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La mattina del 14 agosto 2000 l'ammiraglio della NATO Einar Skorgen, comandante dell'area denominata “Norvegia del Nord”, utilizzò per la prima volta la linea telefonica diretta che dall'anno precedente collegava il suo quartier generale di Bodo con quello dell'ammiraglio russo Vyacheslav Popov, comandante della Flotta del Nord, a Severomorsk. A rispondergli fu un ufficiale russo che parlava un inglese senza inflessioni. Comunicò che Popov era a bordo della sua ammiraglia, dalla quale dirigeva le manovre in corso. Skorgen, eseguendo le istruzioni ricevute dal governo norvegese, chiese delucidazioni su quanto stava avvenendo nel Mare di Barents e nello stesso tempo offrì alla flotta russa ogni assistenza possibile nel caso ce ne fosse la necessità. Gli fu chiesto di attendere. Dopo circa un minuto giunse la seguente risposta: “L'ammiraglio Popov la saluta. La situazione è sotto controllo e non abbiamo bisogno di assistenza. La ringrazia per la sua offerta”. Con queste parole la Marina della Federazione Russa rifiutava con cortesia, ma fermamente, la prima offerta di aiuto degli occidentali nel corso di una delle più gravi crisi attraversate in tempo di pace, il cui esito si sarebbe rivelato tragico.

Tutto era cominciato alle ore 11.28 del mattino di due giorni prima, sabato 12 agosto. Il sonar passivo del sottomarino K-18 Karelia, un lanciamissili balistici della classe “Delta IV”, aveva registrato un'esplosione subacquea di notevole violenza, seguita, alla distanza di circa due minuti, da una seconda esplosione, molto più potente. Dato che l'unità stava partecipando alle esercitazioni navali della Flotta del Nord, il suo comandante Andrej Korablev non ritenne di dover segnalare al quartier generale l'avvenuta rilevazione, attribuendola ad aspetti delle manovre e dell'impiego delle armi previsti per la giornata, dei quali lui non era stato messo a conoscenza.111

Circa all'ora nella quale a bordo del Karelia si avvertivano gli scoppi subacquei, il sottomarino K-141 Kursk, un lanciamissili da crociera della classe “Oscar II” entrato in servizio da meno di cinque anni, tra l’altro una delle unità di maggior prestigio della flotta russa, avrebbe dovuto lanciare contro l'ammiraglia delle esercitazioni, l'incrociatore Piotr Velikij, due siluri privi di testata esplosiva, un 65-76 e un USET-80. Quest'ultima sigla individuava un ordigno spinto da un motore elettrico. La 65-76 si riferiva invece a un siluro da 650 millimetri di diametro, calibro impiegato solo nella flotta sovietica e poi in quella russa a partire dal 1976. La sua propulsione era affidata ad una turbina azionata da una miscela di kerosene e perossido di idrogeno, che rilasciando ossigeno consentiva la combustione del combustibile in una condizione anaerobica. Il sistema derivava in linea diretta dagli studi sulla tecnologia del motore Walter, inutilmente inseguita dai tedeschi nel corso della Seconda Guerra Mondiale. 112

In realtà nessuno dei due siluri venne mai lanciato e dal Kursk non erano pervenute comunicazioni. Per parte loro neppure i sistemi di richiesta di soccorso si erano attivati, né quelli per il funzionamento dei quali sarebbe stato necessario l'intervento umano né quelli meccanici o elettronici. Non si era sganciata la boa di allarme situata a prua del sottomarino e destinata a liberarsi automaticamente in caso di situazione di emergenza per risalire in superficie, segnalare la posizione dell'unità e richiedere l'intervento di soccorritori. Da questo, gli ufficiali a bordo del Piotr

111 Robert Moore, A time to die: the untold story of the Kursk tragedy, New York, Crown Publishers, 2002, p. 26. 112 Per un immagine del Kursk vedi in Appendice l’Allegato 33; Sergio Valzania, Guerra sotto il mare, cit., pp. 207-

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Velikij avevano dedotto che il Kursk aveva subito un'avaria al sistema di comunicazioni che gli impediva di mettersi in contatto con il comando della flotta. Si trattava di un incidente già occorso ad altre unità russe. Alle 0re 18.00 si decise comunque di far alzare in volo un Ilyushin-38 per condurre una ricerca in superficie del Kursk, sfruttando le ultime ore utili di luce, in attesa delle 23.00, ora alla quale era attesa una comunicazione da parte dei quattro sottomarini che partecipavano alle esercitazioni per confermare l'uscita dall'area operativa e l'inizio del rientro in porto. Per maggiore sicurezza venne anche messo in stato di allerta il capitano Alexander Teslenko, comandante del gruppo di ricerca e salvataggio della Flotta del Nord, il quale dette ordine di riunire l'equipaggio della Mikhail Rudnitsky, la maggior unità di appoggio di cui disponeva, sulla quale erano alloggiati i due piccoli mezzi di soccorso subacquei assegnati al suo reparto.

Alle 20.00 l'Ilyushin-38 tornò alla base senza avere individuato nessuna traccia sospetta sul mare, al momento calmo, ma anche senza alcuna notizia del Kursk. Solo allora l'ammiraglio Popov chiese al Karelia, il sottomarino più vicino all’unità nel corso dell'esercitazione, di segnalare ogni anomalia che avesse registrato nel corso della giornata. Il comandante Korablev rispose informando il comando in merito al rilevamento delle esplosioni occorso alle 11.28 del mattino. Ricevette di rimando la richiesta: “Comunicate i dettagli della vostra posizione, della velocità, del momento esatto e di ogni possibile dato utile a determinare la distanza e la sorgente delle esplosioni”.113

Trascorse ancora del tempo. Alle 23.00 il Kursk non dette notizia di sé e alle 23.30, dodici ore dopo che gli scoppi erano stati uditi dall'idrofono del Karelia, l'ammiraglio Popov ordinò di lanciare l'allarme generale e di comunicare ai comandi sottoposti che il sottomarino, identificativo tattico K- 141, con al comando Gennady Lyachin, era da considerarsi disperso. Alle 07.00 della domenica il ministro della guerra, Igor Sergeev, informava della situazione Vladimir Putin, presidente della Federazione Russa da pochi mesi. La comunicazione dovette essere piuttosto reticente, dato che lo stesso non interruppe le proprie vacanze a Sochi e si fece riprendere addirittura in giardino dalle telecamere della stampa internazionale mentre cucinava sul barbecue. 114

Non è chiaro chi, come e quando abbia individuato il relitto del Kursk, adagiato sul fondo del Mar di Barents a poco più di 100 metri di profondità. Ciò dipende anche dalla circostanza che al suo ritrovamento partecipò il Dronov, un minisommergibile dei servizi segreti russi, impiegato di regola in operazioni di spionaggio, le cui caratteristiche e la cui intera attività sono considerate rigorosamente classificate. Sembra che il Dronov abbia raggiunto il Kursk nella mattina di domenica 13 agosto e sia riuscito a riscontrarne le condizioni. L'intero compartimento di prua risultava distrutto e in larga parte scomparso. Irreparabilmente danneggiati erano anche i compartimenti due, tre e quattro, devastati dalla stessa esplosione che aveva sconvolto la prua del sottomarino. Apparivano invece relativamente intatti i compartimenti prodieri, dal nove al cinque. Proprio in quest’ultimo si trovavano i reattori atomici, protetti da lastre di acciaio dello stesso spessore di quelle dello scafo resistente che non avevano minimamente ceduto alla violenza dello scoppio avvenuto a prua. Ciò lasciava ipotizzare che si fossero salvati gli uomini rimasti nei

113 Tom Clancy-John Gresham, Submarine: A Guided Tour Inside a Nuclear Warship, cit., p. 188. 114 Robert Moore, A time to die: the untold story of the Kursk tragedy, cit., pp. 35-40.

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compartimenti di poppa e che essi si fossero rifugiati nell'ultimo, il nono, dove, nei pressi del portello di uscita d'emergenza, erano collocate le attrezzature di salvataggio.115

Come abbiamo detto in precedenza, la principale apparecchiatura dei sottomarini della classe “Oscar II” in caso di naufragio era rappresentata da una cellula di sopravvivenza in grado di ospitare l'intero equipaggio, sganciarsi dall'unità danneggiata e raggiungere in autonomia la superficie del mare. Tale attrezzatura si trovava però in corrispondenza della vela del Kursk, ossia nella parte distrutta del battello. Nel frattempo anche la nave appoggio Mikhail Rudnitsky aveva raggiunto la zona operativa. Alle 17.20 di domenica 13 erano trascorse circa trenta ore dal momento dell'esplosione e venne calato in mare il sommergibile di salvataggio Priz, con al comando Alexandr Maisak e pilotato da Sergej Pertsev. Non si trattava di un mezzo potente e ne tantomeno moderno, aveva infatti sedici anni. La sua velocità massima era di 2 nodi e le batterie elettriche gli consentivano un'autonomia molto limitata, con un tempo di ricarica di dodici ore.

Nonostante questi limiti, nel corso delle esercitazioni svoltesi l'anno precedente la Rudnitsky era riuscita a portare in superficie sei marinai, recuperandoli da un sommergibile diesel poggiatosi sul fondo del mare in prossimità di Vidyayevo. Il compartimento di poppa del Priz era in grado di ospitare fino a diciotto persone, trasferendole da un sottomarino immobilizzato attraverso portelli disegnati per combaciare alla perfezione. Manovrando con delicatezza e determinazione, utilizzando le luci e il sonar attivo il meno possibile per risparmiare energia, Maisak e Pertsev raggiunsero il relitto del Kursk. Si accorsero presto di una corrente trasversale che si muoveva alla velocità di circa un nodo rendendo complesso e incerto l'approccio al portello di salvataggio del compartimento nove, che pure avevano individuato.

Il sistema di aggancio al sottomarino era mutuato da quello installato nelle stazioni spaziali. Prevedeva l'innesto della struttura in avvicinamento su di un'asticella che spuntava di pochi centimetri dal centro del portello. Realizzata questa manovra il mezzo di soccorso avrebbe dovuto posarsi sul battello creando una piccola camera sigillata; dopo che una pompa l'avesse svuotata, la semplice pressione dell'acqua circostante avrebbe mantenuto saldati i due scafi.

Infilare l'asticella nell'incavo del Priz risultò impossibile. I due mezzi non si trovavano nello spazio privo di atmosfera, ma in mare e non in una zona riparata vicino alla costa, bensì al largo, esposti a tutte le correnti. Il piccolo sommergibile di salvataggio non disponeva della potenza necessaria per mantenersi fermo e comunque le sue batterie si esaurivano rapidamente. Dopo una serie di tentativi infruttuosi, Maisak e Pertsev dovettero riemergere per non rischiare di rimanere anche loro sul fondo, privi di energia. La navigazione subacquea del Priz era durata un'ora e dieci minuti, dopo la quale ne dovevano trascorrere dodici perché le batterie si ricaricassero. Intanto era arrivata una brutta notizia per il comandante Teslenko ei suoi collaboratori: si prevedeva entro breve l'arrivo di un temporale estivo che avrebbe posto fine al bel tempo, favorevole alle ricerche, di cui avevano goduto sino ad allora. Forse, quello appena fallito era l'unico tentativo di soccorso che sarebbe stato possibile effettuare.

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In realtà, la mattina del giorno successivo, lunedì 14 agosto, il mare era ancora sufficientemente calmo da consentire una seconda immersione del Priz, che di nuovo raggiunse il relitto. Neppure in questa occasione Maisak e Pertsev furono in grado di agganciare i due portelli, la corrente subacquea era troppo forte per consentire al sommergibile di mantenersi stabile e di effettuare la delicata manovra di allineamento necessaria a far combaciare i meccanismi e creare la camera stagna di collegamento con il compartimento di poppa del Kursk.116

Una terza immersione fu tentata martedì, dopo aver atteso che le batterie si fossero ricaricate, ma il vento era aumentato e il mare aveva iniziato ad agitarsi. Si rischiava di danneggiare irreparabilmente il mezzo subacqueo facendolo urtare contro lo scafo della Rudnitsky, la nave appoggio dalla quale doveva essere calato in acqua. Si chiudeva così con un nulla di fatto anche la terza giornata trascorsa dal momento del disastro. Le tensioni interne all'apparato militare russo andavano crescendo, sotto la spinta di una stampa ormai divenuta libera, alla quale i familiari dei marinai imbarcati sul Kursk si rivolgevano con crescente insistenza. I vertici della Marina russa e del ministero della difesa erano riluttanti a chiedere l'aiuto dei mezzi di soccorso occidentali per molteplici ragioni, due soprattutto: il prestigio e il timore di rivelare i segreti militari nascosti a bordo del più moderno sottomarino della flotta. Ambedue gli atteggiamenti provenivano dalla tradizione sovietica e forse ancora più da lontano; dalla rappresentazione di grande potenza della Russia zarista, che rifiutava di riconoscere la superiorità tecnologica raggiunta da altri Paesi. Le offerte di collaborazione non erano mancate, dato che la mattina di lunedì, due giorni dopo che si era verificato il disastro, la stampa russa ne aveva diffuso la notizia, anche se in termini molto addomesticati. Per il momento la Marina si limitava ad ammettere che il Kursk era bloccato sul fondo del Mar di Barents a causa di un guasto tecnico, mentre l'equipaggio risultava illeso.

Si dovette attendere il primo pomeriggio di mercoledì perché l'ammiraglio Popov, comandante della Flotta del Nord, telefonasse all'ammiraglio norvegese Skorgen sollecitando un suo intervento. Era la prima volta che i russi chiedevano ad un ex avversario della Guerra Fredda un aiuto in ambito militare. Poche ore dopo anche due ammiragli del ministero della difesa di Mosca, Vladislav Ilyin e Oleg Pobozny, si rivolgevano all'addetto militare dell'ambasciata inglese per richiedere la partecipazione britannica alle operazioni di soccorso ai possibili sopravvissuti rimasti intrappolati a bordo del Kursk. Non si è mai chiarito se le due iniziative fossero coordinate né se qualcuno le avesse autorizzate e in che forma lo avesse fatto. Rimane significativo che le richieste venissero rivolte ai vicini norvegesi e agli inglesi, evitando di coinvolgere gli Stati Uniti, lo storico rivale della potenza subacquea sovietica che, pur se in parte molto ridotta, si era trasferita alla Federazione Russa. Sia inglesi sia norvegesi agirono con grande rapidità, anche perché da alcuni giorni si preparavano a intervenire. I primi inviarono la Normand Pioneer, con a bordo l'LR5, uno dei sommergibili di salvataggio più avanzati esistenti al mondo; i secondi si rivolsero ad una compagnia petrolifera, la Stolt Offshore, che accettò di trasferire la sua Seaway Eagle dal Nord della Norvegia al Mar di Barents, mentre si raccoglievano i sommozzatori di profondità in grado di effettuare le immersioni attorno al relitto. Sia le navi che il personale convocati per il tentativo di salvataggio erano di altissimo livello tecnico e professionale.

116 Robert Moore, A time to die: the untold story of the Kursk tragedy, cit., pp. 46-55; Sergio Valzania, Guerra sotto il

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Gli apparati elettronici e il sistema di propulsione della Seaway Eagle la mettevano in grado di mantenere la propria esatta posizione in quasi ogni condizione di mare con uno scarto inferiore al metro. Tale capacità le consentiva di calare e di garantire con qualsiasi tempo la stabilità della campana che costituiva la base operativa dei sommozzatori, i quali potevano agire a grande profondità solo se fisicamente collegati con la superficie. Ciò serviva a fornire loro un costante apporto termico insieme allo scambio di informazioni e alla conoscenza dell'esatta posizione di chi si trovava fuori della campana. I sommozzatori agivano infatti in gruppi di tre, due operativi in coppia e un terzo pronto a intervenire in caso di difficoltà.

L'attività subacquea dei sommozzatori di profondità richiede una serie enorme di accorgimenti. Come è noto, sottoposta a grande pressione l'aria diviene tossica a causa dell'eccessiva concentrazione di ossigeno. Per lavorare a più di 100 metri sott'acqua gli uomini devono essersi assuefatti progressivamente a vivere in un'atmosfera artificiale, respirando una miscela di gas inerte e ossigeno con una concentrazione del 5%. Rimangono costantemente in questo ambiente fino al termine della campagna di immersioni, come avviene oggi con il moderno sistema iperbarico integrato, in dotazione al COMSUBIN. Allora inizia una fase di decompressione che può durare settimane intere e solo al suo termine essi sono di nuovo in grado di vivere alla normale pressione atmosferica respirando aria. Date queste necessità, perché possano lavorare è obbligatorio che le navi appoggio dispongano di una scialuppa di salvataggio attrezzata con una camera iperbarica nella quale i sommozzatori verrebbero trasferiti in caso di naufragio. Vista l'urgenza con la quale si interveniva sul relitto del Kursk fu concessa un'autorizzazione eccezionale per agire ugualmente in assenza di tale scialuppa.117

Mentre la Seaway Eagle e la Normand Pioneer facevano rotta alla massima velocità verso il luogo di affondamento del sottomarino, il tempo migliorava sensibilmente e il mare si calmava. Giovedì pomeriggio, alle 16.40, fu possibile effettuare un nuovo tentativo di penetrare all'interno del Kursk impiegando il Priz. Questa volta alla guida c'era l'espertissimo Andrej Sholokhov, ma neppure lui fu in grado di agganciare i due portelli e di consentire quindi l'apertura del compartimento nove. Nel frattempo si verificava la qualità dei rapporti esistenti fra gli ammiragli russi e i tecnici occidentali inviati a fornire assistenza ai soccorritori. Fu presto evidente che per effettuare un intervento efficace era necessario disporre di molte informazioni tecniche relative alle caratteristiche del Kursk e in particolare al portello di salvataggio con il quale era attrezzato il suo compartimento di poppa. Intanto i servizi di informazione russi continuavano ad accreditare l'ipotesi che l'incidente fosse dovuto a una collisione del Kursk con il Memphis, un sottomarino americano che stava seguendo lo svolgimento delle manovre della Flotta del Nord. Due Ilyushin-38 furono inviati in esplorazione alla ricerca del battello danneggiato. Il governo russo richiese formalmente che gli venisse concesso di ispezionare lo scafo del Memphis per controllare che non ci fossero tracce di un contatto, ma la Marina statunitense si oppose con un netto rifiuto, ritenendo che un'eventuale concessione in tal senso avrebbe costituito un pericoloso precedente. L'episodio non aiutò a tranquillizzare gli animi. Ai responsabili militari del gruppo di assistenza inglese fu negata l'autorizzazione a scendere a terra

117 Robert Moore, A time to die: the untold story of the Kursk tragedy, cit., pp. 88-91; Sergio Valzania, Guerra sotto il

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per incontrare i colleghi russi. Il Patto di Varsavia si era sciolto il 1° luglio 1991, ma l'ostilità e la diffidenza verso gli ufficiali di eserciti facenti parte della NATO erano ancora vive.

Quando la Seaway Eagle e la Normand Pioneer giunsero sulla zona dell'affondamento, sabato 19 agosto, furono fatte attraccare a una certa distanza dalla verticale del punto dove il Kursk era posato sul fondo. I primi incontri fra i tecnici occidentali e gli ammiragli russi furono molto tesi. I tecnici chiedevano informazioni precise per intervenire, i militari volevano imporre limitazioni di ogni genere al loro campo operativo. Nonostante le difficoltà di collaborazione, la mattina di domenica 20 agosto due sommozzatori, uno inglese e uno norvegese, raggiunsero il portello di salvataggio collegato con il compartimento nove. Il loro incarico era verificare le condizioni dell'impianto e se possibile scoprire se la camera stagna che si trovava sotto di esso era allagata.

Si verificò allora un ulteriore intoppo dovuto a un'errata informazione fornita dai russi ai responsabili occidentali della missione di salvataggio. Per valutare le condizioni della camera stagna sotto il portello era necessario ruotare una valvola posta su di esso, la cui apertura avrebbe consentito una piccolissima infiltrazione d'acqua al suo interno. Qualora essa si fosse verificata, con la corrispettiva ed evidente fuoriuscita d'aria, si sarebbe saputo che l'interno del Kursk non era allagato, o almeno che esistevano buone probabilità che non lo fosse. Per agire evitando il rischio di danneggiare il portello bisognava sapere da che parte girare la valvola. I russi avevano assicurato che essa si apriva ruotando in senso antiorario. Dopo una lunga serie di inutili tentativi si chiarì che l'informazione era errata: la valvola si apriva in senso orario. Superato anche questo ostacolo, si scoprì che la camera stagna era allagata. Le speranze di trovare qualcuno ancora in vita nel sottomarino erano di fatto scomparse.118

A seguito dell'incidente della valvola, il responsabile civile inglese delle operazioni, nonché selezionatore dei sommozzatori incaricati delle immersioni attorno al relitto del Kursk, Graham