Non tutti i giocattoli sono uguali. Ci sono giocattoli ora e giocattoli poi. I primi non occupano tanto spazio e nella maggior parte dei casi li si riesce ad afferrare con una mano. I secondi, invece, sono ingombranti e in certi casi perfino pericolosi. Un set di pentole e pentolini, un trattore con rimorchio, un piccolo carrello per la spesa che diventa una navicella spaziale giù per la discesa dietro casa. Un arco giocattolo, con fodero e frecce, per abbattere all’istante centinaia di bisonti immaginari. I giocattoli ora sanno sempre cosa dire, conoscono poche frasi e le ripetono instancabilmente, ancora e ancora. I giocattoli poi parlano la lingua di chi li possiede, chiacchierando del più e del meno quando gli capita di annoiarsi, quando all’oriz- zonte non si scorgono avventure. In quei casi, però, assumono un vocabolario assolutamen- te adeguato alla situazione: sofisticato se sono spie internazionali alle prese con un mistero da scoprire; appena volgare se fanno la parte di ladruncoli in fuga dal solito supereroe.
I bambini armano soldatini di ferro e li preparano alla prossima battaglia, fingono di mettere a bollire l’acqua sul fornello di plastica e accomodano su seggioline i loro amici di peluche per servirgli il tè delle cinque. Usano pentole capovolte e compongono note musicali con bottigliette schiacciate; allestiscono pareti di cartone attaccandole col nastro adesivo e poi le decorano coi pastelli per inscenare il loro spettacolo. «Stanno solo giocando» dicono le mamme. Ma non è un gioco: è la realtà, la loro! In quel “solo”, detto troppo alla leggera, si na- scondono un’infinità di mondi, più o meno coerenti, più o meno agganciati al quotidiano, ma sempre legati a doppio nodo alla vita. Le mamme possono stare tranquille: i bambini sanno distinguere la realtà dalla finzione. Ma si dilettano ugualmente, come pochi altri, a esplorare i possibili, a percorrere i sentieri della loro fantasia, a interpretare i simboli, le parole. Il gioco, attività distintiva dell’infanzia, veicola attraverso i loro sguardi e le loro mani secoli di storia e prima ancora millenni di evoluzione. Tra una partita a nascondino, una festa di compleanno per un amico immaginario e un “facciamo finta che”, si disvelano le più antiche immagini, i più antichi ricordi di un individuo, ma anche dell’intera specie umana. Nel gioco simbolico, quando si è contemporaneamente se stessi e anche “altro”, si sperimenta in anticipo ciò che sarà naturale, poi, provare da adulti. Ci saranno complicità e cooperazione, solitudini e allon- tanamenti, sfide, amori, inganni, rispetto, ribellione, ubbidienza e fuga. Ci sarà il tentativo di attribuire un senso agli ordini ricevuti e un significato alle richieste che già iniziano a fioccare da tutte le parti, ma anche tanta destrezza nel modificare a piacimento le regole dei giochi, per vedere cosa cambia, per trovare nuovi spiragli d’azione alle parole che ancora non si conoscono. È raro sentir dire da un bambino: “non voglio più giocare”. Tutt’al più: “non voglio più giocare a questo gioco”. Con loro il passaggio da un’attività all’altra è un riadattarsi della scenografia, indossare gli abiti del nuovo personaggio, entrare nuovamente in scena.
I bambini sanno giocare da soli, costruendo ciò di cui necessitano per mettere in scena la lo- ro rappresentazione, oppure, il più delle volte, semplicemente istituendolo. Ecco perché non li si vede esitare neppure un secondo a fare di un cucchiaio uno specchio, o di un legnetto una macchinina o uno spadino. Istituire è di gran lunga più facile che costruire. Decidere che un sasso è una macchinina, è molto più semplice che trovare la maniera di costruirne una. Ma i giochi sono anche oggetti modellati dagli adulti per il divertimento dei loro bam- bini: prendi un gioco, osservalo attentamente e intuirai il fine per il quale è stato costruito e le potenzialità in esso contenute. Detto ciò, a costo di risultare antiquati, non si potrà non sottolineare che la spinta ideale che un tempo guidava la mano di chi costruiva giocattoli sembra essersi irrimediabilmente perduta, anzitutto, con l’avvento dell’industria e la fabbri- cazione in serie dei sogni dei bambini, poi, con la crescente disattenzione nei confronti della finzione da parte degli adulti. La maggior parte dei giocattoli poi che stimolano la fantasia e l’esplorazione non esiste più, sostituita dai giocattoli ora che “obbligano” i bambini a gode- re dell’acquisto in un’unica maniera. Entrare in un negozio di giocattoli, per un bambino, è sempre un’esperienza fantastica e ricca di stupore. Tutte quelle cose appese sugli scaffali
lo fanno viaggiare in un universo di possibilità non ancora realizzate. Ma l’adulto dovrebbe fare attenzione a ciò che vede attorno a sé. Scatole troppo grandi per giochi troppo piccoli; plastica e cartone che una volta gettati via abbandonano il giocattolo al palmo di una mano. Alle sfumature si sostituiscono colori sgargianti che attirano immediatamente l’attenzione, ma inquietano, agitano e presto stancano. Si tratta di costruzioni con le quali realizzare l’im- possibile, accompagnate da istruzioni dettagliatissime che spiegano, passo dopo passo, cosa fare e cosa non fare. Bambole parlanti che danno cinque risposte diverse, obbligando i bambini a porre solo cinque domande. Caratteri a cui non manca nulla, che catturano l’at- tenzione dell’ora, ma annullano l’interesse nel poi.
In conclusione, se è vero che non c’è nulla di diverso tra due bambini che fingono di essere dei pesci e di vivere in fondo al mare, e un adulto immerso in un romanzo d’avventura, che assume i panni del protagonista per entrare ancor meglio nella vicenda. Se non c’è differen- za tra una bambina che finge di cucinare il pranzo per il suo cagnolino immaginario e una ragazza che immagina cosa sarebbe successo se fosse uscita con quel ragazzo due mesi prima. Si vagliano situazioni, si fanno esperimenti, si ragiona sul possibile, sul non accaduto, si fingono possibili e si ripetono controfattuali, per poi decidere il da farsi o semplicemente per cullarsi nel pensiero di un mondo che non c’è mai stato. I bambini, nel gioco, possono permetterselo, sempre, senza conseguenze. Quello è il loro lavoro, è lì che imparano a vi- vere; l’adulto non dovrebbe interrompere la magia di quei giochi. Non dovrebbe ostacolare i bambini con imperativi o ricatti. La dissociazione, palesata dal loro “facciamo finta che...”, non deve sbiadire.