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l ’ elezione del sindaco nella classe

In una classe prima (bambini di 6 anni) m’invento un gioco grazie al quale alla fine potrò eleggere un sindaco. Li convinco che farò loro delle domande alle quali dovranno rispon- dere disegnando e da cui sarà possibile capire chi tra loro è più responsabile, generoso, scaltro e coraggioso, così da poter infine nominare un responsabile di classe, un custode che mi assisterà nelle lezioni, da lì in avanti per tutto l’anno. Per dare importanza alla cosa spendo tante parole. Anzitutto fingo di essere spaventato dall’imminente elezione. Dico ai bambini che dovrebbero sperare di non essere nominati anziché desiderarlo, perché es- sere sindaco è un peso, una fatica che non tutti sono in grado di sopportare, un compito pieno di soddisfazioni ma anche di insidie. I bambini non stanno più nella pelle: impauriti all’idea di essere chiamati e al contempo desiderosi di ricoprire quel ruolo. Con tutta la recitazione di cui sono capace li invito a prepararsi all’investitura, all’arduo compito che stanno per guadagnare. Nessuno conosce ancora l’identità del sindaco, «neppure io», dico, quindi è bene che ciascuno si concentri in vista del compito, mantenendo il silenzio e l’attenzione sulle proprie emozioni e reazioni. Mentre glielo dico, intravedo qualcuno che già inizia a prepararsi: certi si sistemano sulla sedia, altri mettono in ordine il proprio banco, alcuni alzano la mano attendendo di essere interpellati per chiarimenti. L’elezione, infine, avviene nell’eccitazione generale, al termine di un’ora di laboratorio durante la quale i bambini si sono impegnati a fondo sul compito che gli era stato assegnato. Lascio la clas- se applaudendo assieme agli altri all’elezione del sindaco, il bambino o la bambina che più degli altri so aver bisogno di una motivazione ulteriore, di una spinta ad affrontare un contesto che per come è strutturato, nel bene e nel male, lo penalizza lasciandolo spesso ai margini dell’azione, che non riesce ad afferrare con la decisione di cui sarebbe capace. Il seguito del racconto riguarda i comportamenti dissociati. Torno nella stessa classe dopo circa una settimana. Il nuovo sindaco, nonostante la timidezza di partenza, ci ha messo davvero poco a “insediarsi” come si deve. Lo scorgo immadiatamente. Qualcosa nel suo

modo di stare sul banco è cambiato: la posizione è più sicura, meno rigida. La gamba pie- gata e tenuta appoggiata sulla sedia indica la volontà di alzarsi, agire, comunicare il pro- prio sentire e volere. Gli occhi curiosi e le mani che li accompagnano, mentre lo sguardo si fa responsabile di ciò che accade intorno, anche lontano, dall’altra parte della classe. Met- to un piede dentro la stanza e subito tre, quattro bambini mi si fanno incontro: «il sindaco! C’è il sindaco hai visto?». Io confermo di averlo già adocchiato e chiedo loro come si sta comportando. Parlo a bassa voce, come ad aspettarmi una confidenza da parte loro. «Be- ne!», dicono. «È bravo, controlla che tutto vada bene, come gli hai detto tu!». Meravigliato dello stuolo di collaboratori che lo acclamano, felici della sua nomina, vedo che si alza e mi si fa avanti con un portamento che stento a riconoscere! «Buongiorno Signor Sindaco», dico, mentre lui, accennando un saluto, mi passa un piccolo quadernino. Lo apro e scopro che si tratta di una specie di diario sul quale cerca di appuntare tutti i fatti rilevanti che, di giorno in giorno, accadono in classe, positivi e negativi: «il lavoro di un sindaco, tenere gli occhi aperti!», avevo detto la volta precedente, consigliandogli di predisporre un blocchet- to di appunti per non perdersi gli avvenimenti salienti della vita di classe. Ed ecco qua un oggetto che solo lui possiede e che gli permette di fare ritorno nel personaggio, ogniqual- vota ne sente la necessità. Un quaderno sul quale gli altri bambini fanno a gara per finire, richiamando l’attenzione del sindaco su di loro, pregandolo di appuntarsi ciò che fanno di buono o andando da lui per fargli delle confidenze su cose che hanno visto o sentito. La maniera migliore di allenare le capacità relazionali di quel bambino: metterlo a parte di una marea di informazioni che riguardano persone (cose che fanno, rapporti che hanno, e così via). Scorro velocemente i giorni e leggo di qualcuno che ha aiutato qualcun altro a fare i compiti, di giornate tranquille, di altre noiose, di parolacce volate durante la ricreazione, di zuffe in giardino. Tutto rigorosamente scritto in rosso, poi in nero, con i pennarelli, gli errori, i giorni mescolati: dal mio punto di vista, un risultato notevolissimo!

Col passare dei giorni, poi, scopro che il personaggio del sindaco, che il bambino rive- ste a seguito di un’investitura collettiva, funziona per lui come una risorsa importante, sia a scuola che in famiglia e non finisce di generare nuovi meccanismi e aprire la strada a nuove possibilità. A casa, come in classe, ogni tanto compare, con tutto ciò che questo comporta e che si è cercato di raccontare fin qui. E il piccolo diventa sindaco, è importante sottolinearlo, non nel senso di uno che “veste i panni di”, recita o simula, ma di uno che lo è per davvero, seriamente, anche se questo può apparire difficile da accettare per un adulto che ha dimenticato la sensazione di giocare seriamente. Lo diventa così tanto che questa sua nuova personalità-risorsa riesce a influire fortemente su numerosi aspetti della sua identità di base, ed è proprio questo l’importante. Se guardiamo agli aspetti conoscitivi, ad esempio, noteremo che la nuova personalità avrà sicuramente avuto il merito di motivare il bambino a informarsi, a interessarsi al suo ruolo, a immaginarselo, così da aiutarlo a im- padronirsene sempre meglio. Da un punto di vista sociale, poi, specialmente in riferimento

alle sue capacità relazionali, gli avrà fornito un appoggio eccellente sul quale basare, in tutta sicurezza, la voglia di intessere relazioni con gli altri, di intervenire nelle discussioni, di esserci. Momenti che un tempo potevano risultare problematici, gestiti a partire da una condizione diversa, nuova, operante a partire da premesse alternative, diventano accessi- bili anche da parte di chi, se lasciato solo ad affrontare la situazione, avrebbe fatto difficoltà a recuperare le energie necessarie per tirarsene fuori. Se pensiamo a un leone, fatte salve ipotesi diverse e ben specificate, non sarà certo un felino timoroso o arrendevole: questi modi di essere non fanno parte delle sue premesse e noi lo sappiamo (pur senza doverci stare a ragionare). Quando il bambino è leone assume quegli atteggiamenti in maniera na- turale, senza doverci riflettere! E graffia, morde, si apposta dietro i mobili, lanciandosi all’at- tacco senza tirarsi mai indietro. Ma ciò che accade in seguito, dentro di lui, è, se possibile, ancora più straordinario! L’identità del bambino, che si costruisce a partire da premesse che vanno a incastonarsi su un substrato fisico fatto di interazioni tra il proprio corpo e i corpi e i soggetti esterni, obbligata a vagare alla ricerca delle migliori soluzioni disponibili e a trattenere ciò che sperimenta come più efficace per sé, evita (grazie al meccanismo dissociativo mutuato dal gioco di finzione) di fossilizzarsi anticipatamente in costruzioni limitanti. La dissociazione, come nel caso del bambino che è sindaco, agisce come una potente risorsa su più livelli, facendogli sperimentare la sensazione di essere-per-davvero e dunque di poter-essere quello che può farlo stare meglio.