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2.3. Nel Neoclassicismo la rima cede il posto al verso sciolto

2.3.3. Leopardi e la canzone libera

Nel corso dell’Ottocento, la ballata romantica, era uno dei generi più diffusi. In linea con gli schemi lirici di matrice neoclassica, non è una vera e propria forma metrica, ma piuttosto un genere. La ballata romantica, oltre a prendere le mosse in campo contenutistico dalle ballate nordiche (caratterizzate da temi storici – leggendari, direttamente desunti dal repertorio popolare), a livello metrico recuperava la struttura della più tipica ode settecentesca: strofette brevi, con versi allo stesso modo brevi, schemi di rime semplici, tendenza a ritmi scanditi e cadenzati con frequente ricorso, a fine di periodo metrico, o di strofa, al verso tronco.

Giovanni Berchet, Il romito del Cenisio, (sdruccioli e irrelati il secondo e il quinto verso, tronchi il terzo e il sesto):

Viandante alla ventura L’ardue nevi del Cenisio Un estranio superò; E dell’Itala pianura Al sorriso interminabile

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U. Foscolo, Poesie e carmi, vv. 62 - 77 a cura di F. Pagliai, G. Folena e M. Scotti, Opere, Edizione Nazionale, I, Firenze 1985.

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Dalla balza s’affacciò. Gli occhi alacri, i passi arditi Subitaneo in lui rivelano Il tripudio del pensier. Maravigliano i Romiti, Quei che pavido il sorressero Su pe’ dubbi del sentier.120

Luigi Carrer, La vendetta:

Là nel castello, sovresso il lago, Un infelice spirto dimora,

Che ogni anno appare, dogliosa immago, La notte stessa, nella stess’ora,

La notte e l’ora che si morì. Antica storia narra così.

Da me nè un bacio non sperar mai! Agnese al conte dicea secura. Ben tu la vita tormi potrai,

Da che m’hai schiava tra queste mura. Tanto l’inerme donzella ardì!

Antica storia narra così.121

L’andamento ritmico, la struttura interna e anche l’uso di decasillabi, con alternanti settenari, richiamava le tipiche ariette realizzate da Metastasio qualche anno prima. La canzone libera, definita poi leopardiana, sembrava parallela a questo genere benché più libera dai vincoli metrici di forme precedenti. L’aggettivo «libera» presupponeva uno scardinamento della struttura metrica interna della canzone, che la rendeva un componimento chiuso nella sua regolare

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G: Berchet, Il romito del Cenisio, in, Opere, vv. 1 – 12, a cura di E. Bellorini, Bari 1911 – 12.

121

L. Carrieri, La vendetta, in Poeti minori dell'ottocento, a cura di L.Baldacci, Milano-Napoli 1958, pp. 194 – 5.

divisione in stanze, fronte, sirma e con un sempre presente intreccio rimico, che seppur variabile. La canzone si libera così del rigido ordine strofico, e anche della ferrea concatenazione rimica, concedendo una libertà sia all’alternarsi di versi di varia lunghezza, sia alla struttura della strofa. Dante e Petrarca avevano avviato una prima forma di liberazione, rispetto all’organizzazione delle canzoni dei trovatori, limitandosi però, a ristabilire delle nuove e sempre scrupolose regole strutturali, concedendosi delle piccole varianti. Alessandro Guidi nel Seicento fu il primo a comporre canzoni dalle strofe indivise e con un variabile schema di versi. Da cui prese il via la canzone libera ottocentesca che vide il suo massimo esponente in Leopardi.

Giacomo Leopardi ancor prima di giungere alla realizzazione della canzone libera, percorse un cursusu honorum poetico molto simile a quello di Foscolo e Manzoni, sperimentando cioè nella fase iniziale della sua carriera molte forme metriche chiuse, per poi approdare, in una fase più matura, in un genere che si allineava con l’evoluzione metrica della letteratura italiana, e che preparava il terreno alle innovazioni successive. All’inizio si misurava con i metri tradizionali e diffusi della più comune lirica neoclassica, per avvicinarsi poi al genere della canzone, con l’opera, All’Italia.

O patria mia, vedo le mura e gli archi E le colonne e i simulacri e l’erme Torri degli avi nostri,

Ma la gloria non vedo,

Non vedo il lauro e il ferro ond’eran carchi I nostri padri antichi. Or fatta inerme, Nuda la fronte e nudo il petto mostri. Oimè quante ferite,

Che lividor, che sangue! oh qual ti veggio, Formosissima donna! Io chiedo al cielo E al mondo: dite dite;

Che di catene ha carche ambe le braccia; Sì che sparte le chiome e senza velo Siede in terra negletta e sconsolata, Nascondendo la faccia

Tra le ginocchia, e piange.

Piangi, che ben hai donde, Italia mia, Le genti a vincer nata

E nella fausta sorte e nella ria.122

La canzone presentava all’interno dell’intreccio rimico due versi per stanza irrelati, segno di una lenta tendenza a prediligere un andamento meno formale e chiuso. Cominciava così, ad aprirsi verso forme più libere, mantenendosi ancora in quella linea di compromesso che aveva caratterizzato molti poeti seicenteschi, che avevano preferito perseguire l’accordo fra tradizione e innovazione. Leopardi lasciava come espediente di chiusura la clausola che predisponeva la presenza di rima baciata nei distici finali.

Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella Sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta Infinita beltà parte nessuna

Alla misera Saffo i numi e l’empia Sorte non fenno. A’ tuoi superbi regni Vile, o natura, e grave ospite addetta, E dispregiata amante, alle vezzose Tue forme il core e le pupille invano Supplichevole intendo. A me non ride L’aprico margo, e dall’eterea porta Il mattutino albor; me non il canto De’ colorati augelli, e non de’ faggi Il murmure saluta: e dove all’ombra Degl’inchinati salici dispiega Candido rivo il puro seno, al mio Lubrico piè le flessuose linfe

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Disdegnando sottragge,

E preme in fuga l’odorate spiagge.123

Leopardi si liberava così del tutto della struttura strofica delle precedenti canzoni. Le strofe erano costituite tutte da diciotto versi, sedici endecasillabi sciolti, e un distico (settenario più endecasillabo) finale a rima baciata. In base ai suoi caratteri metrici l’Ultimo canto di

Saffo si collegava come genere, ai carmi d’endecasillabi sciolti con

clausola finale in rima, già composti tra il XVI e il XVII sec. dal Rucellai e dallo Strozzi.

Procedendo verso la più totale libertà formale, Leopardi si cimentava in parallelo a queste canzoni anche con la scrittura lirica di puri endecasillabi sciolti. Gli Idilli.

O graziosa luna, io mi rammento

Che, or volge l’anno, sovra questo colle Io venia pien d’angoscia a rimirarti: E tu pendevi allor su quella selva Siccome or fai, che tutta la rischiari. Ma nebuloso e tremulo dal pianto Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci Il tuo volto apparia, che travagliosa Era mia vita: ed è, né cangia stile, O mia diletta luna. E pur mi giova La ricordanza, e il noverar l’etate Del mio dolore. Oh come grato occorre Nel tempo giovanil, quando ancor lungo La speme e breve ha la memoria il corso, Il rimembrar delle passate cose,

Ancor che triste, e che l’affanno duri!124

Da qui approdava alla canzone libera, caratterizzata da una successione di strofe di varia estensione, con libera disposizione di

123

G. Leopardi, Ultimo canto di Saffo, vv. 19 – 36, dal sito www.wikisource.org.

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endecasillabi e settenari, unici elementi ripresi dalla canzone petrarchesca. Leopardi giunse all’apice del proprio percorso poetico realizzando canzoni libere che presentavano elementi di propria

regolarità a “compensare la libertà strutturale”.125

Passata è la tempesta:

Odo augelli far festa, e la gallina, Tornata in su la via,

Che ripete il suo verso. Ecco il sereno Rompe là da ponente, alla montagna; Sgombrasi la campagna,

E chiaro nella valle il fiume appare. Ogni cor si rallegra, in ogni lato Risorge il romorio

Torna il lavoro usato.

L’artigiano a mirar l’umido cielo, Con l’opra in man, cantando, Fassi in su l’uscio; a prova

Vien fuor la femminetta a còr dell’acqua Della novella piova;

E l’erbaiuol rinnova Di sentiero in sentiero Il grido giornaliero.

Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride Per li poggi e le ville. Apre i balconi, Apre terrazzi e logge la famiglia: E, dalla via corrente, odi lontano Tintinnio di sonagli; il carro stride

Del passeggier che il suo cammin ripiglia. Si rallegra ogni core.

Sì dolce, sì gradita Quand’è, com’or, la vita? Quando con tanto amore L’uomo a’ suoi studi intende?

O torna all’opre? o cosa nova imprende?

125

Quando de’ mali suoi men si ricorda? Piacer figlio d’affanno;

Gioia vana, ch’è frutto

Del passato timore, onde si scosse E paventò la morte

Chi la vita abborria; Onde in lungo tormento, Fredde, tacite, smorte,

Sudàr le genti e palpitàr, vedendo Mossi alle nostre offese

Folgori, nembi e vento.

O natura cortese, Son questi i doni tuoi, Questi i diletti sono

Che tu porgi ai mortali. Uscir di pena È diletto fra noi.

Pene tu spargi a larga mano; il duolo Spontaneo sorge e di piacer, quel tanto Che per mostro e miracolo talvolta

Nasce d’affanno, è gran guadagno. Umana Prole cara agli eterni! assai felice

Se respirar ti lice D’alcun dolor: beata

Se te d’ogni dolor morte risana.126

Da notare in questa canzone, come per il Sabato del villaggio, l’estensione breve e a forma allocutiva dell’ultima strofa, che voleva essere una forma di congedo quasi a rispecchiarne la regolarità delle tradizionali canzoni. Il ritmo è fluido e regolare, nonostante l’alternanza di versi variabili e l’assenza di rime. Leopardi calibrò lo scorrere della sintassi e della metrica con l’utilizzo di accorgimenti come assonanze, consonanze e allitterazioni. Il sistema di relazioni foniche era un espediente, assieme alle figure retoriche di ripetizione e

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agli enjambement, che consentivano di far scorrere la materia verbale in modo logico. Questa canzone:

[..] esemplifica con assoluta evidenza la peculiarità e la novità della forma inventata da Leopardi: il metro riesce ad aderire perfettamente al pensiero del poeta, adattandosi ad esso (e non viceversa): questo è il senso ultimo dell’innovazione metrica leopardiana, e da qui parte il filo sottile ma tenace che porta alla libertà novecentesca.127