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il dilemma del treno e dei cinque sbadat

Il filosofo si accosta ai bambini e disegnando su un foglio o alla lavagna gli racconta una storia dicendo loro fin dall’inizio che gli sottoporrà delle domande e che loro potranno ri- spondere liberamente quello che vogliono, perché non c’è risposta giusta o sbagliata nel gioco. La versione classica del trolley problem è leggermente modificata dal filosofo, spe- cialmente quando lavora con bambini di quattro e cinque anni.

Su una lunga rotaia viaggia un treno lungo lungo. A un certo punto il binario si divide in due. A decidere se il treno andrà a destra o sinistra è un uomo, posto vicino a una leva. Il conducente del treno si è addormentato. Viaggia, viaggia, viaggia, ma siccome sogna non si accorge di quello che sta per succedere. Sul

binario ci sono cinque sbadati che camminano barcollando. Pazzi! È pericolo- so, ma nessuno glielo può dire perché nessuno sa che sono lì. Sull’altro binario passa uno sbaldato, anche lui barcollando, anche lui all’oscuro del pericolo im- minente. Tu sei lì, vicino alla leva. Se non fai niente il treno andrà contro i cinque sbadati. Se tiri la leva il treno colpirà un solo sbadato. Cosa scegli di fare?

L’esperimento, proposto nel 1967 da Philippa Foot6, è interessante, soprattutto nelle sue

possibili evoluzioni e trasformazioni. Secondo l’Autrice, casi simili a quello del vagone fer- roviario (a dire la verità, alcuni assolutamente pazzeschi), che funzionano allo stesso mo- do, ma che noi non giudicheremmo alla stessa maniera, ce ne sono, e tanti. Ad esempio la maggior parte delle persone che riterrebbe legittimo tirare la leva e azionare lo scambio, concentrando il pericolo su una persona soltanto anziché su cinque, non si sentirebbe di farlo se al posto della leva gli venisse proposto di lanciare un mattone addosso al condu- cente, per fermarlo. I bambini non mostrano sostanziali differenze di ragionamento rispetto agli adulti. Anche loro, per la maggior parte, tirano la leva e azionano lo scambio. Ricordo che solamente uno, e fu uno su più di trecento bambini intervistati, ci chiese chi fossero gli sbadati che camminavano lungo i binari. Era chiaro che avrebbe salvato più volentieri qualcuno che conosceva, altrimenti ci avrebbe pensato meno intensamente. In ogni caso, i bambini rispettano la distribuzione degli adulti, motivando le loro scelte sulla base del fatto che da una parte c’è una persona sola e che quindi è meglio pensare a quelli che sono di più. Seguendo l’intuizione di chi ragionò a lungo su questo argomento (Judith Jarvis Thom- son7), abbiamo esteso l’esperimento agganciandovi due ampliamenti, subito sottoposti ai

bambini.

Un treno viaggia lungo una rotaia. Questa volta, però, non c’è nessuno scambio, il conducente è addormentato e si dirige dritto dritto contro cinque sbadati che camminano sui binari, ignari del suo arrivo. Il treno passa sotto un ponte, sul quale ci sei tu che osservi la scena dall’alto. Non hai modo di urlare per avvertire gli sbadati, né di fermare il treno, se non lanciando una grossa pietra che sta lì, proprio vicino a te. La pietra salverebbe gli sbadati, ma colpirebbe il treno e il conducente! Che fai?

I bambini rispondono, meno sicuri di prima. Proprio come i loro colleghi adulti, sono con- vinti, senza neanche saperlo, che la situazione sia davvero complicata e che afferrare una pietra e lanciarla non sia esattamente come tirare una leva. La scelta non è semplice, in molte classi la vittoria schiacciante di chi prima avrebbe tirato la leva si trasforma in un pa- reggio tra chi butterebbe il sasso e chi non farebbe nulla. In alcune classi, coloro che non getterebbero la pietra superano i restanti. I bambini sono attenti a ciò che i compagni dico- no e alle motivazioni che adducono, occorre solo fare attenzione a che non si influenzino.

6 Foot, P., The problem of abortion and the doctrine of the double effect, Oxford Review, n. 5, 1967.

Tuttavia, anche in questa estensione dell’esperimento, i piccoli ripercorrono le dinamiche adulte sia nel rispondere che nel giustificare le scelte: lanciare una pietra contro un treno non è come tirare una leva e azionare uno scambio di binari. E infatti solo la metà di coloro che prima avrebbero mandato il treno contro lo sbadato, salverebbe i cinque lasciando cadere il masso dal ponte. Judith Jarvis Thomson parla dell’incapacità dimostrata da al- cuni di ragionare come nel caso dello scambio, e si domanda se forse sia dovuta al fatto che le nostre intuizioni, nel caso del masso, si adeguano coerentemente all’impossibilità, per noi, nell’immediato, di cogliere la somiglianza tra i due avvenimenti. In altre parole, è vero che si tratta sempre di scegliere se salvare una persona o salvarne cinque, ma per il nostro cervello le cose non starebbero così. Ci troviamo, quindi, di fronte a un problema, soprattutto ora che siamo pronti a presentare alla classe la terza variante dell’esperimento.

Un treno viaggia lungo una rotaia. Questa volta, però, non c’è nessuno scambio, il conducente è addormentato e si dirige dritto dritto contro cinque sbadati che camminano sui binari, ignari del suo arrivo. Il treno passa sotto un ponte, sul quale ci sei tu che osservi la scena dall’alto. Non hai modo di urlare per avvertire gli sba- dati, né di fermare il treno, se non spingendo giù un grosso uomo che sta lì, proprio vicino a te. L’uomo salverebbe gli sbadati, ma finirebbe sotto il treno! Che fai?

Come si può immaginare, pochissimi bambini decidono di buttare giù l’uomo grosso, no- nostante poco prima non avessero mostrato alcun dubbio nel tirare o meno la leva. Anche gli adulti fanno lo stesso ragionamento, per questo gli è facile immedesimarsi. Entrambi compiono le medesime scelte e le giustificano similmente. Non siamo certi di aver trovato qualcosa, non sappiamo come interpretare il dato, ma l’incoerenza che muove le scelte degli adulti è la stessa che riscontriamo nei bambini. Come mai a tirare la leva sembrano essere tutti capaci, piccoli e grandi, dimostrando un consequenzialismo spietato (meglio uno di cinque, certo!), mentre a lanciare la pietra sono solo la metà e meno di un quarto a spingere l’uomo giù dal ponte? Le intuizioni morali non seguono regole fisse, ma sembrano essere suscettibili a cambiamenti, sviste, errori e bias cognitivi8 di ogni tipo. E per fortuna,

potremmo dire. La distanza che passa tra l’uccisione di una persona, a mani nude o con uno strumento, e l’azionare una leva, ci giustifica a farlo senza problemi e a considerarlo addirittura indispensabile. In quel caso siamo tutti in grado di mantenere un’assoluta co- erenza, di essere cauti. Ma nel caso della pietra no. La vicinanza con l’obiettivo, la per- cezione che la causa della morte dell’uomo dipenda in misura maggiore da noi e meno dalle circostanze del caso, ci avverte del rischio di essere addirittura essere incriminati per il nostro gesto. Cinque persone, ora, non ne valgono più una. È diverso. E neppure nel caso del grosso uomo. Saremmo dei mostri a lanciarlo sotto il treno. È probabile che non riusciremmo neppure ad allontanarci dal ponte prima di venire arrestati per l’accaduto. Ma è il momento della giustificazione il più interessante, perché è a questo punto che salta

fuori il problema di come si possa collegare un dato di fatto a un altro, una scelta alla sua giustificazione, una causa, un desiderio, al suo effetto, alla sua realizzazione. È vero, ci muoviamo in base a intuizioni, ma come le argomentiamo? Ha senso affermare che la coe- renza nelle scelte morali non deve essere cercata a ogni costo, che in alcuni casi è giusto essere consequenzialisti, ma in altri no? Alcuni hanno tirato in ballo le neuroscienze e una sorta di grammatica9 fondamentale delle scelte morali per spiegare i ragionamenti che si

affacciano in situazioni quali quella del vagone. Ma non siamo così certi sull’interpretazione dei risultati. Posto che il numero delle morti è lo stesso, è nel momento della giustificazione che accade qualcosa che ci allontana dalla coerenza, oppure è la percezione a confon- dersi? Se non si registrano le stesse reazioni quando parliamo di tirare una leva e afferrare una persona, ovvero, se in un caso le regioni cerebrali deputate all’emotività non si attivano e nell’altro sì, possiamo dire di trovarci di fronte a uno scontro tra razionalità e componenti emotive? È così semplice? Dal momento che ogni scelta cosiddetta razionale contiene una parte emotiva che ci spinge, tra l’altro, a portarla a termine, non ci sembra possibile ragio- nare in termini dicotomici. Non è irrazionale essere emotivi10, anzi l’emotività aggiunge al

nostro processo di ragionamento uno spessore, una profondità di giudizio che ci permette di compiere scelte migliori e più efficaci. Dopotutto, non dobbiamo dimenticare che ogni giorno incontriamo e abbiamo a che fare con soggetti e non con macchine prive di emozio- ni. Gli altri ci capiscono e noi li capiamo proprio in virtù del fatto che siamo entrambi capaci di comunicare la maggior parte delle informazioni che ci riguardano e ci interessano trami- te circuiti emozionali che, spesso e volentieri, non hanno neppure la necessità di tradursi verbalmente per raggiungere il loro scopo.

I limiti della ricerca sperimentale in campo morale si concentrano più che altro attorno all’impossibilità di conoscere i pensieri dell’individuo che risponde a un determinato pro- blema. Risonanze magnetiche funzionali e interviste, pur non afferrando per intero la pro- fondità di ciò che accade, possono aiutarci molto a comprendere una situazione. I dilem- mi, in questo senso, non aiutano di certo, essendo costruiti apposta per mettere in difficoltà chi li affronta, come fanno le teorie morali, le quali vivono di contrasti e dimostrano la loro tenuta su casi limite. È oltremodo evidente che nessuno o quasi getterebbe un conoscente sotto il treno. La questione cambia, però, se la persona da spingere giù dal ponte è un efferato criminale. Che fare? E se i cinque sbadati fossero quattro operai, e la persona sul ponte un famoso neurochirurgo? Dovremmo forse valutare le vite che il medico stesso potrebbe salvare per decidere se sacrificarlo oppure no? Ogni elemento di conoscenza in più riguardante la storia potrebbe farci cambiare idea. E non si tratta neppure e soltanto di combattere contro la limitatezza delle nostre intuizioni, che non sono mai complete: è vero che scegliamo di non gettare la persona perché in una frazione di secondo ci rifiutiamo di trattare una persona come mezzo, come vorrebbero i deontologisti? La fragilità delle nostre intuizioni e delle giustificazioni che i filosofi ne danno si scontra con l’estrema spon-

9 Hauser, M. D., Moral minds: how nature designed our universal sense of right and wrong, Ecco, NY, 2006. 10 Damasio, A. R., L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Adelphi, Milano, 1995.

taneità dei bambini, che rispettano le percentuali di scelta degli adulti nel caso del trolley problem, e ci danno anche indicazioni piuttosto precise sui motivi delle loro posizioni. È vero che non butterebbero giù l’uomo dal ponte, ma non per una questione di riflessione sulla persona, quanto per un’innata repulsione ad afferrare e usare qualcuno. Componenti emotive ci impediscono di usare gli altri come mezzi, di fare ciò che faremmo se fossimo soggetti solo al nostro ragionamento, a un freddo calcolo costi/benefici. L’utilitarismo dei bambini, frenato da qualche arcaico divieto, li spinge a non poter giustificare la violenza.