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2.4. Il Novecento attribuisce un nuovo ruolo alla rima

2.4.2. Pascoli

Meno evidenti le innovazioni introdotte da Pascoli rispetto alla “liberazione della gabbia strofica e dal virtuosismo sintattico, retorico e fonico” del d’Annunzio. Se D’Annunzio era partito dalla tradizione, per cambiarla in forme nuove e più aperte, come se volesse allinearsi con lo stream of consciousness di Joyce e della Woolf in campo prosastico (quindi dall’interno verso l’esterno); Pascoli rimase fedele alla tradizione, partiva dal suo interno e vi s’addentrava ancora di più. Esplorava sempre più nell’interno, quasi a voler individuare la sorgente e la linfa di quella tradizione che non rifiutava ma indagava nelle sue pieghe più profonde, come se cercasse il seme da cui nasceva tutto il meccanismo poetico. Il costante uso che egli fece della rima era in linea con quest’inclinazione al recupero della tradizione. Non era messa in discussione ma conservata siccome calco, e fossile, del più profondo legame popolare. Conoscere nel dettaglio il campo metrico – tradizionale, gli permetteva di attuare, in contemporanea, un movimento innovativo, più sottile e calibrato, ma che fu poi preso a modello da una notevole schiera di poeti novecenteschi.

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La rima conosciuta nella sua più intima essenza era piegata, con sapiente intuizione, a giochi, non strutturali ma ritmici e fonosimbolici che caratterizzano lo spirito pascoliano.

Italy, Primi poemetti, 1904:

Oh! No: non c’era lì né pie né flavour Né tutto il resto. Ruppe in un gran pianto:

«Ioe, what means nieva? Never? Never? Never?»

Oh! No: starebbe in Italy sin tanto

Ch’ella guarisse: one month or two, poor Molly! E Ioe godrebbe questo po’ di scianto!148

Qui l’anomalia è evidenziata dall’inserimento di parole inglesi spesso collocate in posizione rimante. Nonostante l’insolita presenza di parole straniere, non si tralasciava il rigore metrico e prosodico, che era contenuto all’interno della struttura della terzina. La stessa cosa succedeva con la rima ipermetra che nell’ultima strofa del Gelsomino

Notturno è corretta con l’espediente dell’episinalefe: Ѐ l’alba: si chiudono i petali

Un poco gualciti; si cova, dentro l’urna molle e segreta, non so che felicità nuova.149

Pascoli sapeva giocare in modo sapiente con le forme metriche più popolari che il maestro Carducci gli aveva fatto conoscere.: ballate, madrigali, terzina e sonetto, tutti realizzati lasciandosi guidare dal suo istinto fanciullesco. Pascoli nella realizzazione dei suoi componimenti si allineava con il proprio «io - bambino», e la sua infantile curiosità gli faceva strada verso il recupero e la riscoperta della semplicità delle

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Cit. G. Pascoli, in, P. Giovanetti, G. Lavezzi, La metrica italiana contemporanea, Carocci editore, Roma 2010, p. 92.

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cose, ma concrete nel loro aspetto quotidiano. Nel suo essere poeta – fanciullo si trovava a contatto con la natura, con le piccole e quotidiane difficoltà, e meraviglie, che l’ambiente, in particolare l’ambiente popolare, contadino e familiare, gli riuscivano a trasmettere. I suoi madrigali avevano allora l’eco di un canto popolare marchigiano come in Lavandare:

Nel campo mezzo grigio e mezzo nero resta un aratro senza buoi, che pare dimenticato, tra il vapor leggero. E cadenzato dalla gora viene lo sciabordare delle lavandare con tonfi spessi e lunghe cantilene: Il vento soffia e nevica la frasca, e tu non torni ancora al tuo paese! Quando partisti, come son rimasta! Come l'aratro in mezzo alla maggese.150

La ballata del Passero solitario nasceva camuffata, e in una poesia come Sere festive si alludeva un andamento ritornellante da poesia popolare nonostante fosse garantita l’autosufficienza strofica. Le rime non erano preziose ma facili e quasi incolte:

O mamma, o mammina, hai stirato la nuova camicia di lino ?

Non c'era laggiù tra il bucato, sul bossolo o sul biancospino. Su gli occhi tu tieni le mani. . . Perchè? non lo sai che domani ... ? din don dan, din don dan.

Si parlano i bianchi villaggi cantando in un lume di rosa: dall'ombra de' monti selvaggi

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si sente una romba festosa.

Tu tieni a gli orecchi le mani... tu piangi; ed è festa domani. . din don dan, din don dan.

Tu pensi . . . oh! ricordo: la pieve . . . quanti anni ora sono ? una sera . . il bimbo era freddo, di neve; il bimbo era bianco, di cera: allora sonò la campana (perchè non pareva lontana ?) din don dan, din don dan.

Sonavano a festa, come ora, per l'angiolo; il nuovo angioletto nel cielo volava a quell'ora; ma tu lo volevi al tuo petto, con noi, nella piccola zana: gridavi; e lassù la campana. . . din don dan, din don dan.151

La punteggiatura, spesso incalzante, aveva lo scopo di creare una destrutturazione sintattica, che permetteva d’isolare nell’insieme le parole, dando ad ognuna il rilievo, pur non trovandosi a fine verso, che si meritava, soffermandosi e rivalutandola a livello semantico – emotivo. Pascoli impiegava la rima non soltanto nelle poesie dal più chiaro richiamo popolare, come in Myricae ma ne faceva uso anche nel recupero della struttura classica, rendendola così più complessa. Mentre d’Annunzio attraverso la metrica libera esprimeva il prevalere della natura sulla cultura, andando così a incrementare il tema dell’immersione «panica»; Pascoli prediligeva il recupero reinventato di semplici aspetti tradizionali, che gli permettevano di ricreare quella «naturalezza» insita nella sua prosodia.

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Da loro prendevano avvio due percorsi di alternativa innovazione lungo il Novecento, strade che attraverseranno con fiorente innovazione tutto il ‘900, divenendo così i cardini di correnti che furono arricchite, modificate e rivestite, di quelle cariche emotive e ideologiche che scossero tutto il secolo.