D’accordo con P. Boumard, che scrive: «il bambino è spontaneamente dissociato, egli vi- ve diversi personaggi, e si adatta alle situazioni provocate dagli adulti, cambiando sempre di ruolo»1, ci sentiamo di poter aggiungere qualche elemento alla riflessione sui compor-
tamenti dissociati, sulla base degli studi e delle esperienze maturate nel corso degli ultimi anni in compagnia di bambini della scuola dell’infanzia e della scuola primaria.
Anzitutto, un dato incontestabile: la facilità con la quale i bambini s’identificano con perso- naggi, siano essi immaginari o reali. Si tratta, forse, di una delle più semplici osservazioni che è possibile raccogliere stando a contatto con loro. La straordinaria semplicità con cui riescono ad assumere ruoli, per quanto complessi possano essere, gestendoli con impec- cabile coerenza, è assolutamente invidiabile. Malgrado l’incredulità degli adulti e il timbro irrazionale di tutta la faccenda, infatti, essi scelgono sempre la maniera migliore di appro- priarsi di un carattere, modificando il loro tono di voce, il vocabolario e la gestualità che accompagna la verbalizzazione, le movenze, lo stile, le emozioni e molti altri elementi che insieme concorrono a sostenere l’interpretazione e la credenza di cui essa si nutre. Un leo- ne è coraggioso, lo sanno tutti. Nell’interpretare un leone, un bambino assumerà, dunque, un po’ del suo coraggio e sarà coraggioso, non potrà non esserlo. Nel caso scegliesse d’interpretare un leone fifone dovrà dichiararlo ai presenti, per evitare fraintendimenti. In tutto ciò, la difficoltà, se c’è, consiste nel capire che il bambino non sta recitando una parte. A differenza di un attore, che impara un testo e lo mette in scena, il piccolo non ha copione e soprattutto non ha coscienza della distanza che lo separa dal personaggio che ha scelto d’impersonare, o meglio, che lo possiede. Egli è veramente quel personaggio! È leone, cavallo, aquila, mamma, poliziotto, vigile del fuoco, supereroe, dinosauro, zombie, e così via. Vive le sensazioni del carattere che impersona, le sue emozioni, i suoi drammi; ne acquista le capacità (il potere causale), l’esperienza, i ricordi, perdendone di conseguen- za altri. Immaginiamo, ad esempio, un bambino che scelga d’essere un cavallo. Il cavallo è erbivoro e va ghiotto di carote. Il bambino che lo impersona, molto probabilmente, man- gerà tutta la verdura senza lamentarsi, rifiutando però la carne che ha sul piatto, perlomeno finché starà nella parte. Anziché convincere un bambino che la verdura è buona e che
fa bene mangiarla, è più semplice giocare a Collo Lungo: la passione per l’insalata sca- turirà di conseguenza. Un bambino, lo sappiamo, può impersonare un dinosauro, come qualsiasi altro personaggio, per settimane, mesi, se non di più. In quel periodo, state certi, prediligerà la verdura e rifiuterà altri cibi. E magari proverà a mangiarla stando in piedi, con la bocca appoggiata direttamente nel piatto!
Quello che ci colpisce e ci interessa sottolineare riguardo al gioco dei cavalli, come a quel- lo del pirata, o del supereroe, è il bambino che nell’atto di vivere i suoi personaggi esibisce conoscenze che in parte ha lui stesso contribuito a creare e in parte ha derivato da ciò che già sapeva o che solamente intuiva o credeva di sapere a riguardo. Lobrot2 chiama
questo fenomeno autonomia degli stati dell’io, Liotti3 apprendimento stato-dipendente. Ciò
non toglie che, al di là di come decidiamo di definire tale meccanismo, il risultato è che ci troviamo di fronte a un bambino che è riuscito, apparentemente senza sforzo, a ottenere conoscenze di varia natura su una realtà che di certo non gli appartiene direttamente e del- la quale, è probabile, non ha neppure mai fatto esperienza. Cosa ne può sapere un bambi- no di come si sente un ladro prima di una rapina in banca o dopo essere stato catturato e messo in prigione? E per quale ragione dovrebbe provare piacere a interpretare la parte di un pirata spietato e al contempo gentile con i più sfortunati? Chi mai gli ha insegnato a en- trare nella mente di uno sconosciuto o di un animaletto, alla ricerca dei suoi stati d’animo, del suo vocabolario, dei suoi modi di dire e toni di voce? Gli interazionisti come Goffman4
portano avanti una spiegazione davvero interessante basata su un’evidenza certamente incontrovertibile: ciascun individuo si crea dei ruoli in funzione del diverso pubblico che ha di fronte. “Si può dire in pratica che ciascuno ha tante diverse personalità quanti sono i gruppi sociali distinti, la cui opinione conta ai suoi occhi”5.
All’interno di questo discorso, stranamente, il bambino fa eccezione. Nel suo caso, infatti, a mancare è proprio il pubblico, gli astanti! Le migliori performance, come sappiamo, egli le realizza da solo, al chiuso della sua cameretta o al massimo in giardino, con fratelli o sorelle, o con un piccolo gruppetto di amici; di certo non di fronte a gruppi sociali distinti, come nella spiegazione dei sociologi. È chiaro che occorrerà approfondire ulteriormente l’indagine. Se, da un lato, l’approccio interazionista ci ha aiutato a considerare la molte- plicità come un fattore e una risorsa indispensabile dello sviluppo, dall’altro non è bastato a raccogliere la complessità di ciò che siamo e per questo bisognerà procedere innanzi. Ripartiamo, perciò, dal considerare che il bambino non imita e neppure simula un ruolo. Egli lo realizza, lo crea. I suoi personaggi sono fortemente coerenti: hanno una personalità, un complesso di stati d’animo, di comportamenti, di modi di dire, di abitudini, preferenze, finanche a un timbro e un tono di voce. Ogni più piccolo particolare aderisce a un signi- ficato preciso all’interno di una visione complessa che il bambino ha del carattere che ha scelto d’impersonare o che ha inventato da cima a fondo. Nulla resta senza risposta. Al
massimo può rimanere fuori dalla consapevolezza, allo stesso modo in cui ciascuno di noi non è costantemente cosciente d’essere uno a cui piace il gelato alla fragola, a meno che non ci pensi o qualcuno non glielo faccia presente. A domanda, è sicuro, risponderebbe: «il mio gusto preferito è la fragola!». Dubito, però, che tale risposta gli fosse presente un istante prima della domanda. Allo stesso modo, il bambino, pur non avendo in mente un personaggio, risponde in maniera pertinente a richieste di quel genere, affermando, ad esempio, che al ladro Tony piace il pistacchio e lo mangia sempre nella coppetta, mentre Spider-Man sopporta di buon grado gli scherzi, ma detesta chi lo prende in giro.