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Le attività oggetto del regime comunitario Un doppio binario di responsabilità.

Forme e modelli di tutela delle generazioni future

2. Beni ambientali, utilità e interessi umani.

5.4. Le attività oggetto del regime comunitario Un doppio binario di responsabilità.

Oltre a delimitare l’ambito applicativo della disciplina sotto il profilo oggettivo dei danni contemplati, il legislatore comunitario traccia il confine anche sul versante dei soggetti passivi dell’azione di responsabilità. Il testo comunitario, infatti, specifica che le attività prese in considerazione sono solo quelle “professionali”145: al riguardo, viene

adottata una nozione di attività professionale alquanto allargata, comprendendo essa qualsiasi attività, pubblica o privata, con o senza scopo di lucro, svolta nel corso di un’attività economica, commerciale o imprenditoriale146.

Nell’ambito della categoria così individuata viene operata un’ulteriore distinzione tra attività pericolose, individuate con riferimento alla normativa ambientale esistente a livello comunitario, e attività professionali non contemplate dalla comunità come comportanti un rischio reale o potenziale per la salute umana o l’ambiente147. La distinzione è di assoluto rilievo in quanto, dalla riconducibilità o meno dell’impresa che ha cagionato il danno nel novero delle imprese esercenti attività pericolose e indicate negli allegati della stessa direttiva, deriva una diversa modulazione del criterio di imputazione della responsabilità. La direttiva, infatti, prevede una duplice ipotesi di responsabilità che si distingue, oltre che per la tipologia di attività da cui scaturisce il danno, anche per il tipo di risorsa naturale danneggiata (art. 298-bis, comma 1, lett. a e b del decreto richiamato).

La prima ipotesi afferisce al danno ambientale, o la minaccia imminente di tale danno, causata da una delle attività professionali elencate nell’allegato III148, ossia quelle già prese in considerazione dalla disciplina settoriale a livello europeo per la loro intrinseca pericolosità per la salute umana o per l’ambiente. In questa prima fattispecie, la nozione di

144 Sul punto si veda: B.P

OZZO, La direttiva 2004/35/CE, cit., p. 23.

145 Si veda il Considerando n. 8 della Direttiva.
 146 Art. 2 (7) della Direttiva.

147 Cfr. il Considerando n. 9 della Direttiva.

148 Le attività pericolose individuate riguardano sostanzialmente: gli impianti soggetti ad autorizzazione,

conformemente alla direttiva sulla prevenzione e riduzione integrale dell’inquinamento; le operazioni di gestione e smaltimento dei rifiuti; le attività che comportano scarichi nelle acque interne superficiali o in quelle sotterranee nonché attività di estrazione e arginazione delle acque; le attività aventi ad oggetto la fabbricazione, uso, stoccaggio o trattamento di sostanze pericolose; le attività di trasporto per terra, mare o aria di merci pericolose o inquinanti; e ancora qualsiasi attività implicante l’uso di microrganismi geneticamente modificati. Per l’elencazione completa e specifica si rimanda all’allegato III della direttiva.

danno ambientale rilevante coincide con quella sancita dall’art 2, § 1 che contempla il danno provocato a tre specifiche risorse ambientali: le specie e gli habitat naturali protetti, le acque e il terreno.

In presenza di tali caratterizzazioni, oggettive e soggettive, della fattispecie dannosa, si versa in un’ipotesi di responsabilità oggettiva. In realtà, il legislatore comunitario non attribuisce espressamente siffatta qualifica al regime di responsabilità in esame. Tuttavia, la natura oggettiva della responsabilità può essere desunta da una lettura storico- sistematica. I documenti comunitari che hanno ispirato il Consiglio e il Parlamento europeo nella stesura della direttiva costituiscono di per sé una solida prova della volontà di prescindere dall’indagine sull’elemento soggettivo che ha caratterizzato la condotta dell’autore dell’inquinamento, nell’ipotesi in cui il danno sia stato provocato da una delle attività individuate come, potenzialmente, pericolose149. A ciò si aggiunga il dato testuale dell’art. 8 della direttiva che, nell’addossare tutti i costi delle azioni di prevenzione e riparazione all’autore del danno, non fa alcun riferimento al dolo o colpa, laddove in altre disposizione tale indicazione risulta espressa. Qualora il danno sia causato da una delle attività individuate dall’allegato III della direttiva, l’operatore, ossia la persona fisica o giuridica che esercita o controlla un’attività professionale150, sarà ritenuto responsabile a meno che non provi che il danno ambientale, o la minaccia di tale danno, sia stato provocato da un terzo e, allo stesso tempo, si sia verificato nonostante l’esistenza di opportune misure di sicurezza o che lo stesso sia conseguenza di un ordine o istruzione obbligatori impartiti da un’autorità pubblica151.

Altre esimenti, ma solo con riferimento ai costi di riparazione, possono essere stabilite dai singoli Stati membri qualora l’operatore riesca a dimostrare, oltre l’assenza di colpa, che il danno è stato causato da un’emissione o evento autorizzati dall’ordinamento o, alternativamente, da un’emissione o attività non considerate pericolose alla luce delle conoscenze scientifiche e tecnologiche esistenti al momento del rilascio dell’emissione o esecuzione dell’attività (art. 308, comma 4 del d.lgs. n. 152 del 2006)152.

Il punto b) del § 1 dell’art. 3 individua la seconda ipotesi di responsabilità ambientale (art. 311 d.lgs. n. 152 del 2006). Come anticipato, in essa assume rilievo esclusivamente il danno, o la minaccia imminente di danno, provocato alle specie e gli habitat protetti. Nel

149 Cfr. il Libro Bianco sulla responsabilità per danni all’ambiente, cit., p. 4, 6 e 17 e la Proposta di

direttiva presentata dalla Commissione delle Comunità Europee.

150 Art. 2, c. 6 e art. 302, c. 2, n. 5, del d.lgs. n. 152 del 2006. 151 Cfr. Art.8, c. 3, lett. a) e b).

caso in cui il danno così qualificato sia causato da un’attività professionale non contemplata dall’allegato III della direttiva, l’operatore è responsabile solo qualora abbia agito con dolo o colpa.

Da quanto descritto, risulta evidente la volontà del legislatore di frazionare il regime di responsabilità in due sottosistemi, cui corrispondono due differenti criteri di imputazione, secondo l’impostazione già prospettata dal Libro Bianco del 2000153.

La suddetta distinzione mette in luce la diversa funzionalità e caratterizzazione che può assumere lo strumento della responsabilità civile in relazione allo scopo con esso perseguito. Oltre ad una generale funzione reintegrativa che accomuna entrambe le fattispecie, la responsabilità civile vede diversificare il proprio obiettivo a seconda che si tratti di coprire un danno provocato da un’attività rischiosa, ma ritenuta lecita dall’ordinamento o un danno frutto di un atto illecito. Mentre in quest’ultimo caso saranno prevalenti gli aspetti sanzionatori e preventivi, nel primo lo strumento civilistico perseguirà finalità legate alla distribuzione economica del rischio154.

In applicazione del principio dell’inquinatore-pagatore, su cui si basa l’intera normativa in tema di danno ambientale, i costi di prevenzione e riparazione sono interamente addossati all’operatore responsabile dei danni causati.

La natura oggettiva della responsabilità accolta a livello europeo affonda le proprie basi concettuali sul c.d. rischio d’impresa e sulle teorie economiche di distribuzione dei costi e profitti che vedono nell’impresa il best decision maker155, ossia il soggetto più adatto, in termini di efficienza del sistema, a sopportare l’inevitabile rischio che consegue all’esercizio di determinate attività. L’impresa, infatti, essendo l’unico soggetto a disporre delle informazioni necessarie per operare un’analisi costi-benefici ex ante, è in grado di tradurre il rischio in costo, inserendolo nel gioco dei profitti e delle perdite156. Presupponendo la razionalità dell’operatore, questi sarà portato a produrre fintanto che i ricavi che consegue siano superiori ai costi di produzione, dati dalla somma dei costi per danni ambientali che dovrà risarcire e i costi di disinquinamento157, individuando in definitiva il livello ottimale di produzione.

153 Nell’indicare i principali elementi che avrebbero dovuto caratterizzare un sistema comunitario di

responsabilità, il Libro bianco affermava l’esigenza di prevedere una «responsabilità oggettiva per il danno causato da attività intrinsecamente pericolose, responsabilità per colpa per il danno alla biodiversità causato da attività non pericolosa»; Libro Bianco, cit., p. 4.

154 P.T

RIMARCHI, Rischio, cit., p. 34 e ss.

155 Sul tema si veda: G.C

ALABRESI, Il costo degli incidenti, cit., p. 91

156 P.T

RIMARCHI, Rischio, cit., p. 31 ss.


157 P.T

Nel caso di attività non pericolose, non ponendosi l’esigenza di incidere sul livello di attività socialmente ottimo, dal momento che non sussiste in questi casi un rapporto di proporzionalità diretta tra aumento di utilità marginale in capo al soggetto potenzialmente danneggiante e l’aumento del costo sociale in termini di rischio per la società, la semplice fissazione di uno standard di comportamento, quale deriva dalla responsabilità colposa, risulta di per sé sufficiente ad instaurare un efficiente sistema di incentivi sulle modalità di esercizio di una determinata attività. In altre parole, non sussiste in questi casi quel quid

pluris, connesso alla pericolosità dell’attività svolta e rappresentato dalla necessità di

individuare il livello di attività capace di garantire una ottimale corrispondenza tra il rischio prodotto per la società in conseguenza dell’attività svolta e l’utilità che essa ne trae158.

5.5. Gli interessi rilevanti e i soggetti legittimati ad agire. Una questione ancora aperta.

Tracciati i profili essenziali dell’attuale normativa in tema di responsabilità civile per i danni all’ambiente, occorre individuare quali siano i soggetti in concreto legittimati ad agire per far valere la tutela civile dell’ambiente. La questione suscita particolare interesse in quanto intimamente legata all’elemento che più di ogni altro contraddistingue il danno ambientale, ovverosia la pluralità degli interessi potenzialmente suscettibili di lesione a seguito della compromissione dell’ambiente. Come noto, il bene ambiente assume una valenza tanto collettiva, come bene unitario la cui protezione è espressione di un interesse generale e pubblico, tanto soggettiva (individuale), come diritto fondamentale dell’individuo, al quale deve essere garantita la possibilità di sviluppare la propria personalità in un ambiente salubre. Vista da un’altra prospettiva, la doppia valenza si riflette nell’ampia capacità lesiva della condotta integrante la fattispecie di danno ambientale: potenzialmente, essa può incidere su entrambe le sfere di cui si compone il bene ambiente, causando allo stesso tempo una lesione al bene ambiente pubblico e, quindi, un pregiudizio alla generalità dei consociati ovvero la lesione di singole posizioni giuridiche soggettive.

1994, p. 157 ss.


158 Cfr. P.T

RIMARCHI, Rischio, cit, p. 37 secondo cui «Lo scopo della responsabilità oggettiva è quello di premere per l’eliminazione del rischio socialmente ingiustificato».

Da questa premessa, si intuisce come interessi diffusi, collettivi e individuali si intreccino tra di loro, imponendo al legislatore il difficile compito di definire gli strumenti adatti per la protezione di ciascuno di essi.

Fin dal suo primo intervento legislativo in materia di danno ambientale risalente al 1986, lo Stato italiano si è occupato del bene ambiente nella sua veste pubblica, preoccupandosi di garantire la tutela dell’interesse indifferenziato della collettività a preservare l’integrità ambientale. Tuttavia, la natura adespota di tale interesse, in quanto espressione di una tensione super-individuale a un bene a fruizione collettiva159, imponeva l’individuazione di un soggetto legittimato a proporre le relative azioni, altrimenti inattivabili sul piano giurisdizionale.

Sebbene l’interesse diffuso non coincida con l’interesse collettivo in senso stretto160, il legislatore del 1986 ha ritenuto che la giuridicizzazione dell’interesse generalizzato e indifferenziato alla conservazione del bene ambiente dovesse necessariamente transitare attraverso l’attribuzione della legittimazione attiva in capo ad un ente esponenziale. In altre parole, la tutela degli interessi super- individuali e adespoti connessi alla protezione dell’ambiente poteva essere garantita solo operando una soggettivizzazione degli interessi diffusi161, di per sé privi di tutela giurisdizionale, sì da tradurli in interessi collettivi giudizialmente tutelabili da parte degli enti esponenziali162.

In questo senso deve essere letta la scelta di attribuire alla Stato, nella sua qualità di massimo ente esponenziale della collettività nazionale, la titolarità, anche in sede penale, dell’azione di risarcimento del danno. Nel vigore della legge n. 349/1986, la medesima legittimazione processuale – seppur limitata – era altresì attribuita agli enti locali nel cui

159 Cfr. R.F

ERRARA, Interessi collettivi e diffusi (ricorso giurisdizionale amministrativo), in Digesto delle

discipline pubblicistiche, vol. VIII, Torino, 1993, p. 481 ss.

160 L’interesse diffuso si presenta come interesse privo di titolare, in quanto riferibile ad una pluralità di

soggetti appartenenti ad una formazione sociale non organizzata e non individuabile in modo autonomo. L’interesse collettivo, al contrario, è quell’interesse che fa capo ad un insieme di individui organizzati in una formazione sociale autonomamente individuabile, rappresentata da un ente esponenziale. Cfr. R.CHIEPPA, R. GIOVAGNOLI, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2011, p. 101.

161 Cfr. Con. Stato, Sez. VI, 11 luglio 2008, n. 3507, in www.giustizia-amministrativa.it; in dottrina si veda:

L.PRATI, Il danno ambientale nel T.U. tra interessi diffusi e posizioni soggettive, in Ambiente e Sviluppo, 7, 2007, p. 577 ss.

162 Cfr. Con. Stato, Sez. VI, 11 luglio 2008, n. 3507: «[...] la concentrazione dell’interesse diffuso in

interesse collettivo si realizza proprio attraverso l’individuazione di soggetti qualificati, e quindi di organismi collettivi, che agiscano istituzionalmente e statutariamente per la sua tutela, e che di conseguenza, proprio per la particolarità del fine che perseguono, emergono dalla collettività indifferenziata e si fanno portatori delle istanze del gruppo sociale di cui sono esponenziali. Quindi, dall’interesse diffuso, in cui ciascun membro del gruppo, che fruisce del bene di uso collettivo è titolare di un interesse omogeneo rispetto a quello facente capo agli altri, si passa all’interesse collettivo, in cui emerge una organizzazione che agisce a tutela di quell’interesse e che diviene come tale portatrice di una posizione soggettiva giuridicamente rilevante che la legittima».

territorio si fosse verificato il danno, secondo quanto disposto dal terzo comma dell’art. 18 della legge 349/1986.163

Giuridicamente più complessa era la posizione delle associazioni ambientaliste. Ad esse, l’art. 18, comma 4 riservava un semplice potere di denuncia «al fine di sollecitare l’esercizio dell’azione da parte dei soggetti legittimati», con ciò escludendo un autonomo potere di azione. Il successivo comma, peraltro non abrogato dal T. U. ambientale, riconosceva, e riconosce tutt’ora, alle predette associazioni un potere di intervento processuale, sia in sede penale che civile, oltre alla possibilità di ricorrere davanti al giudice ammnistrativo per l’annullamento degli atti illegittimi. La sfera dei poteri attribuiti alle associazioni ambientaliste, inizialmente piuttosto esiguo, aveva successivamente subito un sensibile ampliamento per effetto dell’art. 9, comma 3, del D.lgs 18 agosto 2000, n. 267 (TUEL) che, riproducendo l’art. 4, comma 3, della legge 3 agosto 1999, n.265, aveva conferito alle associazioni ecologiste un potere di legittimazione in via sostitutiva. Più precisamente, la disposizione in esame consentiva alle associazioni di protezione ambientale di cui all’art. 13 della legge n. 349/1986 di proporre le azioni risarcitorie per danno all’ambiente, di competenza del giudice ordinario, che spettassero al comune o

163 L’articolo 18, comma 3 stabiliva che «'L’azione di risarcimento del danno ambientale, anche se

esercitata in sede penale, è promossa dallo Stato, nonché dagli enti territoriali sui quali incidano i beni oggetto del fatto lesivo». Tuttavia, la normativa, sebbene consentisse agli enti di agire in giudizio, sembrava individuare nello Stato il titolare esclusivo del diritto al risarcimento del danno. In tal senso Corte Cost. ordinanza 12 aprile 1990, n. 195 in Giurisprudenza Costituzionale, 1990, p. 1165 che nel ritenere infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 18 nella parte in cui non attribuisce alle Regioni il diritto al risarcimento del danno affermava lapidariamente la titolarità esclusiva del risarcimento in capo allo stato: «A parte il rilievo secondo cui l’ambiente, pur essendo un bene immateriale unitario, ha varie componenti, ciascuna delle quali può costituire, anche isolatamente e separatamente, oggetto di cura e tutela (come per esempio il paesaggio) la norma dispone che il risarcimento del danno c.d. ambientale spetta allo Stato ma che la relativa azione, anche se esercitata in sede penale, è promossa non solo dallo Stato ma anche dagli Enti territoriali sui quali incidano i beni oggetto del fatto lesivo, e quindi anche dalla Regione per i beni siti in essa». Nella medesima direzione nell’ambito della giurisprudenza di merito: Pretura di Torino, 11 febbraio 1995, n. 1389. Di conseguenza, l’ente territoriale avrebbe potuto proporre una domanda risarcitoria in via autonoma solamente nell’ipotesi in cui, dalla compromissione del bene ambiente inteso in senso unitario, fosse derivato simultaneamente una lesione dei diritti propri dell’ente; in tal caso si sarebbe aperta la via ordinaria di cui all’art. 2043 c.c. Nonostante la lettera della norma, una parte della dottrina aveva prospettato una diversa interpretazione, sostenendo l’esistenza di una titolarità (concorrente) al risarcimento del danno anche in capo agli enti territoriali, con conseguente legittimazione a proporre l’azione risarcitoria iure

proprio. Tale tesi dottrinale si basava su un’interpretazione estensiva del termine “Stato” di cui al comma 1

dell’art. 18, da intendersi non come ente pubblico bensì come Stato-comunità, comprendente al suo interno, oltre lo stesso Stato-ente pubblico, anche gli altri enti territoriali (Comuni, Province, Regioni ecc.). In base a tale ragionamento ermeneutico, era da escludersi la separabilità tra la titolarità dell’azione risarcitoria e il diritto ad ottenere il risarcimento stesso. La tesi della legittimazione concorrente tra Stato ed enti territoriali era stata avallata dalla prevalente giurisprudenza di legittimità, che con una serie di sentenze, sia in ambito penale che civile (si veda ad esempio Cass. Civ., Sez. III, 19 giugno 1996, n. 5650, in Foro italiano, 1996, c. 3062), aveva consolidato questo secondo orientamento, configurando un potere di azione autonomo in capo agli enti, per la tutela dell’interesse proprio della collettività territoriale di riferimento, con conseguente diritto a riscuotere l’eventuale credito connesso al risarcimento del danno ambientale. Per approfondimenti si veda: L.PRATI, Il danno ambientale e la bonifica dei siti inquinati, Ipsoa, Milano, 2008 p. 106.

provincia. La liquidazione dell’eventuale risarcimento sarebbe avvenuta in favore dell’ente sostituito mentre le spese sarebbero state liquidate a carico o in favore delle stesse associazioni ambientaliste.

Pur in assenza di una vera e propria legittimazione ad agire, il complesso normativo garantiva quindi alle associazioni una serie di strumenti di natura processuale che consentiva una, seppur parziale, tutela giurisdizionale degli interessi da esse perseguiti. Il riconoscimento alle associazioni di un ruolo attivo e dinamico nella tutela degli interessi alla protezione dell’ambiente aveva trovato conferma anche in seno alla giurisprudenza la quale era giunta a riconoscere in capo ad esse «la titolarità di un diritto soggettivo alla salubrità dell’ambiente e di un diritto della personalità dell’ente leso dall’offesa diretta e immediata arrecata dall’illecito allo scopo sociale che costituisce la finalità propria del sodalizio»164.

Tuttavia, le suesposte costruzioni dottrinali e giurisprudenziali in tema di legittimazione ad agire sono state successivamente demolite dal regime introdotto dal Codice dell’ambiente, il quale ha abrogato l’intero articolo 18, ad eccezione del suo quinto comma. La parte sesta del D. lgs. n. 152/2006 opera infatti un notevole accentramento delle competenze in capo allo Stato, ridimensionando la legittimazione ad agire degli enti locali nonché delle stesse associazioni ambientaliste, facendo ricadere sul Ministero dell’Ambiente il potere esclusivo di proporre l’azione di risarcimento del danno ambientale (art. 311 del decreto citato)165.

La previsione di un monopolio dello Stato nell’attivazione dello strumento risarcitorio trova la sua base giustificatrice nel dovere del Ministro di intervenire per la conservazione e il recupero delle condizioni ambientali, obbligo che già era stato imposto dall’art. 1, comma 2 della legge n. 349/1986 e che, successivamente, è stato ribadito in sede comunitaria dalla direttiva del 2004166. La portata giustificatrice di tale rilievo giuridico non sembra tuttavia capace di estendersi al punto da giustificare la completa esclusione di

164 Cass., Sez. III, 5 aprile 2002, in Giur. it., 2003, p. 694 con nota di L.B

ARBIERA,Il danno ambientale come danno presunto risarcibile allo stato, agli enti territoriali, alle persone fisiche e alle associazioni ecologiste, in Giurisprudenza italiana, 2003, p. 694 ss.

165 La medesima pretesa risarcitoria può essere avanzata anche in via amministrativa, attraverso

l’emanazione di un’ordinanza ministeriale a contenuto risarcitorio secondo la procedura e le regole fissata dagli artt. 312-317 del decreto. Allo stesso Ministero è altresì affidato l’espletamento di quei compiti e di quelle funzioni, in materia di prevenzione e riparazione dei danni, che la direttiva 2004/35/CE prevede in capo all’Autorità competente.

166 U.S

ALANITRO, La nuova disciplina della responsabilità per danno all’ambiente, in Studi per Giovanni

qualsivoglia forma di legittimazione processuale, sia in via autonoma che in via sostitutiva, da parte di altri soggetti pubblici o privati167.

Attraverso l’abrogazione del terzo comma dell’art. 18, infatti, le regioni e gli altri enti locali vengono private del potere di agire in giudizio per il risarcimento del danno ambientale di natura pubblica168. L’esautoramento viene confermato, in senso positivo, dalla lettera dell’art. 299, comma 2, che limita ad una mera collaborazione il ruolo e la