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1. THE WORD IS LATE, BUT THE THING IS AUNCIENT

2.1 Unità di metodo nell’apprendere e nel conoscere: i contorni del problema

2.1.1 Tra autorità e novità

Montaigne ricompone la complessità del suo ambiguo rapporto con la consuetudine dichiarando la sua avversione nei confronti della novità in campo civile e mitigando così il rischio della deriva relativistica, alla luce di un momento storico altamente critico208. Montaigne è ben consapevole dell’influenza del contesto scosso dalle guerre di religione sulla sua posizione di rifiuto della novità: «La novità mi disgusta, sotto qualsiasi aspetto si presenti: e ho ragione, perché ne ho veduti effetti molto dannosi. Quella che ci opprime da tanti anni non ha fatto tutto, ma si può dire con verosimiglianza che indirettamente ha tutto prodotto e generato, anche i mali e le rovine che accadono poi, senza e contro di lei»209. Attraverso la comprensione degli effetti politici e sociali provocati dalla riforma luterana, Montaigne rivitalizza il motivo tradizionale del genere utopico che tratta la novità come un pericolo che perturba l’ottimo ordine immaginato210. La novità appare pericolosa per la temerarietà del giudizio di chi si accinge a introdurre il cambiamento:

207 Ivi, I, 23, p. 209.

208 Si veda sul tema della pericolosità della novità politica in Montaigne R. Ragghianti, Introduzione a Montaigne, Roma-Bari 2001, pp. 47-59 e la voce Nouvelleté in Dictionnaire de Michel de Montaigne, publié sous la direction de Ph. Desan, Paris 2004, pp. 722-3.

209 M. de Montaigne, op. cit., I, 23, p. 213.

210 Il giudizio negativo sulla novità in campo civile è già presente nella Repubblica platonica: i guardiani hanno il compito, tra gli altri, di evitare l’insorgere di ricchezza e povertà, due mali che provocano moti rivoluzionari (neoterismos). Cfr. Platone, La Repubblica, 422a 3, tr. di F. Sartori, intr. di M. Vegetti e note di B. Centrone, Bari 2011, p. 233. Così anche nella Politica aristotelica il tema della novità è connesso al problema della rivoluzione, ed è trattato diffusamente nel secondo libro, in particolare in merito al valore della consuetudine e della differenza tra la novità in campo civile e nel progresso delle arti (sul quale si veda infra, nota 332). Per il topos dell’avversione della novità nell’antichità latina si veda E. Romano, L’ambiguità del nuovo: res novae e

55 (…) colui che s’impaccia di scegliere e di cambiare, si arroga l’autorità di giudicare, e deve farsi garante di vedere il difetto di ciò che elimina e il bene di ciò che introduce. Questa considerazione così semplice mi ha rafforzato nella mia posizione, e ha imbrigliato anche la mia giovinezza, più temeraria, trattenendomi dal caricarmi le spalle di un così grave fardello, quale il rendermi garante d’una scienza di tale importanza, e osare in essa ciò che in coscienza non potrei osare nella più facile di quelle in cui mi avevano istruito, e in cui la temerità nel giudicare non pregiudica nulla. Sembrandomi quanto mai iniquo voler sottoporre le costituzioni e le regole pubbliche e immobili all’instabilità d’un capriccio personale (la ragione personale ha solo una giurisdizione personale), e operare sulle leggi divine quello che nessun governo permetterebbe si facesse su quelle civili; poiché, sebbene la ragione umana abbia assai più rapporto con queste ultime, tuttavia esse sono giudici sovrani dei loro propri giudici; e la più grande competenza serve a spiegare ed estendere l’uso già accettato, non a sviarlo e innovarlo.211

La temerarietà nel giudizio e il riferimento all’introduzione della novità espressamente in campo religioso suggeriscono il tema della necessità della modestia per la ragione umana che dovrebbe riconoscersi parziale, incostante e fallace.

Il termine temerité compare 29 volte negli Essais e indica generalmente l’imprudenza e l’arditezza, in particolare in merito al giudizio. Come già nell’Etica Nicomachea212, la temerarietà si riferisce a un tipo di coraggio impreparato che non ha avuto tempo e forza di valutare la realtà e che rimane ostaggio di un’immaginazione sregolata:

Che sicurezza possiamo dunque avere di una cosa così instabile e mobile, soggetta per la sua condizione al dominio del disordine non procedente mai se non con passo forzato e innaturale? Se il nostro giudizio è preda della malattia stessa e del turbamento, se è dalla follia e dalla temerità che deve ricevere l’impressione delle cose, che sicurezza possiamo averne?213

Imporre la novità in campo religioso, che è anche civile e politico, significa elevare un giudizio privato a regola e legge: tuttavia, l’uomo saggio sa che il grande quadro del mondo, è percorso da corrispondenze di cui l’essere umano difficilmente potrà avere un colpo d’occhio completo, punto di vista che è prettamente divino. La temerarietà del giudizio è così anche la temerarietà di farsi simile a Dio, nell’estendere a tutte le cose un ordine che è in realtà parziale e artificioso perché creato da una ragione che è essa stessa artificiosa e che rivela la sua inesattezza a fronte dell’eccezione mostruosa. Un ordine – per usare le parole di Bacon – ex analogia hominis e non ex analogia universi214.

cultura romana, Laboratoire italien [Online], 6, 2006, Online since 07 July 2011, connection on 24 July 2017. URL: http://laboratoireitalien.revues.org/191.

211

M. de Montaigne, op. cit., I, 23, pp. 215-17. 212 Aristotele, Etica Nicomachea, 1107b e ss. 213 M. de Montaigne, op. cit., II, 12, p. 1045.

56 L’altro elemento posto dal rifiuto della novità insita nella riforma luterana, è la mescolanza tra le cose divine e le cose umane. Montaigne si sofferma sulla reperibilità della traduzione delle Scritture negli idiomi volgari, sottolineando come la fruibilità per il popolo ne determini una qualche secolarizzazione:

Non è una storia da raccontare, è una storia da riverire, temere e adorare. (…) Dipende forse solo dalle parole che essi capiscano tutto ciò che vi trovano scritto? Dirò di più? Per avvicinarvelo di quel poco, essi lo allontanano. L’ignoranza pura e che si affida tutta ad altri era ben più salutare e sapiente di questa scienza verbale e vana, nutrice di presunzione e di temerità.215

Puntualmente l’Apologie de Raymond Sebond si apre con alcuni riferimenti agli effetti della novità luterana sulle menti volgari che, vedendo smossi certi articoli di fede, trasferiscono la medesima incertezza sulle restanti convinzioni, accettate precedentemente per autorità e consenso, processo da cui deriva un «esecrabile ateismo»216.

La posizione fideistica di Montaigne217 è condivisa anche da Bacon, che non cessa di circoscrivere le potenzialità della conoscenza umana nei confini delle facoltà e dei limiti dell’intelletto. Come è stato notato218, l’esigenza del metodo in Bacon, come le note di Montaigne rispetto alla presunzione e alla temerarietà del giudizio e della scienza umana, è prettamente un’affermazione di modestia, per cui una certa lettura critica di Bacon improntata sull’attenzione alla tecnica e al progresso appare mitigata. Non casualmente, l’apertura del Novum Organum è anche un monito: «L’uomo, ministro e interprete della natura, opera e comprende solo per quanto, dell’ordine della natura, avrà osservato con l’attività sperimentale o con la teoria; né sa né può niente di più»219.

215 M. de Montaigne, op. cit., I, 56, p. 571. 216 Ivi, II, 12, pp. 779-81.

217 La relazione di Montaigne con la religione cattolica e con la fede è stata oggetto di numerosi studi e di un dibattito complesso, di cui M. Dréano, La pensée religieuse de Montaigne, Paris 1937, rimane il punto di partenza per gli studi sul pirronismo come strumento privilegiato per riaffermare il cattolicesimo contro il razionalismo. Si veda anche C. Sclaffert, L’âme religieuse de Montaigne, Paris 1951. D’altro canto, Pierre Michel in P. Michel, Fidéisme de Ronsard et de Montaigne, in «Bulletin de la Société des Amis de Montaigne», 1966, n. 7, pp. 24-34, ha ben reimpostato il problema nella prospettiva dell’inefficacia della ragione nella comprensione di Dio e dei nessi tra fede e scetticismo. Si veda E. Naya, Le doute libérateur: préambules à une étude du discours fidéiste des Essais, in Montaigne. L’écriture du scepticisme, edité par M.- L. Demonet-Lunay et A. Legros, Genève 2004, pp. 201-222. Per il nostro scopo, evochiamo la posizione di Bernard Sève che, tra gli altri, ha sottolineato il dispositivo della mise à part del campo di competenza del credere, tenendo ferma la validità della fede e la sua impermeabilità all’esperienza. B. Sève, Theologia philosophiae ancilla?, in Montaigne et la théologie, études publiés sous la direction de Ph. Desan, Genève 2008, pp. 49-58. Per un inserimento dell’opera di Montaigne nella costellazioni di scritti prodotti, nelle parole di Renzo Ragghianti, dall’«alleanza di scetticismo e fideismo», si veda R. Ragghianti, Introduzione a Montaigne, Bari 2001, pp. 39-43.

218 Cfr. T. Gontier, Umanità dell’animale, animalità dell’umano, in Il coignoissent bien Galien, mais nullement le malade. Montaigne e l’esperienza del corpo tra medicina, letteratura e filosofia, Roma 2018.

57 La conoscenza delle potenzialità e dei limiti umani, espressa in Montaigne attraverso il motto delfico e costante preoccupazione di Bacon che dedica alla confutazione della ragione larga parte dei suoi scritti e del primo libro del Novum Organum, porta entrambi gli autori a escludere i misteri divini dalla prospettiva speculativa, contribuendo a una secolarizzazione del sapere che va di pari passo con la centralità dell’esperienza nel processo teoretico. La comunanza di questa prospettiva emerge in modo particolare nella trattazione della teologia e delle obiezioni alla teologia naturale.

In merito alla teologia come sapere divino, Montaigne ne tratta sottoponendola alla critica di cui fa oggetto tutti gli altri saperi e scorgendovi quello stesso deprecabile segno che è la volontà di arricchirsi, unico elemento di valore attribuito alla conoscenza nella generale decadenza delle lettere: «se infatti il miraggio di arricchirsi per mezzo di esse che, solo, ci viene oggi portato davanti, tramite la giurisprudenza, la medicina, la pedagogia e perfino la teologia, non tenesse alto il loro credito, le vedreste senza dubbio miserabili come mai lo furono»220.

L’elemento che tuttavia connette la riflessione baconiana a quella montaignana in merito alla critica della teologia come scienza umana è radicata nella dimensione dell’errore teoretico. Proponendo argomenti che fanno pensare alla teologia negativa221, Montaigne estende il principio per cui «non abbiamo alcuna comunicazione con l’essere»222, affermando l’impossibilità di contemplare Dio attraverso una mente umana che conosce in analogia con se stessa:

Perché, ad esempio, che cosa c’è di più vano di voler comprendere Dio per mezzo delle nostre analogie e congetture, e regolare lui e il mondo secondo le nostre capacità e le nostre leggi? E servirci a spese della divinità di quel piccolo scampolo di intelligenza che a lui è piaciuto concedere alla nostra condizione naturale? E non potendo far giungere la nostra vista fino al suo trono glorioso, averlo ricondotto qui in basso al livello della nostra corruzione e delle nostre miserie?223

220

M. de Montaigne, op. cit., I, 25, p. 283.

221 Per una lettura dell’Apologia sotto la prospettiva della teologia negativa si veda J. Miernowski, L’ontologie de la contradiction sceptique: pour l’étude de la métaphysique des Essais, Paris 1998, pp. 35 e ss. In particolare Miernowski sottolinea il modo in cui Montaigne recepisce il messaggio ontologico della teologica negativa, senza farne argomento di dimostrazione, come invece avviene nella prova ontologica anselmiana: non esiste alcuna soluzione razionale all’allontanamento di Dio, che rimane totalmente oggetto della fede. Ivi, p. 38.

222 M. de Montaigne, op. cit., II, 12, p. 1113. 223 Ivi, p. 931.

58 E ancora, stabilendo la supremazia e la separatezza della teologia da ogni altra disciplina224, Montaigne ribadisce il dubbio come luogo privilegiato del suo pensiero e sembra criticare indirettamente l’atteggiamento categorico di chi discorre di teologia facendo appello ad una ragione presuntuosa che chiama in causa, come garanzia di verità, un Dio inconoscibile per se stesso:

Presento le fantasie umane e mie semplicemente come umane fantasie, e considerate per se stesse. Non come stabilite e regolate per ordine celeste, esenti da dubbio e discussione. Materia di opinione, non materia di fede. Quello che ragiono secondo me, non quello che credo secondo Dio. Come i fanciulli presentano i loro saggi, istruibili, non istruttivi. In maniera laica, non clericale, ma sempre molto religiosa.225

L’affermazione per cui Montaigne parla secondo la propria opinione e non secondo Dio, è segno di un atteggiamento laico per il quale Bacon esprime apprezzamento proprio nel capitolo del De augmentis scientiarum sulla ʻteologia ispirataʼ. La denuncia della necessità di precetti per la ragione umana in campo teologico al fine di mitigare l’impeto della curiosità che rischia di condurre all’ateismo, su cui Montaigne, come abbiamo visto, sarebbe stato d’accordo, è evocata attraverso una citazione paolina:

(…) e non può esser stimato discepolo di S. Paolo colui che non intercala di quando in quando nel suo sapere frasi come questa: “Io parlo, non Dio” e “Secondo la mia opinione” (…) Ci sembra dunque utile e opportuno formare un trattato sobrio e diligente dei precetti che si devono osservare nell’uso della ragione umana in teologia, quasi una dialettica divina, che agisca come sonnifero per assopire, non solo le vane speculazioni di cui si travaglia talvolta la Scuola, ma anche per mitigare un poco il furore delle controversie che tanto danno recano alla Chiesa.226

L’esclusione dei misteri divini dalla speculazione, e il rifiuto di qualsiasi pretesa di fondare la verità teoretica su convinzioni di ragione indimostrate sono condivise da Bacon nella sua proposta di divisione delle scienze. Distinguendo tra filosofia divina, naturale ed umana, a seconda dell’argomento trattato – rispettivamente Dio, natura, uomo – Bacon definisce i limiti della filosofia divina o teologia naturale, sostenendo che essa non indaga né Dio, né la sua immagine, bensì le sue qualità di dignità, onnipotenza e bontà testimoniate dalle sue opere227. Di più, l’inconoscibilità di Dio attraverso una ragione mal condotta in assenza di un

224

«(…) la dottrina divina conserva meglio il suo rango in disparte, come regina e dominatrice. Che deve essere al primo posto dovunque, e non servir di appoggio e di sussidio. E che forse si tratterebbero esempi di grammatica, di retorica e di logica più convenientemente da altri luoghi che da una materia così santa. E così gli argomenti dei teatri, giochi e spettacoli pubblici. Che i soggetti divini si trattano con più venerazione e reverenza da soli e nel loro stile, che non insieme ad argomenti umani». Ivi, I, 56, pp. 573-5.

225

Ibidem, corsivo mio.

226 F. Bacon, Della dignità e del progresso delle scienze, cit., p. 509. Il riferimento è, seguendo De Mas, a Paolo di Tarso, Corinzi, 1, 7, 12.

59 metodo legittimo e il rifiuto della mescolanza tra misteri divini e speculazione umana costituiscono il terzo dei «veri limiti e confini cui l’umano conoscere è circoscritto e ridotto (…) la terza [limitazione] di non pretendere, attraverso la contemplazione della natura, di attingere ai misteri di Dio»228.

(…) chi pensi con l’osservazione e la ricerca di queste cose materiali e sensibili di attingere quella luce grazie alla quale potrà svelarsi la natura o volontà di Dio, è certamente corrotto da vana filosofia: infatti, la contemplazione delle creature ed opera di Dio produce, rispetto alle opera e creature stesse, conoscenza; ma rispetto a Dio, non conoscenza perfetta ma meraviglia.229 La teologia naturale è così spogliata delle potenzialità teoretiche che le riconoscevano un possibile ruolo, di impianto agostiniano, nella conoscenza di Dio attraverso la similitudine tra le sue perfezioni e la loro impronta nelle creature. In questo senso, Bacon auspica piuttosto una nuova teologia, frutto ultimo del metodo proposto. È con questa “teologia ispirata”, che Bacon conclude il De augmentis scientiarum, elencandone i relativi desiderata:

Ci resta, è vero, la teologia sacra o ispirata, ma se noi prendessimo a trattarla, dovremmo uscire da questa piccola barca della ragione umana, e trasferirci sulla grande nave della Chiesa, la sola che sia provvista della bussola divina per guidarci nel suo cammino. Non ci basterebbero infatti le stelle della filosofia che fin qui hanno brillato per noi. Perciò ci sembra bene anche su questo argomento osservare il silenzio.230

Questa comune posizione tra Montaigne e Bacon di stampo fideistico rispetto alle possibilità di raggiungere le verità divine è la conseguenza del tentativo di ridimensionare la presunzione della ragione umana nell’affermare come verità indiscutibile ciò che è meramente verosimile. Nell’articolazione della dialettica tra vero e verosimile, spazio in cui si muove l’arte retorica al fine di stabilire le garanzie di validità del discorso, emerge la funzione della ragione e della consuetudine in campo civile. Il contesto storico di cui, come abbiamo visto Montaigne è ben consapevole, deve i suoi turbamenti all’immissione di una novità religiosa, affermata e imposta come vera, ma priva di garanzie. Come Montaigne, Bacon riconosce alla ragione umana una funzione regolativa per quanto riguarda il campo civile, con cui la religione condivide l’impossibilità di dimostrare i suoi principi fondativi e, conseguentemente, la necessità di non metterli in discussione per il buon funzionamento

228

Ivi, p. 136. Gli altri due limiti della conoscenza umana sono l’oblio della mortalità dell’umano nella gioia della conoscenza e l’uso del sapere per ottenere serenità ed evitare l’insoddisfazione.

229 Ivi, p. 137.

60 della società, e per «mantenere la pace nella Chiesa»231. Messa da parte la possibilità di conoscere attraverso la ragione discorsiva i misteri divini, la religione diviene il lato civile della fede: collocarsi all’interno dell’alleanza cristiana significa accettarne le regole del gioco, come accade in una partita a scacchi: «nel gioco degli scacchi e negli altri giochi, le regole prime o norme del gioco sono meramente positive e a piacere, perché devono essere assolutamente accettate senza discussione; tutta l’abilità e il ragionamento consistendo nel sapere ben disporre il proprio gioco in modo da vincere»232. E così Montaigne: «La religione cristiana ha tutti i caratteri di una estrema giustizia e utilità; ma nessuno di essi è più evidente della precisa raccomandazione di obbedire al magistrato e di mantenere forme di governo»233.

L’utilità della religione in campo civile è del medesimo genere di quella offerta da qualsiasi altro ordinamento sociale e politico. Un sistema adeguato nei termini di giustizia e di efficacia dal punto di vista della pace sociale non deve, in linea di massima, essere indagato nelle sue fondamenta, pena la dimostrazione della sua arbitrarietà.

Su questo punto, tuttavia, Montaigne appare meno tranchant di Bacon, il quale si limita a equiparare la necessità del consenso in campo religioso con quello dovuto alle altre discipline fondate sull’autorità. Come ha proposto Panichi, Montaigne insinua invece considerazioni che il suffisant lecteur deve recepire: evidenziare il fondamento occulto delle leggi, non è allo stesso tempo svelarne la fatuità?

Una volta, dovendo far valere una nostra tradizione, accolta con piena autorità in una zona assai estesa intorno a noi, e non volendo, come si usa fare, imporla soltanto con la forza delle leggi e degli esempi, ma cercando invece di risalire fino alla sua origine, ne trovai il fondamento così debole che poco mancò che non me ne disgustassi, io che dovevo inculcarla in altri.234

L’orizzonte di Bacon, uomo di corte, è nettamente più utilitarista: in questo senso la critica del principio di autorità nel progresso del sapere non investe infatti strettamente il problema del consenso nella dimensione del vivere civile. In politica, dove vige un altro metodo, autorità e consenso non sono solo utili, ma necessari. Il campo di validità delle discipline fondate sul consenso è appunto espresso nel Libro IX del De augmentis scientiarum dedicato, ricordiamo, alla teologia:

231 Ivi, p. 515.

232 Ivi, p. 514.

233 Montaigne, op. cit., I, 23, p. 215.

234 Ivi, p. 207. E ancora, di notevole potenza: «gli domanderò allora che cosa può esserci di più strano che il vedere un popolo obbligato a seguire delle leggi che non hai mai compreso, sottoposto in tutte le sue faccende familiari, matrimoni, donazioni, testamenti, vendite e acquisti, a regole che non può sapere perché non sono scritte né pubblicate nella sua lingua, e delle quali deve per necessità comprare l’interpretazione e l’uso». Ibidem. Cfr. N. Panichi, I vincoli del disinganno…, cit., p. 72.

61 Una volta collocati nelle loro sedi gli articoli e i principi della religione, in modo tale ch’essi esulino completamente dalla competenza della ragione, allora soltanto è consentito ricavarne le conseguenze in virtù della analogia. Ciò non accade invece nelle cose naturali, dove i principi stessi della natura devono essere sottoposti all’esame della ragione, per induzione dico e non per sillogismo (…) Ma nelle religioni la cosa deve andare diversamente. Qui le proposizioni