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Attori e risorse negli interventi di trasformazione territoriale

LA COSTRUZIONE PROBLEMATICA DELLA DECISIONE PROCESSI AUTOCENTRAT

3.3 Attori e risorse negli interventi di trasformazione territoriale

Sono attori del processo decisionale tutti coloro che hanno propri obiettivi da perseguire in relazione all’oggetto del contendere ( vantaggi da ottenere o perdite da evitare) e che dispongono e di risorse pertinenti per influenzarne l’esito.

Nella letteratura anglosassone essi sono spesso designati con il termine eloquente di “stakeholders”; esso indica coloro che hanno un interesse specifico sulla posta in gioco, anche se non dispongono di un potere formale di decisione o di un esplicita competenza giuridica ( non sono shareholders, ossia azionisti). Gli stakeholders possono essere affrontati sul campo e sconfitti. Si può venire a patti con loro. Non possono essere ignorati.

Nel dibattito corrente la pluralità degli attori viene spesso ricondotta alla dicotomia pubblico-privato, in realtà sono altrettanto frequenti le interazioni ( anche conflittuali) tra pubblico e pubblico e con attori appartenenti al settore non profit,

con gruppi o associazioni o semplicemente con comitati di cittadini costituiti ad hoc. Il numero degli stakeholders è tanto maggiore quanto maggiori sono gli effetti esterni ( negativi o positivi) del progetto. La presumibile forza di ciascuno dipende dall’ampiezza dei costi e dei benefici che discendono dall’intervento e dalla loro maggiore o minore concentrazione. Per gestire una situazione decisionale caratterizzata da un alto numero di attori ( potenziali ed effettivi) esistono, in linea di principio, due strade opposte: la via dell’esclusione e quella dell’inclusione. La strategia esclusiva mira a riservate l’accesso all’arena decisionale al minor numero possibile di attori, ossia a quelli che detengono la risorsa chiave. La strategia inclusiva consiste, all’opposto, nell’aprire il processo decisionale al maggior numero di attori possibile.

Le due strategie si basano su principi antitetici: la prima si fonda sulla segretezza, la seconda sulla pubblicità; la prima punta sulla qualità del progetto, la seconda sulla qualità dell’adesione al progetto (Ruegg 1994); la prima mira a prevenire o impedire i conflitti, la seconda tende piuttosto a sollecitarli e a tentare di risolverli. La prima si ispira a principi efficientistici, la seconda a principi pluralistici. Ciascuno dei due approcci comporta pregi e difetti diametralmente opposti.

Le strategie esclusive hanno il vantaggio di minimizzare i costi di transazione e di tenere sotto controllo i tempi della progettazione favorendo l’uso di razionalità tecnico scientifiche. Il loro successo è legato alla capacità di produrre decisioni coerenti, tecnicamente fondate e autosufficienti, che siano in grado di convincere gli attori esclusi o, per lo meno, di porli di fronte al fatto compiuto. Il loro punto di debolezza consiste nell’oggettiva rigidità delle soluzioni. I progetti che escono da tali processi sono del tipo prendere o lasciare, ammettono qualche correzione marginale, ma non l’imbocco di strade alternative che siano già state scartate (o ignorate). Reggono male di fronte alle eventuali opposizioni. Rischiano addirittura di trasformarsi a loro volta in impaccio che per lungo tempo può impedire la soluzione del problema originario. Le strategie inclusive hanno invece la dote della flessibilità. Non pongono gli attori di fronte a una soluzione precostituita, ma di fronte al problema. Permettono di esplorare più ampiamente le alternative. E se riescono ad approdare ad una soluzione condivisa, è assai probabile che essa sia stabile nel tempo. Il loro tallone d’Achille è la difficoltà di tenere sotto controllo il processo: i costi di transazione possono dilatarsi in misura esponenziale, si possono aprire conflitti non necessari, o offrire spazi per l’esercizio di poteri di veto.Entrambe le strategie presentano ampi margini di incertezza, sia pure di segno opposto. Mentre la seconda rischia di aprire un processo che non riuscirà mai a chiudere, la prima rischia di dichiarare chiuso un processo che invece si sta aprendo proprio in quel momento. La scelta dell’una o dell’altra ( ma nella pratica sono disponibili anche opzioni intermedie tra i due poli estremi) dipende dalle caratteristiche del problema. Le strategie di tipo esclusivo appaiono più adatte quando le risorse chiave sono concentrate e le esternalità limitate, quando gli obiettivi sono condivisi ( o per lo meno non esistono conflitti particolarmente acuti) e quando sono disponibili teorie e tecnologie collaudate. Nei casi opposti sono le strategie inclusive ad apparire decisamente più efficienti. Per decidere quale strada intraprendere sarà fondamentale comprendere la natura dei potenziali stakeholders e considerare i costi e i benefici che discendono dal progetto.

In realtà questo esercizio di analisi nella pratica viene svolto molto raramente. Le indagini empiriche sui processi decisionali mostrano che i promotori dei progetti tendono costantemente a preferire strategie di esclusione, del tutto

indipendentemente dalla natura del problema. Essi non compiono una vera e propria scelta. Si dirigono sempre e in modo irriflessivo, nella stessa direzione. Il primo passo è in genere quello di delimitare il campo decisionale distinguendo tra i pochi che ci stanno dentro e i molti che rimangono fuori. Quando una amministrazione ritiene di possedere da sola le risorse chiave , tende senz’altro a dar vita alla progettazione rimandando al più tardi possibile il confronto con gli attori interessati. Negli interventi più complessi questa scelta assume una particolare visibilità organizzativa: si creano strutture ad hoc che rappresentano in forme giuridiche diverse gli attori chiave. Tali strutture assumono di volta in volta la veste di comitati, commissioni, società di intervento a capitale misto o interamente pubblico.Esse non ricevono un mandato puramente esecutivo, ma vengono investiti di veri e propri compiti di governo, come per esempio la definizione di scelte urbanistiche.

Si assiste così ad una sorta di deresponsabilizzazione incrociata. Gli enti territoriali proponenti, una volta formulate indicazioni strategiche generali si liberano dai compiti di definizione del problema e di elaborazione puntuale del progetto; i soggetti dell’intervento tentano a loro volta di interpretare il loro ruolo in chiave prevalentemente tecnica, avendo le spalle coperte, sul piano politico, dagli enti che li hanno costituiti. Il rapporto con gli altri stakeholders diventa, a questo punto, una terra di nessuno.Le strategie esclusive appaiono particolarmente fragili quando si imbattono nelle proteste dei cittadini. I tradizionali meccanismi della rappresentanza non consentono loro di anticipare bisogni che sono percepiti in un’area territoriale molto ristretta e d’altra parte la concentrazione degli effetti negativi su piccoli gruppi fa sì che il problema sia percepito con estrema intensità e che l’auto-organizzazione sia poco costosa. Esistono alcuni sintomi tipici e ricorrenti, che rivelano le difficoltà delle strategie esclusive. Uno di questi è la frequenza, sicuramente patologica, dei ricorsi ai Tribunali Amministrativi. L’alto livello di litigiosità amministrativa che caratterizza i nostri interventi è l’evidente spia dell’incapacità delle amministrazioni di fare i conti preventivamente con i soggetti dissenzienti. Altro sintomo è la frequenza con cui diverse delibere dei consigli comunali si susseguono nel tempo sul medesimo oggetto. Ogni intervento è infatti segnato da un numero molto alto di atti decisionali che si smentiscono l’uno con l’altro. È segno che i comuni hanno ( comprensibilmente) fretta di decidere, ma poi non sono in grado di tener ferme le loro decisioni e sono costretti a correggerle ancor prima che vengano attuate. Non si tratta di un saggio atteggiamento sperimentale o incrementale: ogni volta si ripete l’illusione di aver sistemato definitivamente la questione.

Gli iniziatori preferiscono affidarsi istintivamente a processi decisionali chiusi ed esclusivi per ragioni facilmente comprensibili ( anche se risultano spesso miopi) : essi temono,infatti, che l’apertura dell’arena determini una situazione incontrollabile ed esponga il processo ai ricatti di piccole minoranze combattive. La letteratura internazionale e qualche esperienza realizzata sul piano locale mostrano tuttavia che i margini di incertezza possono essere tenuti ragionevolmente sotto controllo, anche in presenza di diritti di accesso particolarmente estesi. Bisogna tener presente innanzi tutto che il coordinamento tra più attori non implica necessariamente una negoziazione o uno scambio tra le unità coinvolte. Il coordinamento può avvenire anche in modo non interattivo ( ossia senza comunicazioni dirette) attraverso un aggiustamento reciproco dei propri progetti da parte di attori diversi. Ciascuno di essi, in altre parole, si adatta ai movimenti degli

altri, senza bisogno di interloquire esplicitamente o stipulare accordi. Questo tipo di coordinamento è stato designato come parametrico (Lindblom 1965), perché non diversamente dal coordinamento realizzato dal mercato- ognuno assume le decisioni degli altri soggetti come parametri su cui misurare la propria azione, piuttosto che come strategie da negoziare o (contrastare). In questo modo può generarsi un processo di “apprendimento ambientale”( Scharpf 1978). Ma la condizione perché il reciproco adattamento possa realizzarsi è che le intenzioni di ciascun soggetto siano rese pubbliche in modo tempestivo e completo. Molto spesso gli attori coinvolti da un progetto non sono in grado di aggiustare tempestivamente le loro strategie semplicemente perché non conoscono quelle degli altri o le conoscono in modo vago, impreciso, per sentito dire.

Il segreto o la cattiva qualità delle informazioni rappresentano l’ostacolo più potente per questa forma poco costosa di coordinamento. Affrontare il problema

della comunicazione tra gli attori interessati è già di per sé una strategia di

coordinamento che può risolvere molti problemi, senza il ricorso soluzioni autoritative o alla costruzione di complessi tavoli negoziali. Quando l’adattamento automatico non funziona –per esempio perché esistono interessi configgenti-non è detto che le interazioni debbano essere organizzate in forma “pesante”attraverso incontri ufficiali, scambi di comunicazioni scritte e protocollate, atti giuridici. La letteratura internazionale mostra con dovizia di esempi che il coordinamento si realizza essenzialmente grazie a rapporti informali ( Chisholm 1989). In tanto un promotore può anticipare le mosse di altri attori e di tenerne conto nella stesura del suo progetto, in quanto sia stato in grado di sondare il terreno, attivare canali informali e reti di rapporti preesistenti, indipendentemente dalla struttura ufficiale delle rispettive organizzazioni. Le competenze giuridiche dei diversi enti diventano barriere insormontabili soltanto se il livello informale viene costantemente evitato. La difficoltà delle interazioni informali può essere messa in luce esaminando come le amministrazioni affrontano alcuni passaggi chiave delle procedure legali, ossia le autorizzazioni. Il modo più frequente e tradizionale con cui la legge dispone l’inclusione di un attore nel processo decisionale, consiste nell’affidargli il potere di dare il proprio benestare al progetto predisposto da un altro soggetto. In questo caso si realizza un coordinamento di tipo negativo. Mentre nel caso del coordinamento positivo la soluzione viene trovata attraverso un esame congiunto delle linee d’azione proposte dai vari attori. Questo tipo di atteggiamento consente di raggiunger soluzioni più ricche che configurano vantaggi congiunti, ma comporta notevoli costi di transazione.

Il coordinamento negativo persegue l’obiettivo più modesto di evitare soluzioni che presentano interferenze inaccetabili ( può quindi dar luogo a soluzioni sub-ottimali), ma può essere preferibile perché semplifica le interazioni necessarie. Come ha osservato Scharpf, “l’atto di autorizzazione si riduce ad una pura formalità, quando l’unità proponente è in grado di anticipare le obiezioni e di modificare di conseguenza la sua proposta. È quindi chiaro che il coordinamento negativo riduce drasticamente la complessità del processo.

Spesso il difetto non sta nelle procedure in quanto tali, quanto nell’incapacità delle parti di attivare tempestivamente meccanismi informali di aggiustamento, una volta eliminato il gap di volontà non comunicanti. Il cattivo esito del coordinamento negativo, ha spinto le amministrazioni ad accogliere con favore le innovazioni legislative che hanno introdotto forme di coordinamento positivo mediante le conferenze di servizi e gli accordi di programma. Pur tuttavia tali esperienze

appaiono segnate da alcuni limiti. Innanzitutto le conferenze di servizi restano pur sempre momenti altamente formali da cui scaturiscono atti aventi rilevanza giuridica e possono perciò rivelarsi non del tutto adatte a risolvere in modo flessibile i problemi del coordinamento fra enti diversi. In secondo luogo esse coinvolgono soltanto le istituzioni pubbliche e non sono quindi in grado di trattare quei conflitti che riguardano gruppi di cittadini o associazioni della società civile. In questi casi le conferenze di servizi possono al contrario generare un effetto illusorio di consenso: ciò avviene quando una proposta riceve l’approvazione di tutti gli enti pubblici convocati, che però non sono in grado di rappresentare i segmenti della popolazione più direttamente coinvolti dalla decisione. Infine, nell’esperienza concreta, è frequente che tali conferenze vengano convocate troppo tardi, quando il problema sul tappeto è già stato definito e non è possibile apportare significative correzioni al progetto. In questi casi la conferenza di servizi può assumere una funzione vagamente ricattatoria nei confronti degli enti dissenzienti.