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Trattando di dissociazione nei bambini, Patrick Boumard7 parla di dissociazione come

stesso Autore individua due forme in cui sezionare ulteriormente la dissociazione-realizza- zione, definita come il libero svilupparsi di tutte le possibilità di un individuo: dissociazione- inventata e dissociazione-indotta. Si tratta di un passaggio assolutamente azzeccato! Un passaggio dal quale non terremo fuori Harris8, che nel suo fondamentale saggio sull’im-

maginazione scandisce tre vie attraverso le quali il gioco simbolico può manifestarsi: vie che sono altrettante possibili suddivisioni della dissociazione-inventata di cui si parlava sopra. Il bambino, scrive Harris, potrà usare direttamente se stesso come sostegno per il suo gioco (gioco a supereroi: io stesso sono il supereroe), oppure userà un pupazzo o un qualsiasi altro oggetto materiale insignito di tale potere dal bambino (gioco a supereroi: questo e quest’altro pupazzo sono supereroi), oppure non individuerà alcun sostegno ma- teriale se non nell’immaginazione (gioco a supereroi: c’è un supereroe vicino a me, solo che voi non riuscite a vederlo!). Se queste sono le dissociazioni-inventate verso le quali naviga istintivamente ogni bambino nel momento del gioco, quelle indotte di cui parla Boumard sono invece riconducibili a casi simili a quello del sindaco, nei quali è l’adulto a preparare e azionare il dispositivo dissociativo che cattura tutta la sua attenzione. E poi ci sono le dissociazioni-rimedio, quelle che vanno a sostituire messaggi impossibili da dire o comprendere per il bambino, che si trova a dover usare la dissociazione quale ultimo mezzo efficace, spesso approfittando delle possibilità conoscitive da essa offerte. Il bam- bino è molti, scrive Boumard, e su questo concordano tutti i teorici della dissociazione e gli psicologi dello sviluppo, a partire da Vygotskij, che considerano positivamente il gioco simbolico. È molti, anzitutto, nel gioco, attività che ogni bambino predilige sopra ogni altra e che esercita sempre seriamente, ma anche mentre è intento a eseguire un compito asse- gnatogli da un genitore o da un maestro. Semmai si potrà ondeggiare tra il credere che il bambino imiti, simuli o in un certo modo sia davvero i molti che attraversano il palcoscenico della sua coscienza, ma non si potrà dubitare sull’importanza evolutiva di un’attività che ci ha resi, in parte, padroni del nostro futuro, e quindi liberi.

Se, dunque, da un lato, abbiamo la dissociazione-inventata, della quale abbiamo riper- corso la storia fino a risalire alla sua originaria utilità biologica, dall’altro abbiamo la disso- ciazione-negata, condizione nella quale si ritrovano pressoché tutti i bambini, non appena varcano l’ingresso dell’istituzione scolastica e in certi casi della loro comunità d’appar- tenenza. Dissociazione-negata, dunque, non un’assenza di dissociazione (quest’ultima, come abbiamo visto, non può mai essere eliminata del tutto) oppure, ancor meglio, dis- sociazione-indotta-a-negarsi, a transitare attraverso un percorso obbligato, a fissarsi, a diventare identità. «La scuola», scrive Boumard, «riduce, canalizza e poi nega ciò che, al contrario, si può riconoscere e incoraggiare come dimensioni multiple e dissociate della psiche»9. L’attitudine naturale dei bambini a passare da un luogo psichico a un altro, che

potremmo considerare come la maniera ordinaria di funzionare di un organismo che basa la sua sopravvivenza su certe facoltà mentali di ordine superiore, piuttosto che sulla forza

8 Harris, P. L., The work of the imagination, Blackwell, UK, 2000.

fisica, viene quindi ridotta e impoverita a favore di un’identità razionale e non contraddit- toria, destinata a dedicarsi a un compito, a occupare un posto preciso nella società, in ottemperanza alle dispozioni di un bieco imperialismo sulle vite: continuità, omogeneità, razionalità. È a questo punto che si inserirebbe l’interessante valutazione dell’istituzione scolastica e nello specifico dell’ambiente di classe, che toccherebbe ogni aspetto, dall’ar- chitettura al design, dal significato educativo di certe scelte alle sperimentazioni più in- novative. Il banco, quale precursore della scrivania; la cattedra che anche se non c’è è sentita dagli alunni; l’uniforme che i bambini indossano; il tentativo di regolamentare gli spazi e i comportamenti, gli usi e i costumi. Non basterebbe un manuale per parlare di uno soltanto di questi elementi.

Il bambino, dunque, è molti, ma non tutti i bambini rivelano sempre una personalità secon- daria. A scuola, ad esempio, alcuni preferiscono sottomettersi al discorso dell’omogeneità razionale proposto dall’istituzione, comportandosi in tutto e per tutti da alunni (compito difficile, specialmente per alcuni), ma conservando momenti privati di gioco durante i quali esplorare i possibili ed essere altro da sé. Si tratta, in ogni caso, di personalità essenziali al loro sviluppo neuropsicologico, tollerate nei nidi e nelle scuole dell’infanzia, ma perlopiù rifiutate alla primaria. Personalità che essi non possono controllare, ma che la scuola deve forzatamente negare, dal momento che sceglie d’inseguire uno stereotipo evolutivo, una tipicità dell’identità. Ma perché parlare di scuola? In spiaggia, in piazzetta, nei giardinetti o al chiuso delle camerette la dissociazione si realizza ugualmente, mediata da particolari tipi di giochi che abbiamo scelto di chiamare giocattoli-poi, in opposizione ai giocattoli- ora, quelli favoriti dall’istituzione e tollerati nelle agognate ricreazioni. Il motivo è semplice e può essere così riassunto: la scuola, in quanto istituzione, svolge un ruolo importante nel trattamento della dissociazione nei bambini. Un ruolo preminente, in molti casi, persino rispetto a quello della famiglia, dal momento che i bambini a scuola ci passano la maggior parte dell’anno ed è lì che trasferiscono molte delle loro spinte vitali. Spinte che affermano “io sono qualcuno, e anche qualcun altro” e che puntualmente vengono ricacciate indie- tro: «non ci si comporta così! Siamo a scuola!». Mal comprendere il significato del gioco e il valore della dissociazione, vuol dire mettere il bambino nella condizione di non poterla utilizzare e vivere come risorsa a scuola, bensì come sofferenza, dramma, a motivo di una irragionevole resistenza.

C’è da dire che solo visitando centinaia di classi è stato possibile rendersi conto di come questa situazione sia straordinariamente diffusa e di come lo spettacolo dell’educazione si replichi, dappertutto, senza soluzione di continuità. Solo toccando con mano l’omogeneità dei caratteri e delle intelligenze che l’istituzione scolastica genera ovunque abbia modo di stabilirsi, si è potuta tratteggiare la complessità del fenomeno davanti al qual si è fermi oramai da troppo tempo. Solo iniziando a considerare la dissociazione ordinaria come

un meccanismo fondamentale attraverso il quale l’essere umano acquisisce conoscenze determinanti su se stesso, sugli altri e su entrambi in relazione, e poi sul mondo esterno, si è potuta giustificare la facilità con la quale i bambini passano da un sistema relazionale a un altro (attività che l’adulto non più abituato riesce a fare soltanto con estrema difficol- tà). Vivere come, per l’organismo, equivale a essere. Se vivo come un alunno, un pirata e un motociclista, io sono un alunno, un pirata e un motociclista. Chi può arrogarsi il diritto d’interrompere il come, se questo è il solo mezzo che l’essere, il mio essere, possiede per condurre i suoi esperimenti mentali? E che significato avrebbe domandare a qualcuno se è più alunno, pirata o motociclista? “Qualcuno e qualcun altro”, sarebbe la sola risposta accettabile a una simile domanda, e i bambini non fanno certo fatica a formularla.

Il bambino che è molti, ha molte più frecce al suo arco. Nelle situazioni in cui egli è, nello stesso tempo, qualcuno e qualcun altro, si ritrova a possedere una molteplicità di punti di vista sulla realtà. Riesce a interpretare la parte del cattivo, ma a comprendere profonda- mente il punto di vista del buono, dell’eroe, a vedere con gli occhi dello spettatore, della fanciulla che domanda di essere salvata, del malvagio nascosto nelle retrovie della bat- taglia; riesce a catturare la mente del cavallo che accompagna il cavaliere all’assalto, del mostro nascosto nel buio, della vespa che ronza sopra il glicine fiorito. Trovando la manie- ra di superare lo choc causato dall’attrito tra la realtà (complessa) che ci circonda e l’inter- pretazione (lineare) che noi troppo spesso ne diamo, egli riesce a sopravvivere piuttosto bene. La dissociazione è la maniera di esistere più frequente del bambino, l’unica che gli garantisce un apprendimento panoramico ad alta definizione della realtà. Senza la disso- ciazione, egli si ridurrebbe a essere uno specialista perso tra miliardi di input provenienti da ogni direzione, incapace di mettere insieme gli infiniti pezzi del puzzle. Potremmo dire che l’unicità è antiquata in un mondo fatto di relazioni, dove gli oggetti istanziano, di giorno in giorno, nuove proprietà e rivelano impreviste sfaccettature. Ecco perché i bambini di 3, 4 e 5 anni sono più vivaci nel ragionare, nel trovare soluzioni, nel rispondere efficacemente a richieste che reclamano un’intelligenza creativa, perché non hanno ancora chiuso a chia- ve la loro capacità di dissociarsi a scapito di una personalità unitaria legata al loro essere alunni perfettamente integrati nel sistema. Quando devi stare attento a stare attento, il tuo fisico si affatica enormemente. Reggere un personaggio non è semplice, soprattutto se l’ansia da prestazione si manifesta già a 8 anni. La scuola, quale istituzione preposta alla formazione, trasmette conoscenze, certo, ma soprattutto abitudini di pensiero e credenze finalizzate a mantenere salda l’organizzazione della società. Una di queste abitudini con- siste nell’insegnare ad attendere la risposta dell’insegnante, la sua approvazione, la sua ultima parola; un’altra, a non fare due cose contemporaneamente; a rispondere in maniera precisa, senza divagazioni. Si tratta di meccanismi che vanno analizzati e migliorati.