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2.1. La rima nella poesia delle origini

2.1.3. La ballata

Altro genere metrico di ascendenza provenzale è la ballata. Con questa forma l’asse si spostava dalla scuola siciliana a quella stilnovista tosco – bolognese. In queste zone si diffondeva e aveva massima fioritura la ballata, benché rivelasse subito intonazioni popolareggianti, poiché la stessa origine del componimento era popolare, in genere da cantare in accompagnamento alla danza, fu perfezionata e assunta a forma letteraria, degli stilnovisti e dal Petrarca, che ne fissarono la struttura metrica.

Dovendo accompagnare il canto e il ballo tondo, la ballata possedeva le sue regole ritmiche: era composta, quindi, da un ritornello d’introduzione, seguito da una o più strofe, chiamate stanze cantate dal solista, e da un ritornello, detto ripresa, (lat. responsorium) che era ripetuto dopo ogni stanza e cantato da un coro. La stanza stessa richiamava il ritornello (ripresa) con la sua rima finale.

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La rima al mezzo è uno degli accorgimenti metrici più caratteristici e tipici non solo nel sonetto delle origini, ma anche nelle altre forme metriche del periodo.

La stanza della ballata, nel suo schema tipico italiano, comprendeva due parti. La prima parte era divisa in due piedi, o mutazioni, con un numero di versi uguali e uguale tipo di rima, mentre la seconda parte, chiamata volta, si legava ai piedi con la prima rima e alla ripresa con l’ultima rima, grazie ad una struttura metrica uguale a quella della ripresa, come si può vedere nello schema:

A B B A (Ritornello) - C D C D (Piede) D E E A (volta) - A B B A (ritornello) ecc. ecc.

Gli endecasillabi misti a settenari sono i versi maggiormente usati nella ballata e le rime possono essere disposte in modo differente con la regola che l'ultimo verso della volta faccia rima con l'ultimo verso della ripresa. Dalla sua struttura metrica derivava quella della lauda, tipica forma della poesia religiosa. Le laudi si modellavano metricamente sul testo di una ballata profana, con l’intento di sfruttarne la parte musicale. I versi utilizzati erano settenari e ottonari, quelli cioè più inclini all’ accompagnamento musicale. Un esempio di Lauda religiosa può essere la celebre “Donna de Paradiso” di Jacopone da Todi (XIII):

Donna de Paradiso, lo tuo figliolo è preso Iesù Cristo beato.

Accurre, donna e vide che la gente l’allide; credo che lo s’occide, tanto l’ho flagellato» «Como essere porria, che non fece follia,

Cristo, la spene mia, om l’avesse pigliato?».

«Madonna, ello è traduto, Iuda sì ll’à venduto; trenta denar’ n’à auto, fatto n’à gran mercato». «Soccurri, Madalena, ionta m’è adosso piena! Cristo figlio se mena, como è annunzïato».43

Durante il Duecento gli artifici metrici impiegati sono molteplici, sebbene non tutti varchino le soglie del secolo, particolare la rima, che era sottoposta a numerose combinazioni. L’intento era sia di dare organicità e unità alle varie forme metriche, sia di mostrare le abilità retoriche e virtuosistiche del poeta.

Oltre alle rime di collegamento fra le varie stanze, riprese dai modelli provenzali, erano di questo periodo le «rime – artificiose», o «tecniche», usate dalla gran parte dei poeti siculo – toscani. Le rime artificiose strutturavano interi componimenti, imprimendo un’aria di straordinario virtuosismo tecnico. Si tratta di rime: ricche; grammaticali; leonina, equivoche e identiche.

a. Rime ricche: tale accezione varia nel tempo. In maniera generica il termine si usa per designare un qualsiasi rinforzo protonico

dell’omofonia finale, per esempio affisa ravvisa44

, in cui c’è il

corrispondersi del primo a, della labiodentale sorda e sonora, e anche del numero di sillabe. In altri casi il termine rima ricca si usa con valore cumulativo, cioè quando si vuole inglobare tutte le varie specie di rime tecniche. La rima ricca era applicata con frequenza nel corso

43

J. da Todi, Laude, a cura di F. Mancini, Laterza, Bari 1974.

44

del Duecento (diletto letto45), andando a essere sempre più sporadica nei secoli seguenti. Nel Duecento aveva un ruolo solo formale, non cercava l’armonia imitativa o il raggiungimento di effetti speciali, come quelli burleschi.

b. Rime grammaticali: definite anche aiectivades46 e derivatius. Il

più antico esempio è in una composizione di Marcabruno “Contra

l’ivern que s’enansa” . Per restare in ambiente italiano si porta un

esempio del Guittone, in cui la rima grammaticale è fra parole con medesima radice ma che si differenziano solo nella desinenza:

Ahi, como ben del meo stato mi pare, merzede mia, che no nd’è folle a paro! Ch’eo mostro amore in parte, che me spare e là dov’amo quasi odioso paro.

Ed emmi greve ciò; ma pur campare vòi dai noiosi e da lor nòi mi paro, ad onore de lei, che ’n beltà pare no li fo Elena che amao Paro.

Or non so perch’eo mai cosa apparasse, s’eo non apparo a covrir, sì non para, ciò che m’aucideria quando paresse. Ma ’l cavaler, che ad armi s’apparasse, com’eo faccio en ciò, sempre campara senza cosa che nente li sparesse.47

Il corsivo evidenzia come la parte invariante par, si ritrovi in rima grammaticale con le desinenze variate in pare paro; apparasse para

paresse.

c. Rima leonina: il suo uso ebbe maggiore fortuna soprattutto in Francia a metà del XII sec. Fra i molteplici significati attribuiti al termine, quello più appropriato per la cultura italiana consiste nel

45

Ibidem, p. 566.

46

Dall’autore del secondo Trattatello di Ripoll, Marshall, 105, cit. in A. Menichetti, Metrica

Italiana, Editrice Antenore, Padova 1993, p. 570.

47

riferimento “a valore di omofonia iniziante dalla vocale protonica (es:

mostrato prostrato, delitto derelitto, pruina ruina)”48

.

d. Rima equivoca e identica: si trovano spesso citate assieme poiché presentano a livello formale una sorta di ripetizione scritta delle due parole rimanti. In realtà in italiano è più corretto distinguere in tre categorie. Le rime equivoche, equivoco – identiche, identiche. Nella prima categoria rientrano quelle parole che, seppure presentino stessa forma scritta, hanno un diverso senso (es. amore vs Amore) e altre che hanno diversa pertinenza grammaticale (es. ora avverbio vs sostantivo). Nella seconda categoria rientrano quelle rime identiche che sono però accompagnate da negazione o precedute da preposizioni diverse (es. attende: non attende nel Sant’Alessio 135 – 36; for carne,

cioè «senza carne» : con carne in Guittone, Altra fiata, Egidi XLIX)49.

Il terzo gruppo, invece, raggruppa tutte quelle parole che nel rimare assieme mantengono un residuo d’identità semantica.

Le rime definite «speciali», sono il più chiaro esempio d’intendere la rima come omofonia pura. Si tratta in particolare di quelle rime che presentano a livello di scrittura un evidente scarto rispetto la regola dei rimanti, e sono quindi prodotto di una diversa percezione fonica di una certa produzione di suoni. Rientrano in questa categoria le rime siciliane e quelle aretine, che sono connesse con le particolarità

fonetiche proprie del “vocalismo di alcune zone d’Italia”50

. Per la rima siciliana si tratta di far rimare la e chiusa con la i, es. avere: servire; e la o chiusa con la u, es. uso: amoroso. Tali rime sono state il prodotto della toscanizzazione di alcuni testi della scuola siciliana. Infatti, nell’originale vocalismo siciliano queste rime nascevano come:

aviri: serviri, usu: amorusu.

Ciò si determinava dal differente vocalismo siciliano che non conosceva la distinzione tra vocali aperte e vocali chiuse. Il copista toscano entrando in contatto col testo del poeta siciliano, cercava di

48

A. Menichetti, Metrica italiana, Antenore, Padova 1993, p. 568.

49

Ibidem, p., 573.

50

riportare le rime sulla base del proprio vocalismo, ecco dunque, che tali rime anomale sono rintracciabili solo in testi toscani.

L’altro tipo di rima «anomala», seguente la stessa dinamica fonica di quella siciliana, è la rima aretina, o guittoniana. Si possono far rimare e aperta con i e o aperta con u, perché sia e sia o sono rispettivamente aperte. Per Guittone D’Arezzo, dire bono: ciascono e

motti: totti è tipico del vocalismo fiorentino. Invece, si scriverà, bono: ciascuno e motti: tutti, secondo il normale vocalismo italiano.