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Dai due ai sette anni di età, secondo ciò che dice Piaget8, assistiamo gradualmente all’in-

teriorizzazione dell’azione (massimo frutto dell’intelligenza senso-motoria), grazie alla me- diazione della funzione semiotica che comincia a emergere nel bambino. È in questa fase, nella fase pre-operatoria, che hanno inizio le attività simboliche: tipi di pensieri intuitivi che nutrendosi di rappresentazioni, linguaggi inferenziali, imitazioni, giochi ed espressioni iconi- che, avanzano verso il traguardo operatorio della reversibilità, posto in chiara successione da Piaget. In altre parole, il bambino recupera le proprie conquiste senso-motorie: gli og- getti, lo spazio, il tempo, la nozione di causa ecc., cercando poi di organizzarle in schemi mentali che soddisfino la sua voglia di produrre predizioni dall’esito positivo o correggere impressioni fallite.

Tuttavia, per Piaget il pensiero simbolico è un pensiero egocentrico. L’intelligenza e le con- dotte del bambino, fino a sette anni, sono caratterizzate dall’incapacità che egli ha di con- cepire punti di vista differenti dai suoi. Un pensiero senza norme, dal punto di vista della struttura e chiuso in se stesso, per quel che riguarda i contenuti. Una conoscenza incapace di vera cooperazione, inabile a decentrarsi, a staccarsi da una prospettiva pertinacemente autocentrata. Niente di più sbagliato, se è vero, come vedremo e come si tenterà di afferma- re, che i bambini - pur con i vincoli che lo sviluppo loro impone - cominciano a staccarsi da una visione fondata esclusivamente su di sé proprio a partire dai due anni (forse addirittura da prima), parallelamente alla comparsa, nella loro vita, del gioco simbolico, con la sua danza di prospettive che si avvicinano, si toccano e si allontanano instancabilmente. Se, da un lato, risulta fin troppo facile criticare Piaget sul piano della temporalità che egli impone allo sviluppo del pensiero del bambino (scansione che non corrisponde a ciò che possiamo

osservare), più difficile appare criticare le sue considerazioni sul linguaggio egocentrico, sul pensiero pre-concettuale e sulla morale, anch’essa egocentrica, che guida l’acquisizione di regole e comportamenti nei più piccoli. Ci sono buoni argomenti, centrati perlopiù sul gioco di finzione, che possono aiutarci a interpretare in maniera sostanzialmente diversa il mede- simo dato, a partire proprio dal linguaggio, che lo psicologo francese, sappiamo, suddivide in ripetizione, monologo e monologo collettivo. A quest’ultimo, descritto dall’Autore come un dialogo portato avanti da due o più bambini senza l’intenzione di comunicare, abbiamo da opporre una lunga serie di esperienze che, al contrario, ci dimostrano come bambini anche molto piccoli (24 mesi, ad esempio) siano capaci, all’interno di una cornice simbolica, di rispondere in maniera pertinente alle richieste e alle azioni dei loro coetanei o degli adulti che vi si rapportano9. Richieste e azioni semplicemente rappresentate, infatti, richiedono la

capacità, affatto banale, di rispondere efficacemente all’interno del medesimo contesto di credenza e una lettura delle intenzioni altrui tutt’altro che trascurabile, ancorché non pro- blematizzata e coscientizzata. I perché dei bambini lo dimostrano appieno: non si tratta mai, per loro, di semplici richieste di chiarimento. A essi non interessano le cause materiali o formali, quanto quelle finali, gli scopi, ciò in vista di cui qualcosa viene o non viene fatto. Raramente, quindi, si tratta di perché?, più spesso di perché mai?. E così, mentre ai primi sarà forse possibile rispondere, riguardo ai secondi non si potrà che soprassedere, più o meno vagamente, oppure, nel migliore dei casi, si sventaglieranno serie di possibilità che li faranno impazzire di gioia.

Sull’egocentrismo del bambino si dirà meglio più avanti. Numerose prove dimostrano come Piaget sbagliasse a interpretare a quella maniera il dato fenomenico col quale era venuto a contatto e soprattutto a sottovalutare il gioco simbolico, per lui solamente la conclusione di un pensiero immaturo, perso nel fitto sottobosco pre-logico e pre-razionale. Per quanto ri- guarda lo sviluppo morale del bambino, invece, e in particolar modo l’acquisizione di regole, che a sentire Piaget sono sempre coercitive e gettano le basi per un’etica del dovere, l’espe- rienza sembra indicare ancora una volta la direzione opposta a quella intrapresa dallo psico- logo. Se è vero che il bambino obbedisce alla volontà dell’adulto e alle regole che questi gli impone, è altresì vero che egli tenta, fin da subito, di scavalcarle o di attribuirgli una nuova definizione: le rifiuta, le detesta, vi si oppone con tutte le forze, incapricciandosi oltremodo. Nel tentativo di segnare percorsi non battuti, per il semplice piacere di calarsi nell’altrimenti, il bambino le respinge, non le rispetta, fornendo prova del fatto che persino il suo sviluppo morale segue i labirintici sentieri del gioco ed è lì che si affina e sperimenta. Nella disubbi- dienza dimora il seme della conoscenza: i bambini lo sanno anche senza bisogno di saper- lo. L’errore è, infatti, più necessario al progresso della cocciuta verifica, la quale, a conti fatti, non valida alcunché, se non l’immediato qui ed ora, mentre quello continua a conservare il suo valore nel tempo. Nulla da fare: secondo Piaget il pensiero pre-concettuale del bambino è dominato dall’immediato, che lo limita e lo rende difettoso nella generalizzazione e nella

9 Si veda: Dunn, J., Dale, N., “ ‘I a Daddy’: 2-year-olds’ collaboration in joint pretend with sibling and with mother”, in Bretherton, I., Symbolic Play: The Development of social understanding, Academic Press, Orlando, 1984, pp. 131-58.

possibilità di comunicarsi efficacemente ad altri, se non come calcolo egocentrico di azioni intuite nella percezione e ridisegnate senza troppi particolari nell’immaginazione, sorta di simulazione frettolosa e abbozzata.

A differenza di ciò che credeva Piaget, non ci si stancherà di ripeterlo, si hanno validi motivi per credere che i bambini, quando giocano, immersi nei controfattuali finzionali, stanno al- lenando una delle più importanti capacità che distinguono l’homo sapiens dagli altri animali, ovvero l’abilità d’immaginarsi le cose altrimenti (aliter) da come effettivamente si presentano (hic et nunc). Il gioco del far finta, che attrae tutta l’attenzione dei bambini di età compresa tra i 18 mesi e i 7/8 anni e che rivela un notevole grado di disinibizione, proprio in funzione di questa instancabile attività esplorativa diretta a 360°, rappresenta il miglior modo di gua- dagnare conoscenze risparmiando energia e soprattutto evitando di mettersi in pericolo. Un vantaggio evolutivo unico nell’universo dei viventi. Nei suoi studi, Alison Gopnik10 conferma

questa linea di pensiero: i bambini, secondo la psicologa californiana, sono favoriti nel gioco di finzione proprio perché le modifiche cerebrali nella loro corteccia prefrontale in via di svi- luppo, responsabile di questi cambiamenti dell’inibizione, devono ancora verificarsi. Come a dire che è proprio l’immaturità a renderli particolarmente predisposti all’attività immaginativa, offrendogli strumenti atti a recepire più informazioni sulla realtà rispetto agli adulti, che sanno focalizzarsi meglio su un obiettivo, ma sono meno pronti a cogliere l’insieme. Sul versante di ciò che è presente e di ciò che non lo è immediatamente, poi, i bambini prediligono sicu- ramente il primo. Ma, si dirà, non si tratta di un presente statico, bensì, dinamico. Estrema- mente flessibile ed elastico.