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Non ci sono dubbi sul fatto che l'industria cantieristica sovietica e quella degli armamenti abbiano sempre sofferto di gravi problemi. Esisteva un'aneddotica, relativa alle occasioni e ai modi con cui i vertici della Marina, a volte anche lo stesso comandante in capo, come l'ammiraglio Gorškov, si era presa gioco di quelli politici o era riuscita ad evitare con incredibile prontezza situazioni imbarazzanti nelle quali i limiti dei mezzi di cui disponeva l'avevano posta, specialmente in ambito sommergibilistico. Nelle memorie di Nikolaj Zateyev, primo comandante del K-19, riferite nel libro dedicato alla storia di quel sottomarino scritto da Peter Huchthausen, consulente tecnico degli sceneggiatori del film intitolato K-19, “The Widowmaker”, vengono narrate le vicende dei primi viaggi e incidenti del battello stesso, evidenziando la mentalità e gli errori propri della Marina sovietica a quel tempo.62

Per il comando era stato designato, inizialmente, il comandante Mikhail Polenin, il quale fu in seguito declassato a comandante in seconda e sostituito da Nikolai Zatayev, poiché aveva osato giudicare l’unità non pronta a prendere il mare ed aveva quindi anteposto l’incolumità della stessa e dei suoi uomini alla fedeltà nel partito. Le autorità del Cremlino evidentemente non erano dello stesso parere e vararono ugualmente il sottomarino nonostante le precarie condizioni di sicurezza del mezzo. La cantieristica sovietica soffriva, oltre che della mancanza di fondi anche di una scarsa disponibilità di manodopera qualificata; le vittime collegate a questa unità iniziarono infatti già durante le fasi di costruzione dove persero la vita dieci operai civili e un marinaio. Il varo avvenne nell'aprile del 1959 e venne consegnato alla flotta nel novembre 1960, emblematico il fatto che la bottiglia lanciata contro lo scafo durante la cerimonia non si infranse, preannunciando già una carriera e una vita operativa segnata dalla sfortuna.63

Il sottomarino fu il primo a essere completato della classe “Hotel”, ossia delle unità a propulsione nucleare sovietiche dotate di missili balistici con testata atomica. Con i suoi 114 metri di lunghezza e le sue 5.240 tonnellate di dislocamento in immersione il K-19 era a quel tempo il più moderno battello della flotta sovietica, che considerava la sua realizzazione un importantissimo successo tecnologico. Gli “Hotel” erano simili nella geometria della carena ai sottomarini d’attacco della classe “November”. La loro vela tuttavia, dovendo ospitare tre missili del tipo SS-N-4, fu riprogettata prendendo spunto dai sottomarini lanciamissili della classe “Golf” dai quali prendevano anche lo stesso sistema di lancio. Già però durante le prime prove in mare nel 1961, mentre il sottomarino navigava alla sua massima profondità, 300 metri, si verificò un grave e inaspettato allagamento di un compartimento. La causa della perdita fu attribuita alla mancata sostituzione di una guarnizione in fase di costruzione; tale avvenimento rese evidente come la realizzazione di alcune componenti era avvenuta davvero troppo frettolosamente ed utilizzando spesso materiali scadenti, impensabile per un’arma così importante dal punto di vista strategico, oltre che per l’incolumità del suo equipaggio. Nonostante tutto fu riparato il guasto e venne nuovamente reso operativo poco dopo.64

62 Per un’immagine del K-19 vedi in Appendice l’Allegato 21.

63 Sergio Valzania, Guerra sotto il mare, cit., pp. 75-76; Peter Huchthausen, K-19, The Widowmaker, Washington,

National Geographic, 2002, pp. 36-37.

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Per celebrare la nuovissima unità si decise di organizzare una dimostrazione di efficienza militare che facesse scalpore, così da impressionare sia i vertici politici del paese che le controparti statunitensi. Perciò si provvide a programmare un'esercitazione di proporzioni imponenti, nella quale veniva coinvolta buona parte della flotta sovietica dell'Atlantico. Il K-19 salpò così da Severodvinsk, la base navale sul Mare di Barents, il 18 giugno 1961 con la missione di attraversare il passaggio “GIUK” senza farsi intercettare da una catena di sottomarini della classe “Whiskey” cui era stato assegnato il compito di simulare la presenza di unità statunitensi. Poi il K-19 avrebbe dovuto fare rotta verso nord, risalire lo Stretto di Danimarca e raggiungere il Polo Nord, emergere fra i ghiacci e da lì effettuare il lancio di uno dei suoi altrettanto moderni missili balistici.

Durante la navigazione verso sud alla volta del passaggio “GIUK”, il 4 luglio alle ore 04.15, venne comunicato al comandante Nikolaj Zateyev che il sistema di raffreddamento di uno dei reattori atomici era entrato in crisi e la temperatura del nocciolo si stava alzando in maniera preoccupante rischiando di provocare il collasso dello stesso. Per scongiurare una ormai certa esplosione nucleare, otto uomini dell'equipaggio intervennero per effettuare le riparazioni possibili in quella situazione, esponendosi alle radiazioni senza alcuna protezione, poiché a bordo si trovavano solo tute per emergenze di natura chimica e non nucleare. I marinai riuscirono a bloccare la reazione atomica e a ridurre la temperatura dell'impianto, ma lo fecero a prezzo della vita. Sarebbero morti tutti nei giorni immediatamente successivi al loro rientro in Unione Sovietica, insieme ad altri tredici membri dell'equipaggio.

Nonostante il sacrificio compiuto, il livello di radioattività a bordo del sottomarino si mantenne a livelli molto elevati, anche l'impianto di areazione risultava essere inquinato. Contemporaneamente, si verificò un altro guasto assai grave; la radio di bordo smise di funzionare rendendo così impossibile sia richiedere soccorsi che ottenere dal comando della flotta istruzioni su come comportarsi. Alcuni ufficiali sollecitarono il comandante Zateyev a invertire la rotta e dirigersi verso l'isola norvegese di Jan Mayen, dove l'equipaggio sarebbe potuto sbarcare per poi affondare il sottomarino, nella speranza che l'acqua dell'oceano bloccasse la reazione nucleare, incuranti dell'inquinamento radioattivo che i due reattori del K-19, uno dei quali danneggiato, avrebbero provocato all’ambiente marino. Il comandante si rifiutò di essere la causa di una catastrofe ecologica e vide come unica alternativa possibile quella di rientrare alla base di partenza, distante 1.500 miglia, navigando in superficie con l'intero equipaggio sul ponte per ridurre l'esposizione alle radiazioni, alla velocità di 10 nodi. Dopo pochi calcoli risultava evidente che sarebbero stati necessari sei o sette giorni, durante i quali i 10 roentgen l'ora assorbiti dagli uomini avrebbero causato la morte dell’intero equipaggio.65

Zateyev decise allora di effettuare una mossa molto rischiosa; invece di invertire la rotta continuò a navigare verso sud, andando così incontro allo spiegamento di sottomarini “Whiskey” che partecipavano all'esercitazione con il compito di intercettarlo. Dato che il sistema di comunicazione principale del K-19 rimaneva inutilizzabile, venne messa in funzione una radio d'emergenza, con una portata utile di appena 50 miglia, attraverso la quale fu trasmessa in continuazione una richiesta di aiuto. Con il trascorrere del tempo l'atmosfera a bordo si faceva sempre più tesa. Temendo potessero nascere violente proteste da parte dei membri dell'equipaggio, ai quali la situazione e i rischi cui tutti andavano incontro apparivano ormai chiari, Zateyev ordinò all'ufficiale addetto agli

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armamenti di bordo, lo stesso che si occupava dei missili e che era responsabile anche dei fucili, di raccogliere le armi individuali presenti sul sottomarino e di gettarle in mare, conservando solo cinque pistole, una per il comandante e le altre quattro per ufficiali di sicura affidabilità. Passarono, lentissime, altre dieci ore. Il K-19 continuava a navigare verso sud, allontanandosi da ogni possibile approdo, in un mare deserto, senza incontrare neppure un peschereccio. Il comandante Zateyev stava per dare l'ordine di invertire la rotta quando comparve un puntino all'orizzonte, si trattava dell'S-270, un sottomarino della classe “Whiskey”. Con molte difficoltà dovute al mare mosso, il K-19 fu infine evacuato e quando giunsero altre unità sovietiche, preso a rimorchio.66

Come abbiamo detto, per quanti si erano impegnati a rimettere in funzione il sistema di raffreddamento del reattore non c'era più niente da fare, si spensero uno dopo l'altro nei giorni successivi. Degli altri membri dell'equipaggio tredici morirono a breve distanza di tempo e molti riportarono gravi danni fisici dovuti all'esposizione alle radiazioni, che li costrinsero a sottoporsi a regolari trasfusioni di sangue per il resto della vita. Tornato in Unione Sovietica, il K-19 contaminò per un raggio di 700 metri l'area portuale nella quale era stato attraccato. Si decise allora di trasferirlo altrove per effettuarne la decontaminazione, che avvenne in parallelo con l'esecuzione delle modifiche ai pozzi di lancio, necessarie a consentirgli di imbarcare i nuovi missili R-21. Il battello tornò in servizio nel gennaio 1964, ma non ebbe vita tranquilla.

Il 5 novembre 1969 alle ore 07.13, mentre si trovava in navigazione nel Mare di Barents a una profondità di 60 metri speronò il sottomarino statunitense Gato, riportando danni considerevoli a prua, sia all'impianto di ricezione sonar che ai tubi lanciasiluri. Fu comunque in grado di rientrare in porto con i suoi mezzi e non ci furono vittime. Nella collisione il Gato, che fra i suoi primati vantava quello di essere stato il primo sottomarino nucleare ad aver effettuato l’attraversamento del Canale di Panama, riportò danni così lievi da continuare regolarmente nella sua missione.

Più grave si sarebbe rivelato l'incidente occorso al K-19 il 24 febbraio 1972. Il sottomarino stava rientrando da una crociera, ma si trovava ancora al largo di Terranova a una profondità di 120 metri quando scoppiò un incendio nel compartimento numero nove, collocato in prossimità del deposito siluri di poppa. Ventotto uomini dell'equipaggio rimasero uccisi nel locale di partenza delle fiamme per la lentezza con la quale l'area venne evacuata. Si tentò di circoscrivere le zone colpite, ma mentre il sottomarino emergeva l'incendio si estese, passando attraverso i circuiti interni e coinvolgendo i compartimenti numero cinque e otto. A seguito di ciò, dodici uomini che si trovavano nel compartimento di poppa al momento dell'inizio dell'incidente vi rimasero intrappolati in modo definitivo. Raggiunta la superficie il comandante Viktor Kulibaba iniziò a trasmettere via radio richieste di soccorso fino all’arrivo dell'incrociatore lanciamissili Vice Admiral Drozd. Lo scatenarsi di una violenta tempesta rese complesse le operazioni di salvataggio e di presa al rimorchio del sottomarino, che giunse a Severodvinsk solo il 18 marzo, dove si riuscì finalmente a liberare i dodici uomini intrappolati nel compartimento dieci. Si salvarono tutti, ma dopo essere rimasti prigionieri per oltre venti giorni al buio, quasi senza cibo e con pochissima acqua. La causa dell’incendio, dopo attenti sopralluoghi, è stata attribuita ad una perdita di liquido idraulico in prossimità di un filtro surriscaldato.67

66 Sergio Valzania, Guerra sotto il mare, cit., pp. 77-78. 67 Peter Huchthausen, K-19, The Widowmaker, cit., pp. 67-72.

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Rientrato in cantiere, dal 15 giugno al 5 novembre dello stesso anno, il K-19 venne rimodernato ancora una volta e i suoi pozzi di lancio furono di nuovo modificati per poter ospitare i missili balistici di ultima generazione. Ebbe altri due incendi a bordo, uno dei quali causò una vittima, solo dieci giorni dopo essere uscito dai cantieri nel 1972, mentre il 15 agosto 1982 un corto circuito elettrico provocò gravi ustioni a due marinai, uno dei quali morì pochi giorni dopo. Il 19 aprile 1990 il sottomarino fu finalmente dismesso, dopo essersi guadagnato molteplici soprannomi, tra i quali “Hiroshima” e “Widowmaker”. Nel 2002, quando fu girato il film che lo riguardava, nel quale la parte del sottomarino fu interpretata da un'unità della classe “Juliett” a propulsione diesel-elettrica, il K-19 esisteva ancora ed era attraccato ad un molo in disuso nei cantieri navali Shkval a Polyarny in attesa della rottamazione.

L'elenco degli incidenti mortali e dei disastri occorsi alle unità subacquee della Marina sovietica che conosciamo è impressionante e sicuramente si tratta solo di una parte di quanto è accaduto, ossia quella di cui gli occidentali sono venuti a conoscenza negli anni della Guerra Fredda o che è stata ricostruita dopo lo scioglimento dell'URSS, fra notevoli difficoltà, con intenti ormai puramente storici. Fra il 1952 e il 1991 non meno di undici sottomarini sovietici sono affondati in circostanze diverse, almeno due volte con la perdita dell'intero equipaggio e in ognuna delle altre occasione si sono registrate molteplici vittime.

I sommergibilisti sovietici affrontavano rischi gravi e concreti. Da quelli invisibili delle radiazioni delle unità a propulsione nucleare, equipaggiate di schermature dei reattori atomici spesso insufficienti, a quelli collegati ad un funzionamento imperfetto di apparati delicatissimi presenti a bordo dei sottomarini di tutte le classi, dai missili a combustibile liquido, alle batterie elettriche il cui acido, se disperso, poteva innescare esplosioni e cortocircuiti, oltre che il rilascio di gas venefici. In cambio di ciò i marinai imbarcati sulle unità della flotta subacquea ricevettero sempre un trattamento di favore. Essere un sommergibilista era considerato un privilegio, sia tra gli ufficiali che, forse ancora di più, fra i marinai semplici e i sottufficiali, che ricevevano paghe superiori, godevano di un'alimentazione migliore, di spacci più forniti e usufruivano di licenze più lunghe dei colleghi assegnati ad altri servizi. L'organizzazione sovietica riconosceva la vita dei propri sommergibilisti come disagiata e pericolosa cercando per quanto possibile di ricompensarli per i rischi cui andavano incontro e per i sacrifici che accettavano di sopportare.68

Al di là di ogni dichiarazione ufficiale i vertici sovietici, sia politici che militari, erano consapevoli dell'inferiorità economica e tecnologica della società nella quale vivevano rispetto a quella occidentale e ciò li spinse a effettuare investimenti eccessivi negli armamenti, suscitando una risposta che dette impulso a una spirale inarrestabile e priva di senso che portò i contendenti a mettere in campo strumenti bellici capaci di cancellare la vita dal pianeta. Nel contesto così percepito il compito dei sottomarini andava oltre la funzione strategica, essi divenivano l'unico strumento attraverso il quale era possibile raggiungere i mari caldi, sfuggendo al dominio esercitato in superficie dalle portaerei statunitensi.69

Più o meno consapevolmente, l'ideologia del sommergibilisti sovietici si ricollegava a quella dei loro colleghi tedeschi della Prima e della Seconda Guerra Mondiale, che si erano sacrificati

68 Tom Clancy-John Gresham, Submarine: A Guided Tour Inside a Nuclear Warship, cit., pp. 115-119. 69 Peter Huchthausen, K-19, The Widowmaker, cit., pp. 100-104.

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sopportando perdite spaventose, nel tentativo vano di strappare agli anglo-americani il controllo dei mari e dell'Oceano Atlantico, in particolare, o comunque di rompere l'assedio nel quale si sentivano rinchiusi. Il senso dei tanti caduti sovietici fra i sommergibilisti, più numerosi di quelli statunitensi che pure non mancarono, va collegato con quello della Guerra Fredda.70

Nessuna guerra ha un senso, l'unico dato positivo che possiamo riconoscere a quest’ultima è di non essere mai stata combattuta frontalmente, con l'impiego di tutte le risorse disponibili e giungendo alle estreme conseguenze dell'annientamento dell'avversario. All'inizio degli anni Novanta del secolo scorso la dirigenza sovietica comprese di trovarsi alla guida di un progetto sconfitto e accettò il verdetto della storia senza cercarne un'inutile e disperata conferma in un confronto armato, del quale l'umanità intera deve esserle grata. Ciò non contraddice, anzi conferma l'idea che per alcuni decenni i vertici politici sovietici e buona parte di quelli statunitensi, siano vissuti all'interno di un sistema di riferimento distorto, fondato sulla credenza che l'antagonista si stesse preparando alla guerra e che l'avrebbe scatenata non appena avesse ritenuto di trovarsi nelle condizioni di vincerla, anche a costo di sopportare perdite spaventose. Ciò non era affatto vero, come poi si è dimostrato. Né i sovietici né gli occidentali intendevano combattere un conflitto atomico, neppure nella sicurezza di uscirne vincitori. Ugualmente, per quasi mezzo secolo entrambi gli schieramenti hanno ritenuto giusto dedicare un'aliquota notevole delle proprie risorse agli armamenti nucleari e accettare sacrifici anche pesanti in termini di perdite umane per combattere una sorta di guerra delle ombre, più che un Terzo Conflitto Mondiale.71

70 John Pina Craven, The Silent War, cit., pp. 66-68.

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