead, la cui moglie, Sarah, ne tutelò il talento artistico. La poetessa statunitense di origine africana, Phillis Wheatley, menzionò Scipio Moorhead all’interno di una propria collezione di poesie, pubblicata a Londra nel 1773 (“To S. M., a Young African Painter, on Seeing His Works”). Il

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The dictionary of art, vol. 1, New York, Grove; London, Macmillan, 1996. 13 Samella Lewis, African American art and artists, cit., pp. 7-21.

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suo libro, inoltre, offriva una descrizione di Aurora, opera attribuita allo stesso Moorehead, e citava un altro dipinto rappresentante la vicenda di Damone e Fizia. È molto probabile, dunque, che la scrittrice avesse conosciuto di persona il reverendo John Moorhead, verosimilmente il possessore di queste opere. Attualmente non si conoscono lavori firmati dall’autore; tuttavia è possibile che la piastra di rame rappresentante Phillis Wheatley in prima pagina di molte delle sue pubblicazioni sia stata realizzata dallo stesso Scipio Moorhead.15 Sul Reverendo G. W. Hobbs si posseggono scarse notizie biografiche. Fu di Baltimora, e artista ufficiale della Methodist Episcopal Church durante il tardo Settecento. È ricordato per essere stato il primo Afroamericano residente negli Stati Uniti ad aver ritratto un altro uomo di colore (fig. 1). Il soggetto dell’opera, terminata nel 1785, probabilmente fu Richard Allen, schiavo che ottenne la propria libertà all’età di diciassette anni, e che divenne in seguito cofondatore e vescovo della chiesa sopra menzionata.16

Joshua Johnson, attivo tra il 1789 e il 1825, fu il primo artista africano la cui attività di pittore e ritrattista venne riconosciuta pubblicamente negli Stati Uniti. Sono poche le informazioni sulla sua vita; tuttavia, un sondaggio dell’epoca sembrerebbe individuarlo come schiavo nella fattoria di un pittore ritrattista dalle Indie Occidentali. Anche se la maggior parte dei soggetti protagonisti delle sue opere furono uomini facoltosi in possesso di territori e di schiavi neri, si ritiene che la sua opera più famosa sia Portrait of a Cleric (fig. 2), ritratto di un uomo afroamericano. Si stima che il lavoro sia stato realizzato tra il 1805 e il 1810 e, data la sensibilità e la cura con cui Johnson realizzò tale opera, è da ipotizzare che non si trattasse del suo primo ritratto di uomo nero. Nessuno tra i dipinti oggi attribuiti a Johnson è firmato o datato, tuttavia possono essere ricondotti allo stesso autore in quanto presentano tratti stilistici ricorrenti, come la presenza di volti a tre quarti e l’omissione di reazioni fisiche o psicologiche del soggetto ritratto. Generalmente egli seguì le pratiche e le tendenze artistiche tipiche dell’America di quel periodo, adottando quindi una stile particolarmente lineare e omogeneo.17

Julien Hudson, il quale lavorò tra gli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento, fu un Afroamericano libero. Il suo Autoritratto, terminato verso la fine degli anni Trenta ed oggi conservato al Lousiana State Museum, è l’unica opera di questo genere realizzata da un nero

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Samella Lewis, African American art and artists, cit., pp.7-21. 16 Ibidem.

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nel periodo coloniale. Le caratteristiche facciali della figura indicano che l’artista aveva origini miste, il suo abito suggerisce invece che egli godette dei privilegi della nobiltà.18

Robert M. Douglass, Jr. (1809-87) fu uno dei primi artisti afroamericani ad essersi alleato con alcuni leaders dei movimenti contro la schiavitù, tra i quali vi erano Frederick Douglass e William Lloyd Garrison. Da quando molti schiavi del Nord America avevano cominciato ad emanciparsi, vi erano meno esitazioni da parte dei neri a prendere parte a questi gruppi, che continuavano a guadagnare forze. Il contributo di Robert Douglass arrivò principalmente attraverso la pittura e la letteratura. Nel 1833, ad esempio, realizzò una un ritratto litografico di Garrison, le cui copie furono poi vendute tra New York e Filadelfia. Pur essendo nato libero ed avendo frequentato le scuole, non gli venne mai riconosciuto lo status di artista americano: ancora troppi pregiudizi razziali dilagavano tra la popolazione bianca. I fondi per permettere a Douglass gli studi artistici arrivarono dai gruppi abolizionisti ai quali egli aveva preso parte.

Diversamente dal cugino Robert Douglass, David Bustille Bowser (1820-1900) fu un “artista della domenica”. I suoi dipinti nacquero essenzialmente da una volontà di registrare idee ed impressioni strettamente personali. Tuttavia, per necessità di mantenere se stesso e la propria famiglia, fu costretto a lavorare come pittore per compagnie antincendio e altre istituzioni per le quali realizzò emblemi e bandiere.19

Incisore di Filadelfia, Patrick Henry Reason (1817?-1950?), dopo essersi stabilito con i genitori a New York, frequentò, verso la fine del diciannovesimo secolo, l’African Free School. Come molti altri giovani afroamericani associati ai movimenti abolizionisti, ebbe la possibilità di svolgere un apprendistato presso un artigiano americano bianco. La sua prima menzione pubblica arrivò quando, ancora studente, fu applaudito per il frontespizio de The

History of the African Free Schools (1830) di Charles C. Andrews. Più tardi, quando divenne

incisore e litografo professionista, i suoi lavori apparirono in molte pubblicazioni sponsorizzate dai gruppi contro la schiavitù. Come già accennato, durante questo periodo, le società abolizioniste offrivano a molti artisti afroamericani un esteso supporto economico e psichico, assegnando loro commissioni di ritratti di grandi riformatori e intellettuali. Lavori di

18 Ibidem. 19

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questo tipo realizzati da Reason includevano un disegno di Granville Sharp, abolizionista inglese, e due ritratti di Henry Bibb, schiavo liberato e docente abolizionista (fig. 3).20

William Simpson (attivo tra il 1854 e il 1872), venne portato sotto l’attenzione del pubblico grazie agli scritti di William Wells Brown, contemporaneo afroamericano, autore de The

Rising Sun e Antecedents and Advancement of the Colored Race. Questo scrittore dedicò

parole entusiastiche a Simpson ed ai suoi lavori, riportando inoltre molte informazioni sulla biografia dell’artista. William Simpson visse diversi anni a Buffalo, ma i suoi meriti come pittore arrivarono quando si trasferì negli stati del Nord e in Canada. Conosciuto principalmente come ritrattista, egli è ricordato per i Ritratti Loguen: uno rappresentante il vescovo Jeremain Wesley Loguen (fig. 4), l’altro la moglie Caroline.21

2.1.2. 1865-1920: Emancipazione e fondamenta per il cambiamento.

Negli anni Cinquanta dell’Ottocento il rapporto tra gli stati del Nord e quelli del Sud schiavisti si era fatto sempre più conflittuale. Le decisioni del governo nazionale a favore degli schiavisti aveva avuto come conseguenza la nascita e la radicalizzazione della lotta abolizionista. L’equilibrio già precario fra le nazioni si ruppe definitivamente nel 1860, anno dell’elezione a Presidente di Abraham Lincoln, repubblicano moderato del Nord. Ancora prima del suo insediamento nella Casa Bianca, sette stati del Sud (Mississippi, Florida, Carolina del Sud, Alabama, Georgia, Louisiana e Texas) si erano separati dagli Stati Uniti per formare gli Stati Confederati d’America. Lincoln, pur contrario a questa secessione, cercò di non opporsi radicalmente a questi stati, nella speranza di poter mediare tra le fazioni in opposizione. La decisione di Lincoln, secondo cui la schiavitù non sarebbe stata abolita ma non avrebbe potuto estendersi in nuovi territori americani, venne considerata inaccettabile dalle regioni schiaviste. Il 12 aprile 1861 i Confederati attaccarono la guarnigione federale di Fort Sumter a Charleston Harbor: l’evento sancì l’inizio della Guerra d’Indipendenza, segnata da quattro anni di battaglie estremamente sanguinose, dal 1861 al 1865. Sebbene fosse stato in parte scatenato da motivazioni d’ordine economico, tale scontro civile passò alla storia come la guerra per la liberazione degli schiavi africani.22

20

Ibidem. 21 Ibidem. 22

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Le ostilità che avevano portato alla guerra non si placarono entro la fine del conflitto: furono molte le difficoltà che si dovettero affrontare per la ricostruzione del Paese. Tale dato fu chiaro in seguito all’assassinio di Lincoln, avvenuto il 15 aprile 1865, sei giorni dopo la deposizione delle armi. Inoltre, non appena la guerra fu terminata, gli ex schiavisti tentarono immediatamente di ristabilire il controllo sugli schiavi liberati emanando i black codes, leggi che limitavano le libertà civili dei neri e le loro possibilità di crescita economica e sociale. La situazione degli stati del Sud, dunque, non cambiò in modo sensibile. La promessa di redistribuzione delle terre e di assegnazione di beni non fu mantenuta: mentre ai vecchi proprietari bianchi furono riconsegnati quasi tutti i territori a loro confiscati, gli ex schiavi di colore, pur avendo ottenuto la libertà, si ritrovarono senza alcun bene in mano. Molti neri dovettero quindi tornare a lavorare per i loro padroni, oppure si fecero coinvolgere in un sistema di mezzadria per cui risultavano economicamente dipendenti dai loro principali.23 Oltre ai gruppi terroristici di matrice razzista che si vennero a formare negli anni immediatamente dopo la guerra (si pensi al Ku Klux Klan, nato nel 1866), si sedimentarono nuove forme di penalizzazione dei neri. Ne sono un esempio i ritratti di uomini afroamericani raffigurati con le sembianze di clown, sempliciotti o creature che incarnavano qualità non umane o mostruose.24 Queste tavole contribuirono a generare simboli e immagini legati alla popolazione nera che per decadi avrebbero influenzato i valori razzisti americani. Nel tentativo di non doversi imbattere in tali discriminazioni, molti neri scelsero di spostarsi verso il Nord, soprattutto in grandi città come Baltimora, Filadelfia, Boston, New York, Washington, Atlanta e San Francisco, metropoli nelle quali la possibilità di successo personale e pubblico appariva più facile da raggiungere.25

Nonostante le limitazioni e i pregiudizi ai quali la popolazione di colore fu sottoposta, tra la fine dell’Ottocento e il primo ventennio del Novecento, si cercò di approvare importanti emendamenti volti ad abolire definitivamente la schiavitù, ad assicurare la cittadinanza agli Afroamericani e a garantire loro il diritto di voto. Vennero organizzate scuole per gli ex schiavi, in modo da assicurare loro un percorso scolastico ed educativo completo; la possibilità di un’istruzione fu accolta da un gran numero di neri. Furono fondate università, presto frequentate da brillanti studiosi afroamericani (si ricordano la Fisk University a

23 Ibidem. 24 Ibidem. 25 Ibidem.

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Nadhville, l’Howard University a Washington DC, il Morgan College di Baltimore e il Morehouse College ad Atlanta). La presenza di nuovi centri culturali ad accesso libero per i neri stimolò molti autori a scrivere di storia e cultura afroamericana; inoltre aumentarono le biografie di Afroamericani, proliferarono le autobiografie di ex schiavi. Tuttavia, anche se fu permesso ai neri di intraprendere una carriera scolastica e furono garantite loro maggiori possibilità di crescita, difficilmente ebbero la possibilità di raggiungere lo stesso successo economico e sociale di certi loro coetanei bianchi. Persino gli artisti furono vittime di tali svantaggi e la loro libertà di espressione fu sempre molto ostacolata.26

Furono due i principali approcci adottati in ambito artistico dai neri: il primo prevedeva l’accettazione dei valori artistici africani per farne spunto per la creazione di nuove opere d’arte; l’altro, invece, il radicale abbandono della tradizione per conformarsi all’estetica occidentale. Solitamente fu quest’ultimo l’approccio maggiormente accolto, poiché all’epoca il valore di un lavoro artistico si misurava in base alla sua aderenza alla cultura europea ed occidentale. La tendenza a evitare o eliminare temi afroamericani è dovuta quindi a tale motivazione: in un periodo in cui la cultura africana veniva perseguitata e screditata, gli artisti Afroamericani, per essere accettati in quanto tali, non avevano alternativa se non quella di rinunciare alle loro tradizioni artistiche per conformarsi ad altre estranee in voga. Si diffuse la credenza che un periodo di studio nelle capitali europee sarebbe stato necessario ad ottenere successo artistico. Convinti, o costretti, ad adeguarsi a tali gusti e standard estetici, molti neri si trasferirono all’estero nella speranza di ottenere un riconoscimento internazionale grazie alle commissioni provenienti dalla classe media europea.27 Un’occasione per gli artisti americani per informarsi sulle tendenza oltreoceano fu inoltre l’Esposizione del 1876 di Filadelfia.28 Esibizione artistica tenutasi in occasione del centenario dell’indipendenza americana, l’evento diede la possibilità agli artisti americani di approfondire lo studio dell’arte di pittori e scultori europei in mostra nei padiglioni. Questa eccessiva fiducia americana nella tradizione artistica europea rese ancora più complicati gli sforzi compiuti dagli Afroamericani per affermarsi come originali contribuenti dell’arte degli Stati Uniti. Pochi gli artisti coraggiosi che scelsero di rimanere in America o di non conformarsi all’estetica europea si impegnarono nella creazione di opere in grado di riflettere sulla

26

Ibidem.

27 Samella Lewis, African American art and artists, cit., pp. 23-58. 28

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situazione dei neri in America e sul fenomeno delle migrazioni al Nord.29 Questi artisti erano influenzati dalle idee di intellettuali quali Thomas Eakins e Winslow Homer, pittori entrambi convinti che il loro paese dovesse essere in grado di sviluppare un’arte “indigena” e libera dalle influenze europee.30

Anche se furono ridotti i casi in cui i neri poterono affermarsi ed essere riconosciuti come artisti su un ampio territorio, le possibilità culturali sponsorizzate dai gruppi abolizionisti aiutarono a creare una carriera significativa per molti Afroamericani. Tra questi si ricordano Robert Scott Duncanson (1821-1872), Eugene Warburg (1825-1867), Edward Mitchell Bannister (1828-1901), Grafton Tyler Brown (1841-1918), Nelson A. Primus (1842-1916), Charles Ethan Porther (1847-1923), Mary Edmonia Lewis (1843-1900?), Henry Osawa Tanner (1859-1937), Mtavauc Warrick (Fuller) (1877-1968), William Edouard Scott (1884-1964), Laura Wheeler Waring (1887-1948), William A. Harper (1873-1910), Addison N. Scurlock (1883-1964).

Robert Scott Duncanson (1821-1872), nato da padre scozzese-canadese e da madre di discendenza africana, visse i suoi primi anni di vita in Canada, per poi trasferirsi in una piccola comunità dell’Ohio, non lontana da Cincinnati. Qui, nel 1842, tenne una mostra nella quale figurarono tre suoi lavori: Fancy Portrait, Infant Savio e The Mister. Anche se residente a Cincinnati, frequentò spesso Detroit e le attività artistiche e culturali che la città offriva. Inizialmente cimentatosi nella realizzazione di ritratti su commissione, il vero talento dell’artista emerse con la realizzazione di dipinti di paesaggio, influenzati dai linguaggi di Thomas Cole e Asher B. Durand. Tra il 1845 e il 1853 viaggiò tra il New England e le regioni degli Appalachi; The blue hole, flood waters, little Miami river (fig. 5) e Views of Cincinnati,

Ohio, from Covington, Kentucky (fig. 6) sono due lavori realizzati da Duncanson in questo

periodo, il secondo dei quali è un raro esempio di dipinto urbano dell’epoca. Nel 1848 gli fu commissionata da parte dell’ex avvocato Nicholas Longworth la realizzazione di una serie di murales per la sua residenza a Cincinnati. Il lavoro, completato nel giro di due anni, si componeva di otto elementi e, per la qualità dello stile, ricordava la tradizione paesaggistica francese. L’unico lavoro sopravvissuto di Duncanson nel quale è presente la tematica dell’uomo nero è Uncle Tom and little Eva (fig. 7). L’artista raggiunse l’apice della sua

29

Samella Lewis, African American art and artists, cit., pp. 23-58.

30 Thomas Cowperthwait Eakins (1844-1916) è stato un pensatore, pittore e fotografo statunitense. Winslow Homer (1836-1919), anch’egli statunitense, si è invece occupato di illustrazione ed incisione.

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carriera intorno agli anni Cinquanta, quando molte delle sue opere furono comprate da diverse società di Cincinnati. Nel 1861 terminò l’opera Land of the Lotus Eaters, esibita nella propria città e ricoperta da sincere lodi da parte della critica. Probabilmente l’artista si recò in Europa intorno al 1863; la mancanza del suo nome negli elenchi cittadini di Cincinnati dal 1864 al 1866 fa infatti supporre che egli si fosse stabilito all’estero, probabilmente per allontanarsi dal razzismo in forte incremento durante gli anni della guerra civile. Nel 1867, Duncanson tornò nella sua città di residenza e portò avanti la propria attività di artista con successo.31

Degna di approfondimento è anche l’attività di Edward Mitchell Bannister (1828-1901), artista nato a St. Andrews, New Brunswick, Canada. Durante la giovinezza aveva lavorato come cuoco di una nave mercantile costiera; negli anni Cinquanta si era stabilito a Boston, dove studiò al Lowell Institute sotto la supervisione di William Rimmer, scultore dell’epoca. Entro il 1855, Bannister aveva già realizzato la sua prima opera su commissione, ovvero The

ship outward bound¸ diventando il primo artista afroamericano riconosciuto come pittore

ufficiale di una determinata regione. Nel 1871, si trasferì con la moglie a Providence, una città del Rhode Island, all’epoca non ancora nota per le sue attività artistiche. Impegnato nella vita culturale del luogo, Bannister divenne uno dei tre fondatori del Providence Art Club, che si evolse successivamente nella Rhode Island School of Design. All’Esposizione di Filadelfia del 1876 ricevette un riconoscimento nazionale e una medaglia di bronzo per il dipinto Under

the Oaks (1875), opera oggi andata perduta – nonostante questa vittoria, non gli fu permesso

di esporre le proprie opere a causa delle sue origini africane. Negli anni Settanta dell’Ottocento Bannister aveva ormai raggiunto piena maturità pittorica: i suoi lavori erano distinguibili per la pennellata semplice e lineare. Nel corso della sua carriera fu principalmente artista di paesaggi, il cui stile si manifestava a volte in maniera più lirica, altre più espressionistica o pittoresca, come si può osservare nelle due diverse opere Approaching

Storm e Driving home the cows (figure 8, 9). Bannister morì nel 1901; cinque mesi dopo gli

venne dedicata una mostra presso il Providence Art Club e furono esibiti 101 suoi dipinti.32 La prima donna afroamericana ad aver ottenuto riconoscimenti pubblici per la sua carriera artistica fu Mary Edmonia Lewis (1843-1900?), oltre ad essersi distinta come il primo cittadino afroamericano negli Stati Uniti ad aver guadagnato le reputazione di scultrice

31 Samella Lewis, African American art and artists, cit., pp. 23-58. 32

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professionista. Pur essendo piuttosto scarse le informazioni sulla sua vita, si crede che l’artista sia nata nello Stato di New York. Figlia di madre Chippewa e di un Africano libero, fu orfana dalla giovane età e, dopo la morte dei genitori, si trasferì presso le cascate del Niagara, dove vivevano le due sorelle della madre. Conosciuta con il suo nome Chippewa, ovvero Wildfire, fu soltanto quando si immatricolò all’Oberlin College, in Ohio, che cominciò a farsi chiamare Edmonia. Presso questo istituto seguì il corso di letteratura, che includeva lo studio del greco e del latino. Nel 1862, in seguito ad un’accusa di avvelenamento nei confronti di una sua coetanea, fu costretta ad abbandonare la comunità bianca di cui aveva preso parte per tornare a vivere con la famiglia della madre. Tuttavia l’artista scelse di trasferirsi a Boston, dove studiò per un breve periodo con Edmond Brackett, noto scultore locale e, grazie al successo ottenuto con vendite di alcuni suoi lavori, la Lewis ebbe la possibilità aprire un proprio atelier. Nel 1865 salpò per l’Italia e si stabilì a Roma; anche qui diede vita ad un laboratorio artistico. Durante il suo soggiorno in Europa fu fortemente influenzata dalla scultura greca e romana, le cui caratteristiche formali influirono sui suoi lavori successivi. Al ritorno negli Stati Uniti, nel 1874, fu accolta con grande ammirazione sia a Boston che a Filadelfia, ricevendo applausi da molta parte della critica dell’epoca; Henry Tuckerman33, ad esempio, la descrisse come una degli artisti più interessanti degli Stati Uniti all’epoca, esortando i colleghi contemporanei a imitare il suo stile figurativo e naturalistico. Il successo di Edomnia Lewis tuttavia fu breve, ma le motivazioni del declino della sua carriera, così come la data e le circostanze della morte, sono ancora sconosciute.34 Uno dei lavori più rappresentativi della Lewis è il busto del poeta Henry Wadsworth Longfellow, portato a termine negli anni Settanta; tra le altre opere sopravvissute vi sono una scultura di Abraham Lincoln del 1870, oggi conservata alla Libreria Municipale di San José, in California, ed un’altra intitolata Forever Free (fig. 10).

Tra gli artisti africani e afroamericani residenti negli Stati Uniti nella seconda metà del diciannovesimo secolo, Henry Ossawa Tanner (1859-1937) è riconosciuto come uno dei più influenti e di valore. Grazie al suo spirito pioneristico, agli studi e alle ricerche compiuti in America e all’estero poté ottenere fama mondiale per le sue opere. Tanner nacque il 21 giugno del 1859, a Pittsburg Northside, da Benjamin Tucker Tanner, un pastore della African Methodist Episcopal Church, e la moglie Elizabeth Miller. Il suo entusiasmo per la pittura si

33 Henry Theodore Tuckerman (1813-1871) fu uno scrittore e critico americano. 34

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era rivelato già all’età di tredici anni, quando durante una passeggiata con il padre al Fairmont Park di Filadelfia gli capitò di imbattersi in un dipinto di paesaggio. Nel 1869 si iscrisse alla Robert Vaux Consolidated School for Colored Studies, ottenendo il diploma nel 1877. L’anno seguente cominciò a frequentare la Pennsylvania Academy of Fine Arts, dove fu a stretto contatto con Thomas Eakins. Visto il suo talento, Tanner cominciò presto a vendere i propri lavori artistici, grazie ai quali poté mantenersi per tutta la fine dell’Ottocento. Nel gennaio del 1891 salpò per l’Europa: l’intenzione primaria era quella di stabilirsi a Roma; tuttavia si fermò a Parigi per iscriversi all’Accademia Julien, dove ricevette l’accoglienza e il supporto che gli servirono per sentirsi finalmente libero di esprimere se stesso attraverso la propria arte. Morì in Francia nel maggio del 1937.35 Pittore sensibile e dalla tavolozza delicata, Tanner attrasse l’attenzione del pubblico e della critica grazie a due sue grandi opere: The Thankful

Poor e Banjo lesson (figure 11, 12), lavori entrambi tesi a illustrare scene di vita quotidiana,

abitudini e valori di una normale famiglia di colore dell’epoca.36

Il più grande merito di Tanner fu quello di essersi servito della propria arte per diffondere un sentimento positivo nei confronti delle comunità afroamericane, rifiutando inoltre di conformarsi alle categorie artistiche allora dominanti.

2.1.3. 1920-1950: Nuova identità etnica e Rinascimento afroamericano.

Nel corso degli anni Venti del Novecento gli Stati Uniti furono investiti da una rapida crescita economica. Una nuova ondata del processo di urbanizzazione contribuì a riorganizzare la società e, poiché la popolazione urbana arrivò a superare quella rurale, le grandi città statunitensi si trovarono a detenere l’egemonia culturale del paese. Le migrazioni riguardarono anche gli Afroamericani, i quali abbandonarono in massa le regioni povere ed oppressive del Sud alla ricerca di maggiori opportunità di crescita e di libertà di espressione. Nei centri urbani si svilupparono forme di vita più consumistiche ed edonistiche. Magazzini, abiti, prodotti in serie, sport, musica, programmi radiofonici e cinema presero a moltiplicarsi e a diffondersi nelle grandi metropoli. Furono i cosiddetti “ruggenti” anni Venti in America.37

35

Dele Jegede, Encyclopedia of African American artists, Wesport, London, Greenwood Press, 2009. 36 Samella Lewis, African American art and artists, cit., pp. 23-58.

37

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Tuttavia fu un decennio molto più complesso e scuro di quanto ci si possa immaginare. Il boom economico e il vertiginoso aumento dei consumi contribuì a diffondere un clima di nazionalismo conservatore che trovò la sua manifestazione nella rinascita del Ku Klux Klan; furono anni di nuovo proibizionismo e di tentativi di moralizzazione dell’intera nazione. Gli intellettuali americani del Nord espressero il loro dissenso nei confronti di questa situazione cercando rifugio dalla cappa ideologica che li soffocava all’estero. Questi artisti della “generazione perduta”, tra i quali Ernest Hemingway, Gertrude Stein, Ezra Pound, Thomas S. Eliot, si trasferirono in Europa poiché ormai privi di qualsiasi fiducia nei confronti dei valori americani.38

Diverse invece le condizioni degli Afroamericani. Nonostante il 1919 sia passato alla storia come l’anno dell’“estate rossa” (stagione in cui scoppiarono numerose sommosse razziali in diverse città), fu anche l’anno in cui il poeta Claude McKay pubblicò la poesia If we must die (“Se dobbiamo morire”)39

, evento letterario che gli studiosi hanno scelto come data per sancire l’inizio del Rinascimento Harlem.

Si trattò di una “presa di coscienza di un’entità culturale negra, autonoma e non ancillare rispetto ai valori dei bianchi”40, di un’esplosione di creatività afroamericana che ebbe luogo in diverse città statunitensi negli anni Venti del Novecento, ed in maniera significativa nel quartiere Harlem di New York. Questa zona residenziale della medio-alta borghesia bianca venne aperta, nel primo ventennio del secolo, ai neri che vivevano in città. A causa della segregazione razziale che limitava le zone in cui essi potevano abitare, Harlem si popolò presto di Afroamericani, diventando oggetto di speculazione edilizia, sempre più sovraffollata, degenerata, ma paradossalmente con abitazioni costose. Fu qui che la comunità nera si trovò ad interagire e confrontarsi su argomenti di tipo artistico e culturale: Harlem divenne la “capitale nera” del mondo occidentale, luogo di grande sperimentazione artistica, di creazione di musica, di spettacolo e di letteratura (si pensi allo sviluppo della musica jazz, sintesi dell’energia della cultura nera di questi anni). Artisti ed intellettuali provenienti da

38 Ibidem. 39

If we must die—let it not be like hogs | Hunted and penned in an inglorious spot, | While round us bark the mad and hungry dogs, | Making their mock at our accursed lot. | If we must die—oh, let us nobly die, | So that our precious blood may not be shed | In vain; then even the monsters we defy | Shall be constrained to honor us though dead! | Oh, Kinsmen! We must meet the common foe; | Though far outnumbered, let us show us brave, | And for their thousand blows deal one death-blow! | What though before us lies the open grave? | Like men we'll face the murderous, cowardly pack, | Pressed to the wall, dying, but fighting back!

40

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differenti luoghi degli Stati Uniti e dei Caraibi furono attratti da questo quartiere caratterizzato da una cultura unica e dinamica. Incoraggiati da tutti quegli artisti bianchi che avevano cominciato a raffigurare nei loro lavori uomini di colore non più per farne stereotipi triviali e sentimentali bensì come seri oggetti di studio e di interesse41, gli artisti africani cominciarono a concepire una diversa immagine di sé, sviluppando una nuova fiducia e un maggiore rispetto verso loro stessi. La loro filosofia prevedeva la combinazione di consapevolezza etnica, realismo e cultura americana. Sebbene il periodo di fioritura dell’Harlem e della diffusione del New Negro Movement durarono per un periodo limitato, queste tendenze contribuirono ad infondere nei neri maggiore coscienza delle loro risorse umane e sociali.42

Numerosi letterati e intellettuali di colore, quali James Weldon Johnson, Charles S. Johnson e Alain Locke, si impegnarono a fare luce su tale evoluzione della cultura nera. Il libro The New

Negro, pubblicato da Locke43 nel 1925, può essere considerato il manifesto degli artisti

afroamericani di questo ventennio. New Negro fu uno degli slogan più in voga negli anni Venti; vaga e difficile da definire, l’espressione veniva usata per raggruppare un insieme di idee ed ideali sostenuti dalla generazione più giovane di Americani di colore. Furono considerati “nuovi negri” tutti coloro che cominciarono ad avere un nuovo approccio consapevole ed ottimista verso la propria cultura. Vi era il desiderio di costruire una nuova immagine dell’uomo americano di origini africane, un’immagine questa volta ricca di orgoglio e dignità, non più basata su un senso di inferiorità nei confronti della comunità bianca.44 Ovviamente esisteva già un patrimonio popolare nero che giaceva nascosto dietro al presupposto della “superiorità bianca”. Ma fu solo in questi anni – grazie alle opportunità promosse in seguito alla guerra civile, alle migrazioni verso il Nord, all’inaugurazione di molti programmi a beneficio degli artisti di colore nel campo delle belle arti, alle mostre di

41

Thomas Eakins, Robert Henri, George Luks tra i principali artisti che rappresentarono nelle loro opere uomini di colore ma in chiave positiva.

42

Antonio M. Calderazzi, La rivoluzione negra negli Stati Uniti, cit., pp. 113-173. 43

Alain Locke (1886-1954) nacque a Filadelfia, Pennsylvania, il 13 settembre. Dopo aver studiato alla School of Pedagogy della sua città natale, si laureò a ventun anni presso l’Università di Howard (1907). Primo afroamericano ad ottenere un dottorato in Filosofia, primo studente nero ad aver vinto la borsa di studio Rhodes, nel 1912 Alain Locke divenne professore di filosofia all’Università di Howard. In quanto filosofo, i suoi interessi principali riguardavano le teorie del valore e dell’estetica. Tuttavia tenne diverse conferenze su argomenti di storia, di letteratura e di cultura africana. Il suo più grande contributo fu quello di aver formato una consapevolezza collettiva riguardo alla possibilità di realizzazione dei neri nei campi dell’arte entro la cultura americana.

44 Alain Locke, The new negro: an interpretation, New York, London; Johnson reprint corporation, 1968, pp. v-xx.

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Negro Art, a una maggiore curiosità verso quest’arte nutrita dai maggiori arbitri del gusto – che ci fu una riscoperta e popolarità della cultura afroamericana.

L’antologia di Alain Locke è composta per la maggior parte da brani di scrittori di colore. Il lavoro aveva visto il suo primo nucleo con la pubblicazione, nel marzo del 1925, di un numero speciale della rivista The Survey interamente dedicato al fenomeno Harlem. Il progetto portò poi alla pubblicazione de The New Negro, un raccolta di saggi, fiction, poesie ed illustrazioni, edita dalla Howard University, con lo scopo di celebrare l’“America nera” attraverso l’esaltazione dei contributi artistici degli Afroamericani.45

Alain Locke, attraverso questa raccolta tentò di evitare le semplificazioni e gli stereotipi tipici delle interpretazioni della vita dei negri. La sua volontà fu quella di incoraggiare i contemporanei neri ad accettare le loro origini ancestrali e a guardare all’Africa come fonte d’ispirazione. Egli raccomandava un pluralismo culturale: non suggeriva un ritiro totale dalla cultura americana, ma proponeva ai neri di esserne collaboratori e partecipanti attivi, mettendo in gioco il proprio bagaglio di esperienze e tradizioni. Locke tentò di sanare l’antico dilemma della comunità nera (ovvero se gli Afroamericani dovessero riconoscersi necessariamente come Americani oppure individuarsi soltanto come Africani) spronando gli artisti dell’epoca ad essere Africani in America. Grazie a questa spinta gli artisti e gli scrittori di colore abbracciarono le loro tradizioni e il materiale popolare a loro disposizione per trasformarlo in cultura di alto livello, diversamente da come era accaduto in passato. Ad esempio uno dei soggetti maggiormente adoperato dagli artisti figurativi fu l’uomo di colore: la fisionomia africana venne innalzata a standard di bellezza e orgoglio.46

Il movimento artistico dell’Harlem stimolò simili attività in altri centri urbani del continente. A Washington, ad esempio, venne fondato nel 1922 il Tanner Art League, organizzazione locale in nome dell’omonimo artista afroamericano; presso questa istituzione fu tenuta una mostra nella quale vennero esposti centododici pitture e nove sculture di artisti afroamericani. All’inizio degli anni Venti nacque anche l’Harmon Foundation, voluta del filantropo William E. Harmon per incoraggiare gli artisti di colore, e promuoverne mostre in loco ed itineranti.47

45 Ibidem. 46

Guy C. McElroy, Richard J. Powell, Sharon F. Patton, African-American artists, 1880-1987: Selection from the

Evans-Tibs Collection, Washington, Smithsonian Institution traveling exhibition service; Seatte, London,

University of Washington press, 1989, pp. 41-72. 47

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Non si può tuttavia omettere che il movimento degli anni Venti fu possibile innanzitutto grazie al sostegno di intellettuali e mecenati bianchi: per quanto gli studiosi e i teorici neri cercarono di rendersi promotori, essi influirono in minor su questo fenomeno. Inoltre, i cambiamenti e le evoluzioni che erano avvenuti in questi anni furono da intendersi in senso strettamente culturale, non politico né razziale o sociale. Inutile dire che il fiorire di questa attività artistica portò benefici concreti soltanto a un nucleo molto stretto di artisti di colore. Infine “ebbe anche degli effetti indesiderati”48

, suscitando in alcuni neri più acuti il sospetto che questo movimento artistico non fosse servito ad altro che distogliere gli Afroamericani da altri tipi di impegni e lotte, che fosse valso a tenerli occupati in attività non sempre volte alla scoperta dei veri valori neri, o che fosse stato utile soltanto all’intrattenimento dei bianchi.49 Tra gli artisti figurativi che presero parte al movimento Harlem si devono citare Richmond Barthè (1901-1989), Palmer Hayden (1893-1973), Laura Wheeler Waring (1887-1948), Sargent Claude Johnson (1887-1967), Lois Mailou Jones (1908-1998), ed i fotografi James Van Derzee (1886-1983) e Prentice Herman Polk (1898-1984). In particolare Aaron Douglas e James Lesesne Weels ottennero grande notorietà durante tutto il periodo del Rinascimento grazie ai loro efficaci contributi per lo sviluppo di un nuovo modo di concepire l’arte e l’esperienza dei neri.

Aaron Douglas (1899-1979) fu l’esponente leader delle arti figurative nel periodo del Rinascimento Negro. Nato a Topeka, Kansas, ottenne una laurea di primo livello in Belle Arti presso l’Università del Nebraska nel 1922; proseguì con la specializzazione alla Columbia University. In seguito Douglas lasciò lo stato del Kansas, nel 1925, per stabilirsi nella città di New York, con l’intenzione di proseguire i propri studi artistici. Qui incontrò l’artista Winold Reiss, il quale divenne presto suo insegnante e mentore. Pur essendo cresciuto in un ambiente strettamente accademico, l’artista fu in grado di prendere le distanze dagli schemi scolastici che gli erano stati imposti, dimostrando un grande estro artistico. Grazie all’aiuto e alla guida del suo maestro, egli poté accogliere ed approfondire il proprio patrimonio culturale; nel corso degli anni Venti, infatti, dedicò molti studi all’arte africana, all’epoca disponibile solo in poche istituzioni. Tuttavia l’artista si rese presto conto che la sola conoscenza della tradizione africana non gli sarebbe bastata per fare arte, così grazie alla sua capacità di combinare

48 Antonio M. Calderazzi, La rivoluzione negra negli Stati Uniti, cit., p. 130. 49

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conoscenza accademiche, interessi per l’arte Africana e creatività, fu in grado di dare vita ad un linguaggio artistico unico e di valore. Douglas collaborò alla realizzazione di disegni ed illustrazioni per il volume The New Negro di Alain Locke; si impegnò in lavori simili anche per conto di altri autori afroamericani, quali Du Bois, Cullen, Hughes, James Weldon Johnason. Con gli anni l’artista si dedicò alla realizzazione di pannelli e murales, molti dei quali erano caratterizzati da forme stilizzate e geometriche tipiche della scultura Africana. Ne sono esempio i murales eseguiti per la Countee Cullen Branch della New York Public Library, aventi come tema la storia degli Afroamericani (fig. 13). Altre pitture su muro di importanza rilevante furono quelle realizzate per la Fisk University, per l’Ebon Club di New York e per l’Hotel Sherman a Chicago. Infine, tra le numerose opere di pittura realizzate da Douglas, particolarmente rilevanti sono i ritratti; questi non presentano più schemi geometrici e composti, ma i corpi dei soggetti ritratti sono realizzati mediante l’uso di proporzioni classicamente corrette (vd. Molly).50

Nativo di Atlanta, James Lesesne Weels (1902-1993), avvalendosi del solido insegnamento accademico ricevuto durante gli anni di studio alla Lincoln University in Missouri, alla Columbia University e alla National Academy of Design, fu pioniere di molti moderni metodi di insegnamento dell’arte. Questi condusse diversi workshop artistici presso l’Harlem Library Project for Adult Education, inoltre lavorò come incisore e progettista, riscotendo molto successo. Nel corso degli anni Quaranta godeva infatti di fama di eccellente grafico. Mediante l’utilizzo di diverse tecniche, come la stampa a blocchi, l’acquaforte e la litografia, portò a termine molteplici lavori che si confrontavano con tematiche africane. Esempi tipici sono

African Fantasy (fig. 14) e Primitive Girl (fig. 15).51

Con la grande depressione che seguì la crisi del 1929 ci fu una momentanea erosione degli ideali del Rinascimento Negro, poiché il disagio economico e la consapevolezza della crisi avevano contribuito a stemperare il clima ottimistico del decennio precedente. Tuttavia, alcuni programmi sponsorizzati dal governo, come la Work Progress Administration, fondata nel 1935, cercarono di risollevare il cupo stato dell’arte afroamericana. Questi sostegni servirono a generare un più forte sentimento di orgoglio razziale e di responsabilità sociale da parte dei

50 Samella Lewis, African American art and artists, cit., pp. 59-120. 51

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neri afroamericani.52 Parallelamente a questi avvenimenti, si stava verificando un incremento dello studio e dell’apprezzamento di un gruppo di artisti esclusi dall’ufficiale mondo dell’arte e delle gallerie commerciali. Parte della popolarità di questi “outsider artistici”, spesso autodidatti e residenti in piccole comunità rurali, fu dovuta al momentaneo clima di fascinazione verso tutte le espressioni artistiche libere da influenze moderne o categorie estetiche standardizzate. Considerati “primitivi” o “folk”, questi pittori, scultori e incisori neri ottennero un riconoscimento pari, e a volte superiore, a quello dei colleghi afroamericani che invece seguivano tendenze più moderne. Tale separazione teorica tra artisti afroamericani folk e artisti neri della cultura moderna non escluse tuttavia che gli uni indagassero le tecniche degli altri.53

Artista autodidatta proveniente dalla Louisiana, Clementine Hunter (ca. 1886-1988) visse e lavorò a Melrose Plantation. Attiva a partire dagli anni Quaranta del Novecento, espresse le proprie idee ed esperienze di vita attraverso un’arte e uno stile assolutamente non convenzionali; non permettendo di farsi influenzare dal bigottismo e dalle limitazione di espressione che aleggiavano ancora in molte comunità rurali del Sud, fu in grado di comunicare in maniera unica la visione che aveva di se stessa e degli Afroamericani del suo tempo. Il forte sentimento di orgoglio razziale che ella provava fu espresso in quasi tutti i suoi lavori, dove i soggetti principali sono uomini di colore, inclusi i personaggi che dovrebbero rappresentare il mondo dello spirito. Invece di sotterrare il problema, la Hunter si servì della propria arte per rivendicare la dignità della propria comunità. Church Gathering e Among the

Lilies (fig. 16) possono essere considerati due buoni esempi dei tipi di soggetti che l’artista

era solita dipingere, ovvero lavoratori di campi, pescatori o fedeli. Guidata principalmente dalle sue pulsioni interiori, non si affidò a modelli preformati, ma sviluppò invece la sua personale maniera di dipingere, caratterizzata da linee e tocchi di colore spessi, stesi senza l’uso della prospettive e senza alcuno schema geometrico o regola formale.54

Di stampo completamente diverso furono i lavori di David Butler (1898), artista nativo di Saint Mary Parish, Louisiana. Essenziali per la sua futura carriera artistica gli anni spesi in bottega in aiuto al padre carpentiere e quelli durante i quali lavorò in una fabbrica di casse.

52

Guy C. McElroy, Richard J. Powell, Sharon F. Patton, African-American artists, 1880-1987: Selection from the

Evans.Tibs Collection, cit., pp. 41-72.

53 Ibidem. 54

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Grazie a queste esperienze, cominciò a nutrire interesse per le costruzioni e le installazioni. Butler sviluppò il proprio linguaggio artistico attraverso il materiale della latta, tagliando ed ottenendo forme e figure che ricollocava nei cantieri, inchiodava sulle superfici esterne della propria casa oppure usava per decorare porte e finestre. La sua poetica consisteva nel dare nuova vita a materiali di scarto (fig. 17).55

Le nuove generazioni degli anni Cinquanta accolsero l’eredità culturale dei decenni precedenti conservandone ideologie e contenuti. Riemerse nuovamente il dibattito, precedentemente portato a galla da Alain Locke, sulla necessità che gli Afroamericani recuperassero gli elementi della propria cultura per realizzare un’estetica africana in America. Diverso invece il pensiero del pittore James Porter,56 il quale consigliò agli artisti neri di non tenere conto delle distinzioni di razza, ma di arrivare a creare un’arte davvero spontanea e personale, a prescindere dal luogo di origine e provenienza.57 In linea con quest’ultimo pensiero, gli artisti afroamericani di questa decade si sentirono maggiormente svincolarti da qualsiasi tipo di limite o obbligo razziale, di conseguenza non cercarono più l’approvazione dei loro contemporanei bianchi, ma si espressero finalmente come partecipanti consci alla comunità americana.

In questi anni l’arte dei murali suggestionò molti Afroamericani di questa generazione. Fu principalmente dal Messico che arrivarono esempi in grado di ispirare gli artisti, i quali trassero spunto dal Realismo Sociale, movimento artistico il cui scopo fu quello di attirare l’attenzione su temi socio-politici mediante l’uso di un linguaggio oggettivo e descrittivo. Il movimento muralista sociale, che ebbe luogo negli anni Venti e Trenta del Novecento in seguito alla rivoluzione messicana degli anni Dieci, ebbe come principali sostenitori Diego Rivera, David Alfaro Siqueiros, José Clemente Orozco e Rufino Tamayo. Questi artisti avevano sviluppato nuovi metodi e materiali per le pitture sui muri, sfruttando anche le moderne tecnologie per l’arte; il messaggio che volevano comunicare doveva possedere sfumature politiche, specie di natura marxista, ma essere facilmente comprensibile. Tale linguaggio fu pienamente accolto dagli artisti afroamericani, i quali avevano avuto modo di

55

Ibidem. 56

James Amos Porter (1905-1970) fu artista, professore e storico dell’arte afroamericano.

57 Guy C. McElroy, Richard J. Powell, Sharon F. Patton, African-American artists, 1880-1987: Selection from the

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