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Zanele Muholi e Kemang Wa Lehulere: due esperienze sudafricane.

2.1.4 1960-1990: Maggiore spazio politico e culturale.

O: An European school, the students about half African half European TM: A French school?

4. Il confronto tra gli artisti: Chris Ofili e Simone Leigh.

5.1. May You Live in Interesting Times: la Biennale d’Arte di Venezia del 2019.

5.1.5. Zanele Muholi e Kemang Wa Lehulere: due esperienze sudafricane.

Nota per la sua serie di fotografie Faces and Phrases (2006-in corso), ovvero un «archivio in evoluzione che raccoglie ritratti di donne lesbiche nere del Sudafrica»66, Zanele Muholi ha presentato alla Mostra May You Live in Interesting Times un gruppo di autoritratti, facenti parte di una serie di 365 immagini, che vogliono immortalare un anno di vita di una donna africana (figure 75, 76). Se ad Arsenale nel corso dell’intero percorso espositivo vi sono enormi tele che si intrecciano e si incontrano con le opere degli altri artisti del Padiglione, nella sede dei Giardini, invece, sono state esposte in maniera raccolta stampe di piccole dimensioni alla gelatine d’argento. Immortalata in pose sempre differenti e corredata di accessori tra i più diversi e stravaganti, in ogni fotografia l’artista rivolge una sguardo diretto al pubblico, quasi volesse lanciare una sfida o una prova. «Ogni ritratto è un invito risoluto che sembra dire allo spettatore: “Guardami, sono nera, sono lesbica, sono una forza che non può essere ignorata».67 Oltre che sullo sguardo, l’obiettivo è sempre focalizzato sul corpo e sul busto della ritratta, la cui presenza si impone in un ambiente quasi mai descritto e dallo sfondo annullato: il suo è un «forte desiderio di definire un io personale».68 La serie, iniziata nel 2012 ed ancora in corso di realizzazione, prende il nome di Somnyana Ngonyama, Hail

The Dark Lioness, ed i titoli delle singole immagini spesso rimandano ai luoghi in cui esse

sono state fisicamente scattate, includendo espressioni che hanno una precisa traduzione in

65

Hettie Judah, Otobong Nkanga, in May You Live In Interesting Times: Biennale Arte 2019, Venezia, La Biennale di Venezia, 2019, pp. 306-307.

66

Koyo Kouoh, Zanele Muholi, in May You Live In Interesting Times: Biennale Arte 2019, Venezia, La Biennale di Venezia, 2019, p. 298.

67 Ibidem. 68

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lingua zulù (ad esempio, Bhekani, che significa “che cosa stai guardando?” o “stanno guardando”; e Bona che vuole dire “guardare” o “vedere”).69

Zanele Muholi è nata a Umlazi (Duram), in Sudafrica, nel 1972; attualmente vive e lavora nella capitale africana. Prima ancora di intraprendere la carriera fotografica, ha lavorato come attivista per la difesa dei diritti delle lesbiche, cercando di scovare e risolvere le problematiche che esse sono costrette ad affrontare quotidianamente. Collaborando come giornalista e reporter per il sito LGBTI Behind the Mask, ha documentato atti di odio e violenza nei confronti della comunità, denunciando stupri, aggressioni, assassini e problematiche legate alla contrazione dell’HIV. È co-fondatrice dell’associazione Forum for the Empowerment of

Women¸ realizzata nel 2002 a Gauteng per garantire alle donne lesbiche un luogo sicuro di

incontro e comunicazione. Ha studiato fotografia presso il Market Workshop, corso di specializzazione fondato nel 1989 a Johannesburg dal fotografo sudafricano David Goldblatt. La fotografia è diventata dunque il suo principale strumento di comunicazione e riflessione, miglior vettore «capace di validità storica».70 Successivamente, nel 2004, ha tenuto la sua prima mostra personale presso la Johannesburg Art Gallery; tra il 2007 e il 2009 ha conseguito un Master alla Ryerson University of Toronto in Documentary Media, portando come tesi la storia visiva dell’identità della comunità lesbica nera. A partire dal 2009 ha dato vita, insieme ad altri collaboratori, all’Inkanyiso, piattaforma dedicata alle arti visive in funzione dell’attivismo queer.71

Artista prima ignota al pubblico italiano, nel 2013 è riuscita a conquistarsi l’attenzione della critica dopo aver esposto le proprie opere alla Fondazione di Fotografia di Modena72 ed aver organizzato una personale alla Galleria del Cembalo di Roma.73 Definendosi “attivista visuale”, Muholi riflette sulla rappresentazione dei concetti di razza e di genere degli Africani. Nonostante le leggi sulla parità e sull’uguaglianza di diritti siano tra le più progressiste in Sudafrica, per l’artista questo non significa che vengano effettivamente garantiti rifugio e protezione per tutti: sulla comunità di donne africane LGBTI ricadono infatti ancora troppe accuse e discriminazioni, ed in particolare due: quella di essere nere e quella di essere escluse

69 Ibidem. 70

Three true stories: Zanele Muholi, Ahlam Shibli, Mitra Tabrizian, Modena, Fondazione Fotografia, 2013, p. 9. 71

Ivi., 9-12.

72 Si veda: http://www.fondazionefotografia.org/artista/zanele-muholi/. 73

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dalla tradizionale divisione del genere per essere invece in possesso di «un corpo marchiato come se fosse affetto da una malattia».74 L’artista ha «l’urgenza di portare all’evidenza situazioni controverse che interessano le realtà contemporanea», ed ha affermato: «bisogna ricordare che stiamo ancora facendo i conti con le conseguenze dell’apartheid, il cui unico obiettivo era privare i neri dei loro diritti».75 I suoi progetti e lo scopo delle sue esperienze in quanto donna e artista sono chiare, ed è lei stessa a ribadirlo: «Lotto con questioni che ruotano attorno al marciare/mappare/immaginare e preservare le radici di una storia visiva della comunità nera di lesbiche, gay, bisessuali, transessuali, delle nostre vite, della nostra realtà nel Sudafrica post apartheid e nell’Africa postcoloniale».76

Kemang Wa Lehulere è nato a Città del Capo, in Sudafrica, nel 1984; trasferitosi negli Stati Uniti, vive oggi a Los Angeles. Pur essendosi adattato alla realtà americana, non dimentica né rifiuta la propria identità africana, costantemente presente nei lavori artistici. Le opere, infatti, sono profondamente trite della biografia personale, che egli sceglie di legare alle vicende e alle conseguenze dell’apartheid e della vita dei neri in Sudafrica.

Le opere dell’artista presenti alla Biennale di Venezia, per quanto differenti l’una dell’altra, sono caratterizzate da queste peculiarità. Dead Eye (2018) (fig. 77), installazione esposta all’Arsenale, consiste in una struttura verticale realizzata facendo pendere dal soffitto sottili fili a cui sono fissati piccoli dichi in legno. Ai piedi vi è una fonte luminosa che proietta sul soffitto una costellazione di ombre circolari. Ai lati di questa struttura centrale, vi sono poi, posizionate su apposite mensole in legno, calchi di mano le cui dita riproducono simboli del linguaggio dei segni. La composizione di Wa Lehulere è un memoriale della storia dell’apartheid, le cui vicende si possono ricavare dai piccoli dettagli dell’opera. I dischi di legno, piccole porte di case per uccelli che l’artista aveva precedentemente realizzato, rappresentano in senso metaforico tutte quelle porte che, nel periodo delle leggi razziali, sono state sfondate durante le azioni di sfollamento e persecuzione delle comunità nere. I calchi, invece, sono quelli della mano della zia dell’artista, la quale era stata colpita alla testa da un

74 Arianna Testino, Non artista ma attivista. Intervista con Zanele Muholi, «artribune», 09-05-2019. s.n.p. https://www.artribune.com/professioni-e-professionisti/who-is-who/2019/05/intervista-zanele-muholi- fotografia/.

75 Ibidem. 76

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proiettile di gomma durante le rivolte studentesche avvenute in Sudafrica nel 1976; poiché, in seguito all’accaduto, aveva riportato gravi ferite, fu possibile identificarla soltanto grazie al riconoscimento delle mani.77

Divenuto artista quasi a trent’anni, Kemang si è sempre dedicato al lavoro da attivista a Città del Capo, per poi fondare, nel 2006, la Gugulective, una piattaforma artistica dedicata alle questioni sociali e al mondo della performance. La sua attenzione per la socialità e per gli eventi legati a identità e razza emerge chiaramente in quest’opera che chiede allo spettatore di posizionarvisi intorno per contemplarla e pensarla.

Un’altra opere che richiede la condivisione collettiva è quella esposta nel Padiglione Centrale dei Giardini, Flaming Doors (fig.78). Un «altoparlante principale è posizionato su una sedia scolastica intorno alla quale è riunto un gruppo di pastori tedeschi in ceramica. Si trovano accanto ad altri altoparlanti ricavati da casette per gli uccelli di legno, le cui assi sono unite da lacci incrociati».78 Le voci che provengono dalle casse riproducono i canti tradizionali eseguiti durante le cerimonie di iniziazione Xhosa. Realizzata con materiali recuperati da vecchi banchi e sedie scolastiche, l’opera non solo chiama alla mente il periodo dell’infanzia e dell’istruzione ma manda l’eco delle proteste legate alla distruzione dei piani di studio sudafricani.

77

Jessica Cerasi, Kemang Wa Lehulere, in May You Live In Interesting Times: Biennale Arte 2019, Venezia, La Biennale di Venezia, 2019, pp. 344-345.

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6. Conclusioni.

Avendo preso in esame un numero adeguato, seppure non esaustivo, di argomenti, punti di vista ed artisti, è evidente che le tematiche identitarie e di autorappresentazione etnica sono ampiamente trattate nei lavori degli Africani contemporanei. In accordo con il pensiero del critico Salah Hassan, questi artisti sembrano percepire tali argomenti come primari ed essenziali nel mondo contemporaneo, per questa ragione si propongono di portarli sotto l’attenzione del pubblico attraverso le arti figurative. Tenendo conto delle proprie inclinazioni ed esperienze, essi si sono serviti di media e di strumenti differenti, provenienti da svariati campi artistici, per trattare di questa tematica adeguandola al proprio specifico linguaggio. Alcuni attraverso le proprie opere si propongono di chiamare alla memoria i passati eventi storici che hanno riguardato gli Afroamericani, si pensi, ad esempio, all’installazione di Kemang Wa Lehulere o ai lavori di Simone Leigh. Altri invece riflettono sull’attuale situazione degli Africani e sul loro inserimento nella società occidentale; in questa direzione hanno lavorato Zanele Muholi e Arthur Jafa. Altri ancora, come nel caso di Njideka Akunyili Crosby, hanno scelto la via dell’autorappresentazione, trattando quindi le tematiche identitarie in maniera più velata. Nonostante le molteplici vie attraverso cui la questione è stata affrontata, le intenzioni che hanno mosso tutti questi artisti sono simili: portare l’attenzione su materie sulle quali difficilmente si riflette in Occidente.

«Should be art a battle ground for social justice?»,1 si sono chieste Simone Leigh, Lorna Simpson e Amy Sherald. A questa domanda si pensa di poter rispondere in maniera positiva. Certamente l’arte può essere un campo efficace nel quale affrontare questioni razziali ed identitarie. Da quando ne hanno avuto possibilità, gli artisti Africani si sono sempre avvalsi dei linguaggi figurativi per parlare di sé, per informare, per comunicare, per protestare e per fare giustizia sociale. Ed anche i contemporanei Africani stanno percorrendo la medesima strada, anche se forse con intenzioni meno politiche rispetto a come è stato fatto in passato, pur avendo lo stesso desiderio di lasciare un segno nella società.

Per arrivare al cuore della questione, occorre ancora capire come questi artisti sollevino la tematica identitaria. La maggior parte sembrerebbe farlo per un bisogno insito o una naturale

1

Jenna Wortham, I Want to Explore the Wonder of What It Is to Be a Black American, «The New York Times», 08-10-2019, s.n.p.

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volontà di raccontare queste storie, parlare di identità infatti non è che una tra le tante maniere per manifestare la propria interiorità. Tuttavia tale risposta non può essere considerata l’unica presumibile. La società contemporanea dà per scontato che gli artisti africani trattino nei loro lavori tali questioni. È dunque difficile distinguere tra coloro che trattano di identità in maniera davvero spontanea e chi invece lo fa soltanto per soddisfare un’aspettativa nutrita dal contesto culturale nel quale si è a contatto.

Come ha sostenuto Olu Oguibe, l’errore della contemporanea società occidentale è quello di dare per scontato che gli artisti africani orientino i loro discorsi su tematiche identitarie e legate alla loro storia ed origine. La neutralità sociale viene quindi negata a tutti quegli individui di discendenza diversa rispetto al paese nel quale sono nati o si trovano a vivere o lavorare. Questo discorso vale soprattutto per tutti quegli Africani che risiedono all’estero. «There’s no neutrality to our existence. Being black is still very political»2

, ha affermato Amy Sherald. E questa particolare condizione degli Africani sembra dover a tutti i costi essere presente anche nei lavori artistici. «The era of multiculturalism and its manifestation in museum and gallery exhibitions, has, by and large, given the impression that all black artists make black art about black issue».3 Tuttavia, come si ha avuto modo di osservare non tutti gli Africani hanno voluto declinare in questa maniera la loro arte, ma al contrario hanno schivato questo cliché; si pensi a Stan Douglas, a Julie Mehretu e ad Otobong Nkanga, di cui si è parlato nel capitolo precedente, artisti di origine africana che hanno orientato la loro ricerca artistica su altri tipi di argomenti. Poiché dunque le casistiche e le dinamiche sono molteplici e sfaccettate, ciò che occorre fare per non incappare in ingenuità è evitare generalizzazioni. Pur essendo vero che molta parte degli artisti Africani si è concentrata sulle questioni identitarie, non si può affermare che effettivamente tutti abbiano fatto in questa maniera. Infine, alla luce degli studi e delle ricerche che sono state eseguite, si può forse affermare che il ruolo di questi artisti è ormai essenziale all’interno del mondo artistico contemporanea, essi ne sono infatti una parte imprescindibile. Residenti in molteplici stati occidentali, gli artisti africani hanno progressivamente guadagnato spazio ed importanza. A partire dagli anni Novanta del Novecento sono infatti aumentate di numero le istituzioni museali, le gallerie commerciali ed i collezionisti che si interessano di studiare e presentare i lavori di questa

2

Ibidem.

3 Lisa G. Corrin, Confounding the Stereotype, in a cura di Godfrey Worsdale, Lisa G. Corrin, Chris Ofili, London, Southampton City Art Gallery and the Serpentine Gallery, 1998, p. 13.

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categoria di artisti. Tantissimi inoltre sono i nomi, oltre a quelli già citati, degli Africani attualmente considerati validi ed influenti nel panorama artistico contemporaneo – tra i tanti Senga Nengudi, Kehinde Wiley, Steve McQueen, Kara Elizabeth Walker, Mikalene Thomas, Meschac Gaba, Kerry James Marshall. La posizione che ciascuno di loro riveste non è dovuta ad una concessione da parte del mondo occidentale che fosse politicamente corretta nei confronti di questa categoria di artisti. Al contrario, essi ne godono poiché con la loro arte hanno contribuito ad arricchire e talvolta migliorare la scena artistica contemporanea.

Nonostante l’importanza che essi possiedono, sono ancora pochi in Italia i dibattiti e le pubblicazioni sugli artisti africani contemporanei. L’augurio è che si possa maturare una consapevolezza della forte presenza di essi nella società occidentale, e che gli studi italiani amplino presto il loro raggio di interesse in modo da inglobare questa tematica tanto attuale e tanto necessaria.

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7. Immagini.

Figura 1 Reverendo G. W. Hobbs, Ritratto di Richard Allen, 1785 circa

Figura 2 Joshua Johnson, Ritratto di un chierico (dettaglio), 1805-10, Bowdoin College Museum of Art,

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Figura 3 Patrick Henry Reason, Ritratto di Henry Bibb, 1840, Generale Research and Humanitied Division, The

New York Public Library (Astor, Lenox and Tilden Foundations)

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Figura 5 Robert Stuart Duncanson, The Blue Hole, Flood Waters, Little Miami River, 1851, The Cincinnati Art

Museum

Figura 6 Robert Stuart Duncanson, View of Cincinnati, Ohio, from Covington, Kentucky, 1848, Cincinnati

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Figura 8 Edward Mitchell Bannister, Approaching Storm, 1886, Museum of Afrianc Art, Waschington, D.C.

Figura 9 Edward Mitchell Bannister, Driving Home the Cows, 1881, Smithsonian American Art Museum

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Figura 11 Henry Ossawa Tanner, Banjo Lesson, 1894, Hampton University Museum Collection

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Figura 13 Aaron Douglas, The Negro in African Setting, pannello 1; From Slavery Through Reconstruction,

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Figura 14 James Lesesne Weels, African Fantasy, 1929, Afro-American Collection, Fisk University Figura 15 James Lesesne Weels, Primitive Girl, 1929, Afro-American Collection, Fisk University

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Figura 16 Figura 16 Clementine Hunter, Among the lilies, 1943 ca.

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Figura 18 Charles Alston, Magic and Medcine (dettaglio), 1937, Work Project Administration Collection, the

National Archives

Figura 19 Charles Alston, Exploration and Colonization, 1949, Collection of the Golden State Mutual Life

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Figura 20 Hale Woodruff, Settlement and Development, 1949, Collection of the Golden State Mutual Life

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Figura 21 Bernie Searle, Colour Me (dettaglio), 2000

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Figura 23 Olu Oguibe, Buggy (Memorial to an unknow child), 1997

116 Figura 24 Chris Ofili, Self Portrait (Orange Shirt), 1989

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Figura 27 Chris Ofili, 7 Bithes tossing their pussies before the divine dung, 1995

119 Figura 29 Chris Ofili, Afrodizzia, 1996

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121 Figura 31 Chris Ofili, No Woman, No Cry (dettaglio), 1998

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Figura 33 Chris Ofili, Monkey magic, 2000

124

Figura 35 Chris Ofili, Within Reach, 15 giugno-2novembre 2003, Padiglione Inglese, Biennale Venezia Figura 36 Chris Ofili, Afroapparition, 2002-2003

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Figura 38 Chris Ofili, Blue Damascus, 2004

Figura 39 Chris Ofili, The Healer, 2008

127 Figura 40 Chris Ofili, Bound and Gagged (Blue), 2005

128

Figura 42 Chris Ofili, Annunciation, 2006

129 Figura 44 Chris Ofili, Saint Sebastian, 2007

130 Figura 46 Mammy's Cupboard Restaurant

131 Figura 47 Simone Leigh, Cupboard III, 2015

132 Figura 48 Simone Leigh, Cowrie (Pannier), 2015

133 Figura 49 Simone Leigh, Queen Be, 2008-2012

134 Figura 51 Simone Leigh, Wedgewood bucket, 2009

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Figura 53 Simone Leigh, serie Anatomy of Architecture, 2016

136 Figura 54 Arthur Jafa, installazione Big Wheel, 2018 Figura 55 Arthur Jafa, My Little Buddha, 2018

137 Figura 56 Arthur Jafa, The White Album, 2019

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139 Figura 58 Henry Taylor, Untitled, 2019

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Figura 59 Henry Taylor, Hammons meets a hyena on holidays, 2016

141 Figura 60 Stan Douglas, Solitaire, 2017

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Figura 62 Tavares Strachan, Robert, 2018

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Figura 66 NjidekaAkunyili Crosby, And we begin to let go, 2013

Figura 67 Njideka Akunyili Crosby, Mama, Mummy and Mama (Predecessor#2), 2014

146 Figura 68 Frida Orupabo, Untitled, 2018

Figura 69 Frida Orupabo, Untitled, 2018

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Figura 71 Michael Armitage, Pathos and the twilight of the ilde, 2019

148 Figura 73 Julie Mehretu, Ghosthymn, 2017

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Figura 74 Otobong Nkanga, Vein Aligned, 2018

150 Figura 75 Zanele Muholi, Sifikile, Nuoro, Italy, 2015

151 Figura 76 Zanele Muholi, Faniswa, Seapoint, Capetown, 2016

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Figura 77 Kemang Wa Lehulere, Dead Eye, 2018

153 Figura 78 Kemang Wa Lehulere, Flaming Doors, 2018

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