• Non ci sono risultati.

Il 23 gennaio del 1960, una specie di sommergibile costruito in Italia si immerse circa 300 chilometri al largo dell’isola di Guam, nell’Oceano Pacifico, si trattava del batiscafo Trieste. Cinque ore dopo avrebbe raggiunto per la prima volta nella storia dell’umanità il punto più profondo della crosta terrestre, il cosiddetto abisso Challenger, la fossa delle Marianne, quasi 11.000 metri sotto al livello del mare. A bordo del Trieste erano imbarcati gli esploratori Jacques Piccard e Don Walsh, i primi uomini a spingersi a quelle profondità. Rimasero imbattuti per oltre cinquant’anni, finché nel 2012 non eguagliò il loro record il regista James Cameron.151

A metà del Novecento le esplorazioni delle profondità marine erano ancora un mondo nuovo. Gli abissi erano rimasti perlopiù un mistero fino alla seconda metà dell’Ottocento, quando l’ambiziosa spedizione della nave britannica HMS Challenger condusse la prima missione di ricerca marina globale, che grazie a particolari sonde e draghe fece le prime vere scoperte sugli ecosistemi presenti oltre i 1.000 metri di profondità, provando quelle che fino ad allora erano solo teorie poco condivise. Ma perché un uomo si spingesse personalmente in profondità toccò aspettare fino agli anni Trenta del Novecento, quando l’ingegnere Otis Barton e il naturalista William Beebe diventarono i primi uomini a superare i 300 metri di profondità, a bordo della sfera sommergibile Bathysphere.152

Si trattava di un unica sfera, alimentata e calata in mare da un cavo, utilizzata per condurre una serie di immersioni al largo della costa delle Bermuda dal 1930 al 1934. Fu progettata nel 1928 dall’ingegnere americano Otis Barton appositamente per essere utilizzata dal naturalista William Beebe per lo studio della fauna marina. Insieme i due hanno condotto innumerevoli immersioni osservando gli animali nel loro ambiente nativo per la prima volta. Stabilirono diversi record mondiali consecutivi per l'immersione più profonda mai effettuata da un essere umano, fino a raggiungere la quota di 934 metri il 15 agosto 1934.

Anche se la tecnologia del Bathysphere è divenuta in poco tempo obsoleta, Beebe e Barton sono considerati gli iniziatori e un’importante fonte di ispirazione per tutti gli studi naturalistici successivi. I due hanno classificato diverse nuove specie di animali nativi delle acque profonde, sulla base di osservazioni durante le loro immersioni, con l'avvio però in parallelo di una polemica mai completamente risolta. La denominazione di una nuova specie richiede normalmente l’analisi di un campione, qualcosa di impossibile da dentro la Bathysphere. Alcuni dei critici di Beebe sostennero che la fauna incontrata durante le missioni non era altro che frutto di illusioni o dell’immaginazione, idee in contrasto con la sua fama di scienziato onesto e rigoroso.153

Tornando alle vicende collegate ai due piloti del Trieste negli anni Quaranta, il fisico svizzero Auguste Piccard era già una specie di celebrità. Nel 1931 era stato il primo uomo a visitare la stratosfera, salendo a bordo del suo pallone aerostatico attrezzato con una cabina stagna fino a quasi

151 Per un’immagine del batiscafo Trieste vedi in Appendice l’Allegato 36. 152 John Pina Craven, The Silent War, cit., p. 168.

153 Sergio Valzania, Guerra sotto il mare, cit., pp. 222-223; Sherry Sontag-Christopher Drew, Immersione rapida. La

81

16.000 metri di altitudine, raccogliendo misurazioni di notevole rilevanza per la conoscenza dell’atmosfera e diventando peraltro il primo uomo ad aver osservato la curvatura terrestre.

Dopo le sue esplorazioni verso l’alto, aveva rivolto la sua attenzione a quelle marine e si era dedicato a sviluppare un equivalente dei suoi pionieristici palloni aerostatici che potesse sopportare l’enorme pressione degli abissi oceanici. Dopo aver interrotto i lavori a causa della Seconda Guerra Mondiale riuscì a mettere a punto il FNRS-2, un batiscafo che sostanzialmente incorporava una sfera sommergibile a una specie di sottomarino. Dopo vari esperimenti e modifiche della struttura, nel 1954 il FNRS-2 trasportò un uomo oltre i 4.000 metri di profondità. Ma Auguste Piccard e suo figlio Jacques stavano pensando più in grande.

Il FNRS-2 era un batiscafo prodigioso, la cui sfera, chiamata gondola, era in grado di sopportare pressioni elevatissime. Nel progettare il Trieste, Piccard la fece ancora più resistente, fu forgiata dalle acciaierie di Terni e aveva un diametro di 2,16 metri, il minimo perché potesse ospitare due persone. L’equipaggio poteva respirare grazie al passaggio dell’aria attraverso un sistema a circuito chiuso, che eliminava l’anidride carbonica facendola passare attraverso dei filtri pieni di calce sodata. La sfera era composta da due pezzi saldati tra di loro, e aveva uno spessore di quasi 13 centimetri, per un peso totale di circa 13 tonnellate. Come già il FNRS-2, il Trieste era un veicolo marino autonomo, a differenza delle vecchie sfere che dipendevano dalla nave dalla quale erano calate. La parte superiore del batiscafo invece fu realizzata nel cantiere navale di San Marco dei Cantieri Riuniti dell’Adriatico a Trieste; esteriormente assomigliava a un sommergibile, ma nello scafo non c’era lo spazio per i marinai bensì una serie di cisterne riempite di materiali diversi, ciascuno con una funzione precisa. Le due più grandi contenevano benzina, un liquido meno denso dell’acqua e incomprimibile anche ad alte pressioni, quindi adatto ad essere impiegato come galleggiante. Due silos riempiti di pellet di ferro facevano da zavorra per la discesa e sarebbero poi dovuti esser svuotati al momento della risalita. Un meccanismo di sicurezza consentiva lo scarico immediato degli stessi in caso di guasto al sistema elettrico del Trieste. La sfera e lo scafo furono saldati nel cantiere navale di Castellammare di Stabia. Uno spesso strato in plexiglas trasparente consentiva l’unico contatto visivo dei due membri dell’equipaggio del batiscafo con l’ambiente circostante.

Il Trieste fece le sue prime immersioni nell’agosto del 1953 nelle acque di Capri e nel settembre dello stesso anno raggiunse i 150 metri di profondità al largo dell’isola di Ponza. Dopo diversi anni di immersioni nel Mediterraneo sotto la guida della Marina francese, nel 1958 fu venduto per 250.000 dollari agli Stati Uniti e trasportato ai laboratori elettronici navali di San Diego. Qui gli ingegneri americani apportarono grosse modifiche e miglioramenti: lo scafo fu ampliato, fu installata una nuova cabina per l’equipaggio forgiata dall’azienda tedesca Krupp e altre strumentazioni furono migliorate per renderlo più resistente ed efficiente.154

Un giorno del 1959 il ventottenne Don Walsh, tenente della Marina diplomato quattro anni prima all’Accademia Navale, era seduto nel suo ufficio quando bussò alla sua porta Andy Rechnitzer, scienziato a capo del progetto Nekton, ossia una serie di immersioni nella Fossa delle Marianne, la più profonda depressione oceanica del pianeta. Rechnitzer disse a Walsh che la Marina aveva

82

appena comprato un nuovo, formidabile batiscafo e che aveva bisogno di un volontario per l’immersione più importante di tutte. Walsh si offrì e diventò comandante del Trieste, si sarebbe immerso con un uomo alto e taciturno che si era presentato nel suo ufficio insieme a Rechnitzer, Jacques Piccard.

L’anno dopo, il Trieste partì verso l’isola di Guam a bordo della nave cargo Santa Maria, dando ufficialmente inizio al progetto Nekton. Una squadra di ufficiali della Marina, di oceanografi e di ingegneri era stata incaricata di un compito delicatissimo: portare l’uomo dove non era mai stato prima. Tra il novembre del 1959 e il gennaio del 1960, Walsh e Piccard batterono ripetutamente i record di profondità mai raggiunta dall’uomo già nelle prime immersioni del Trieste. Per trovare il punto più profondo delle Marianne, chiamato abisso Challenger, dal nome del leggendario battello oceanografico ottocentesco, gli oceanografi del progetto Nekton non potevano fare affidamento sulle imprecise mappe disponibili all’epoca. Usarono quindi degli esplosivi, per misurare l’eco e individuare il posto esatto in cui immergere il Trieste per la sua missione più importante.

Il 23 gennaio 1960 era il giorno prescelto. Il mare era considerevolmente agitato, c’erano molti squali e Piccard non aveva intenzione di immergersi, preoccupato che raggiungere il ponte del batiscafo per accedere alla cabina attraverso l’apposita botola fosse troppo pericoloso. Furono Walsh e gli altri membri della spedizione a convincerlo. Piuttosto tesi e preoccupati, i due raggiunsero il batiscafo e si calarono nella sfera, pronti per immergersi. Chiusi dentro a una cabina fredda come un frigorifero e grande poco più dello stesso, Walsh e Piccard dimenticarono le divergenze avute nelle ore precedenti per concentrarsi sulla loro missione. Procedendo a una velocità tra l’1 e i 2 metri al secondo, il Trieste si avventurò pian piano negli abissi, entrando prima nella zona batipelagica, ossia quella oltre i 1.000 metri e nella quale non arriva la luce solare e poi in quella abissopelagica, ossia oltre i 4.000 metri. Dall’oblò della loro cabina, Walsh e Piccard avvistarono pesci luminescenti mai visti prima e soprattutto cominciarono a sentire gli inquietanti rumori metallici dello scafo sottoposto alle enormi pressioni delle profondità oceaniche. Oltre i 6.000 metri, entrati nella zona adopelagica, all’interno della cabina la temperatura scese di poco sopra ai quattro gradi. Intorno ai 9.400 metri di profondità, quando la pressione sulla superficie del Trieste sfiorava i 1.000 chilogrammi per centimetro quadrato, Walsh e Piccard sentirono un rumore più forte e brutto degli altri. Un’eventuale falla li avrebbe uccisi all’istante, ma dopo un’attenta analisi sembrava tutto a posto e decisero di continuare la discesa.

Dopo cinque ore e mezza di immersione, il Trieste toccò infine il fondo dell’abisso Challenger, a quasi 11.000 metri di profondità. Una macchina fotografica installata nella cabina dalla rivista “The Time” ritrasse Walsh e Piccard in una storica fotografia, la più profonda a essere mai stata scattata. Prima di cominciare la risalita, i due videro fuori dal finestrino un pesce simile a una sogliola, provando la presenza di vita anche nel punto più profondo dell’oceano. Più avanti la validità della loro osservazione fu messa in discussione e oggi si pensa che potessero essere degli invertebrati simili ai pesci, che si ritiene non possano sopravvivere oltre i 9.000 metri di profondità.155

83

La risalita andò liscia e dopo poco più di tre ore Walsh e Piccard aprirono la botola del Trieste sulla superficie dell’Oceano Pacifico. Furono premiati pochi giorni dopo dal presidente Dwight Eisenhower e negli anni successivi continuarono le loro esplorazioni oceaniche. I due pionieri tornarono in superficie ma il batiscafo era irrimediabilmente compromesso, il forte rumore sentito durante la discesa non era altro che la deformazione della struttura per le diverse tonnellate per centimetro quadrato esercitate dalla colonna d’acqua sovrastante. La prima sfera fu messa a riposo a San Diego e ne fu costruita una seconda progettata per profondità più modeste.

Fino al 1963 fu utilizzata per banali esperimenti ma dopo la tragedia del Thresher fu inviata per capire se si poteva fare qualcosa sul relitto che giaceva ad una profondità di più di 3.000 metri. La discesa di un batiscafo di quel genere, dotato di strumentazione molto semplice, non era un affare da poco. Si doveva aggiungere o togliere zavorra per determinare un moto discendente o ascendente il più uniforme possibile e due strumenti riportavano la distanza dalla superficie e dal fondo. Tuttavia, quando si incontravano strati di acqua a densità diversa poteva succedere che la sfera cominciasse a risalire invece di scendere e non sempre gli strumenti davano risposte immediate o comprensibili, in modo da correggere il moto prontamente. Alla fine il batiscafo raggiunse il Thresher, ma non si poté fare altro che constatare il suo stato ed effettuare qualche ripresa video- fotografica. Improvvisamente vi furono problemi alla strumentazione e odore di cavi elettrici bruciati all’interno della sfera. La risalita non fu meno apprensiva di quella effettuata dal primo Trieste, sarebbe bastata una scintilla e l’involucro galleggiante di ottano avrebbe provocato un’esplosione inevitabile. Fortunatamente l’unità raggiunse la superficie integra e la missione, principalmente simbolica, si risolse con un successo, ma ancora una volta il batiscafo non sarebbe tornato in immersione prima di un sostanziale riassetto e una completa riprogettazione.

Proprio la storia delle missioni del batiscafo Trieste e del suo clone diede spunto per la costruzione di un veicolo più avanzato e innovativo. I sovietici potevano individuare facilmente il mezzo di supporto per le operazioni di alaggio e varo del batiscafo e sapevano che quest’ultimo aveva capacità di ricerca e osservazione molto limitate. Fu fatto credere che i test sarebbero continuati con il Trieste e che questo sarebbe rimasto l’unico veicolo per la ricerca e recupero sottomarino della Marina statunitense. Come scritto nel primo paragrafo del capitolo, venne costruito un veicolo all’avanguardia da utilizzare per missioni segrete, sfruttando la copertura dei test effettuati con il Trieste.156

Piccard morì nel 2008, mentre Walsh è ancora vivo e nel 2012 partecipò come consulente al progetto che replicò per la prima volta la missione del 1960 con il Deepsea Challenger, un sommergibile che ha raggiunto il fondo della fossa delle Marianne pilotato in solitaria da James Cameron, il regista dei film “Titanic” e “Avatar”. Nel 2019, Victor Vescovo ha battuto il record, spingendosi qualche metro più in profondità rispetto a Cameron, Piccard e Walsh a bordo del sommergibile DSV Limiting Factor. Dal 1980 il Trieste è esposto nel museo della Marina di Washington DC.157

156 Per un’immagine del Deepsea Challenger e del DSV Limiting Factor vedi in Appendice gli Allegati 37 e 38; Enrico

Hapulca, Il Trieste, cit., pp. 45-52.

157 Sergio Valzania, Guerra sotto il mare, cit., p. 229; Sherry Sontag-Christopher Drew, Immersione rapida. La storia

84

CONCLUSIONI

L’evoluzione dei mezzi subacquei dalla fine del Secondo Conflitto Mondiale e per tutta la Guerra Fredda ha seguito un percorso caratterizzato dall’impiego di molteplici e diverse innovazioni, frutto della ricerca sul campo, delle idee e della perseveranza di uomini brillanti e appassionati che più volte hanno anteposto il risultato finale alla propria incolumità.

La prima grande svolta si ebbe con il superamento del concetto di sommergibile, unità che prediligeva la navigazione in superficie, ad eccezione delle fasi di attacco e di fuga, come ad esempio gli u-boot durante la Prima Guerra Mondiale. È sulle basi delle novità introdotte proprio con le unità tedesche tipo “XXI” che nacque l’idea di sottomarino. Il suo impiego sarebbe stato per gran parte in immersione e avrebbe reso tale tipologia di unità estremamente flessibile per qualsiasi tipo di attività, da operazioni di intelligence a missioni di deterrenza nucleare.

Gli Stati Uniti furono i primi a comprendere l’importanza di poter disporre di un efficiente componente subacquea e a pianificare quindi un piano di ricerca e sviluppo in tutte le ramificazioni del settore. Con gli studi sulle strutture dell’USS Albacore, in cinque diverse configurazioni, venne realizzato uno scafo all’avanguardia nel settore idrodinamico. In seguito si comprese la necessità dell’abbandono della propulsione diesel-elettrica a favore di una nucleare, unica in grado di garantire prolungati periodi in immersione. Con l’aiuto di un team altamente qualificato, del quale faceva parte il dottor John Craven, sull’USS Nautilus e sull’USS Seawolf si portò a termine la sperimentazione delle prime tipologie di reattori. I progressi nei settori idrodinamico ed energetico si combinarono successivamente con la realizzazione dell’USS Skipjack, primo sottomarino di attacco statunitense.

Anche l’Unione Sovietica intraprese, con altrettanti ingenti investimenti ma una più scarsa pianificazione, lo studio e lo sviluppo delle unità subacquee, dimostrando fin dal principio meno fiducia nel nucleare rispetto alla controparte statunitense. L’estrema segretezza con cui venivano svolte le attività, tuttavia, fu tra le principali cause della lentezza nello sviluppo del settore. Nonostante ciò nel 1958 venne varato il K-3, seguito a distanza di pochi anni dal K-181, prime unità nucleari sovietiche. A causa dell’arretratezza tecnologica e della scarsa disponibilità di manodopera qualificata non mancarono gravi incidenti e malfunzionamenti, che fin da subito evidenziarono la pericolosità della mansione del sommergibilista nella Marina sovietica.

Molto interessante fu il progresso dell’armamento imbarcato e l’evidente differenza tra le strade intraprese dalle due grandi Potenze. L’obiettivo statunitense era quello di creare un sistema di deterrenza altamente organizzato, ossia il progetto Polaris e poi il Poseidon: quarantuno unità dotate di missili balistici di ultima generazione, che a rotazione avrebbero percorso rotte prestabilite atte ad assicurare la totale distruzione della controparte in caso di scoppio di un conflitto. Data la funzione di deterrenza che queste unità erano chiamate a svolgere, era necessario che si riducessero al minimo i tempi di permanenza in porto e si prolungassero i periodi delle attività operative. Per evitare di imporre ai marinai un ritmo di vita insostenibile, vennero destinati ad ogni battello due diversi equipaggi, che si sarebbero alternati effettuando un turno di navigazione e uno di riposo. Le

85

gittate dei missili Polaris passarono in pochi anni da 2.225 a 4.500 chilometri, contro gli appena 250 dell’R-11FM russi del 1957.

Le unità sovietiche, invece, mantenevano solo il 25% della flotta in mare, mentre prevedevano l’impiego della maggior parte delle forze solo in caso di situazioni di massima tensione. La cantieristica dell’URSS fu quasi sempre all’inseguimento di quella statunitense e nel tentativo inesausto d’imitazione perse di vista la possibilità di creare una propria cultura nautica vincente. Alcuni dei problemi che sorsero si rivelarono di natura ideologica oltre che pratica, di conoscenza complessiva dell’ambiente fisico e psicologico nel quale si svolgeva il confronto subacqueo.

Quanto all’aspetto ideologico esso ebbe influenza anche nella strategia di sviluppo di missili da crociera, che rimasero a lungo inesistenti nella flotta statunitense. Lo scopo dei sovietici che si impegnarono maggiormente in tale settore era quello di negare l’indiscussa supremazia avversaria in superficie, esercitata dalle moderne portaerei e dimostrata ampiamente durante la Seconda Guerra Mondiale nel Pacifico. Occorse un decennio in più per lo sviluppo di missili balistici efficienti da impiegare come vettori per un eventuale attacco atomico sul continente nemico e si elesse la calotta Polare ad unico luogo adatto al lancio degli stessi in emersione. Tale imposizione caratterizzò fortemente le strutture delle singole unità, che per poter raggiungere la superficie e sfondare lo strato di ghiaccio avrebbero dovuto mantenere sempre un’elevata riserva di galleggiabilità.

Progressivamente si andò verso quello che oggi è definito gigantismo subacqueo, apice raggiunto con la classe “Typhoon” di 30.000 tonnellate, le cui spese eccessive contribuirono al collasso dell’economia e del sistema dell’Unione Sovietica. Nel 1991, durante la fase finale della Guerra Fredda, le dimensioni del potenziale nucleare delle due Superpotenze, imbarcato sui sottomarini, indicava l’importanza che i sistemi di lancio di missili con testate atomiche da parte di mezzi subacquei avevano avuto all’interno dell’equilibrio di deterrenza. L’Unione Sovietica disponeva di sessantadue unità, considerate moderne, capaci di imbarcare un totale di novecentoquaranta missili, che, secondo fonti sovietiche e statunitensi, rappresentavano rispettivamente il 27% o il 33% del potenziale nucleare russo. Gli Stati Uniti disponevano invece di trentaquattro sottomarini nucleari balistici con a bordo seicentotrentadue vettori, i quali rappresentavano il 45% delle armi atomiche strategiche in loro possesso. Un complesso militare molto costoso, la cui grandezza appariva destinata a ridimensionarsi in modo radicale.

Il secondo capitolo dell’elaborato si concentra sulle tragedie connesse al settore subacqueo e sul parallelo progresso nel settore della sicurezza delle unità, nella ricerca e localizzazione di relitti ed oggetti dispersi e nella prevenzione di incidenti con possibile perdita di vite umane.

La figura di John Craven si distinse nelle operazioni connesse al recupero dei sottomarini USS Scorpion, USS Thresher e K-129. È proprio con questi incidenti, unici per gravità, che si vide un forte cambiamento nel settore subacqueo, principalmente causato dall’elevata importanza assunta dall’opinione pubblica negli Stati Uniti. La Marina si impegnò, infatti, in molteplici progetti con lo scopo di incrementare la sicurezza delle unità e di prevedere delle possibilità di soccorso e di