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Il “battesimo” letterario del Domenichi, “eclettico” volgarizzatore e curatore di testi coevi e di classici filtrati in chiave “riformata”, in pieno

accordo con l‟ “eclettica” politica editoriale dell‟imprenditore veneziano, fu

consacrato dall‟edizione giolitina delle Rime.

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1958). Sull‟argomento (produzione incunabolistica, numero di edizioni, imprese tipografico-editoriali, prestigio dell‟industria libraria veneziana in termini di capitalizzazione e occupazionali) si vedano: i censimenti dell‟IGI e di EDIT 16, QUONDAM 1988; GRENDLER 1983 (il Grendler stima fra le 15.000 e le 17.000 stampe nella Serenissima); FAHY 1980, (alle pp. 59-61 del presente lavoro il Fahy dedica una stima di gran lunga più ottimista, che si aggira intorno alle 30.000 stampe); ASCARELLI - MENATO 1989. L‟editoria veneziana fu contrassegnata dalla nascita di grosse aziende familiari – i Manuzio, i Sessa, i Giunta, i Giolito - , ma è pur vero che le piccole aziende fecero da catalizzatrici per quelle importanti, onde evitare pericolose concorrenze e intrusioni verticiste. Per l‟adozione di nuovi caratteri tipografici, di formati ridotti, di apparati iconografici, nonché di accattivanti soluzioni adottate per i frontespizi, si vedano BALSAMO – TINTO 1967; IRIDE 1992; BARBERI 1969; ZAPPELLA 1986.

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Cfr. DI FILIPPO BAREGGI 1988, 13-51.

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La ritrovata “libertà” nella Serenissima, grazie alla consapevolezza del D. di essersi «tolto» dall‟ «arte vergognosa e rea/Da vender parolette», viene decantata nel sonetto CXI (DOMENICHI 2004,67): «Qui, dove il ciel dispensa eterna pace/Di che agli altri paesi è tanto avaro,/D‟Adria nel seno aventuroso e chiaro,/In cui la libertà secura giace,/Vivo, senza provar d‟Amor la face,/Vita di cui non è stato più caro,/Fuor de

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l‟imperio altrui crudo ed amaro:/E l‟esser qui però mi giova e piace./Toltomi a l‟arte vergognosa e rea/Da vender parolette, i giorni e l‟ore/Spendo in più degni ed onorati studi./Del presente mi godo, e quel ch‟i‟avea/Non bramo: sol desio gloria ed onore/Per non provar del tempo i colpi crudi». Emerge il topos della fuga da Piacenza: sulla scia del Poggiali, che documenta un‟accesa lite con il padre, notaio e causidico di spicco nella città emiliana, e dopo la pubblicazione di GARAVELLI 2001, ma anche sulla base del ritrovamento del testamento del padre del D. e dunque di un corpus di notizie inedite, Giorgio Fiori ricostruisce la vicenda in un interessante saggio dai risvolti biografico-genealogici (FIORI 2002). Se ci atteniamo ad alcune asserzioni dello stesso D., dobbiamo ipotizzare la sua voglia di dedicarsi alle lettere e di cercare altrove fortuna, dal momento che non era soddisfatto della professione legale, quantunque sia difficile credere che le sue, come traspare a tratti, fossero anche motivazioni di carattere economico (quand‟anche il mestiere di causidico non rendesse abbastanza, che problemi poteva avere un benestante come lui?). Il Doni, nei suoi scritti demistificatori (Mondi, in DBI 1991, 165), oltre a tacciarlo di eterodossia, non esita a rivelarne l‟eterosessualità: per il Doni Domenichi è „anceps‟ sessualmente, perché si è piacevolmente intrattenuto con monache e fanciulli (con allusione alla sua “dottorale” posa da giurista, lo bolla come doctor utriusque sexus, cfr. FIORI 2002, 85). Le accuse del Doni hanno di recente destato maggiore attenzione, in quanto associate a similari affermazioni nella procura del fratello del Domenichi, Gian Maria, a Clemente Pietra (senatore e giurista pavese) e all‟altro fratello Alessandro. Gian Maria, in combutta con Lodovico e Alessandro per questioni ereditarie, aveva cercato di invalidare il testamento di Lodovico, morto probabilmente il 28 agosto del 1564, dal quale era escluso, adducendo come pretesto la sodomia e l‟eresia. L‟eresia, come sappiamo, era stata condannata dall‟Inquisizione fiorentina, ma la devianza sessuale (ritengo presunta) no. Nella procura del 10 dicembre 1564 si legge che il testamento dovesse essere ritenuto invalido «tam ex causa et ratione nefandi et reprobi vitii sodomitici quam detestabilis et execrabilis pravitatis heretice tunc ex alia causa» (rogata da Antonio Maria Provinciali). Velata allusione a certi costumi sessuali si riscontra, a mio avviso, NASALLI ROCCA 1896, 137: «Dalla nascita aveva egli sortito un‟indole bizzarra, incostante, turbolenta. Scrittore sporchissimo, non rifuggiva dal mescolarsi nelle dispute chiesastiche, alle quali probabilmente era attratto dalla stessa irregolarità dei costumi, non essendo raro, come disse taluno, che si lesini

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sul dogma nella lusinga di qualche sconto sulla morale». Piscini adduce come giustificazione dell‟abbandono di Piacenza un certo atteggiamento compassato e ironico del Nostro, che avrebbe alluso all‟episodio servendosi del notorio registro lessicale dell “impresa” e del “motto”: traslata proficit arbos, che figura nell‟edizione lionese Delle

Imprese del Giovio del 1574, alla p.160 («E così ho figurato un albero di pesco carico di

frutti, il quale albero non ha felicità nel suo terreno natìo per esser velenoso, ma trapiantato poi in terreno lontano e fertile prende felice miglioramento» (DOGLIO 1978, 143 sgg). Sappiamo, comunque, che il Domenichi non ritornò più a Piacenza, se non nel 1558, per dirimere le controversie legali con il fratello Gian Maria e per testare solo in favore del fratello Giovanni, erede assoluto di un patrimonio che sarebbe finito, a discendenza estinta, nelle mani di un monastero. Il sonetto, scritto verosimilmente tra la fine del ‟43 e l‟inizio del ‟44, è un prezioso documento dell‟odio del D. per la città di Piacenza, ma credo per qualsiasi forma di cortigianeria o di mestiere imposto dai tempi: la città, ma anche il conformismo classicista e il convenzionalismo tout court degli Accademici, sono icasticamente veicolati dalla perifrasi «Fuor de l‟imperio altrui crudo ed amaro»; è lecito, a mio avviso, scartare la voglia di cercar solo fortuna economica altrove, una fortuna che il D. già possiede e che non ha bisogno di incrementare («e quel ch‟i‟avea/Non bramo»); è parimenti lecito scorgere, fra le righe, un temperamento avventuroso, gaudente, libero per non dire libertino («D‟Adria nel seno aventuroso e chiaro»; «Del presente mi godo»;), così come il desiderio di essere comunque annoverato fra i “poeti laureati” («sol desio gloria ed onore»). Il sonetto è manifesto esemplare di un classicismo eteroclassicista. A sostegno della mia tesi, e cioè che il

target non fosse solo ed esclusivamente Piacenza, ma qualsivoglia altra città o

istituzione che agisse da freno all‟indole capricciosa del Nostro e che alimentasse, anziché sedare (come si è soliti comunemente pensare per chi non ha fissa dimora per inquietudine) il suo furor non amoroso o semplicemente religioso e politico, ma più latamente fisiologico e connaturato (e credo che il Domenichi anticipi ampiamente le complesse volute intimistiche della spiritualità tassiana), basti considerare il sonetto LVII (l‟edizione di riferimento è sempre quella a cura di Gigliucci): «Non sia che biasmi il mio gentil desio/Tutto a bell‟opre ed onorate inteso;/Anzi, di pari ardor essendo acceso,/Lodilo ogni altro cor onesto e pio./Né prenda maraviglia altri perch‟io,/Quasi da pensier folle e vano offeso,/Sovra l‟uso mortal grave odio

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A Venezia il D. poté finalmente passare come il vero poligrafo eclettico

e dar voce, in un ambiente libertino per storia e per cultura, al suo

preso/Mostri col mio terren dolce e natio./Nasce pianta sovente in loco aprico/Ch‟ingegno umano in orrido trasporta, Ond‟abbia più le stelle e „l cielo amico./E però questo esempio mi conforta;/Né perché il patrio suol mi sia nemico/Vivono i sensi, e la ragion è morta». Il furor del D. scivola nella semantica di un desiderio dell‟erranza, che diventa «pensier folle e vano»: il «desio» iniziale, che chiaramente rientra nel dettato poetico guinizzelliano di un‟innata “gentilezza” di chi ama, ma anche di chi è dedito alle lettere (a quanto sembra l‟unica “impresa” degna d‟ “onore”), diventa invasamento e vaneggiar (nel senso etimologico, a mio avviso, di quel «vano») di chi arriva a odiare il «natio loco» non per insufficienza emotiva del „loco‟ stesso, quanto per dispositio interiore all‟erranza. E che Piacenza non sia “colpevole” sic et simpliciter lo attesta la prima terzina: la città è metaforicamente il «loco aprico»; l‟ «ingegno umano», ossia l‟indole rivolta al male, trasporta la pianta, buona ab origine, in «orrido loco» (si tratta di Mantova, perché il D., dopo aver lasciato Venezia, passò per Mantova, prima di stabilirsi poi a Firenze). Il sonetto, di chiara matrice petrarchesca (cfr. Rvf, 211), rappresenta un superamento del modello sul piano della connotazione tematica: la lirica archetipica presenta il furor dei sensi («regnano i sensi, et la ragione è morta», v.7) come naturale conseguenza dell‟Amore, della Voglia, del Piacer, dell‟Usanza, della Speranza, tutte robuste personificazioni dell‟innamoramento per Laura. Nel calco domenichino il poligrafo parla di un altro «desio», quello rivolto alle opere belle ed onorate, quantunque permanga l‟aura stilinovistico-petrarchesca dell‟aggettivazione connotante il desiderio («gentil»). Nel sonetto petrarchesco tutto tende, sul piano delle sfere significative, al cieco errore e all‟invischiarsi in un «laberinto» senza via di uscita. Nel componimento del D., invece, si delineano corpose antitesi semantiche, talora pure incastonate in dittologie («belle ed onorate», «onesto e pio» vs «folle e vano»; «aprico» vs «orrido», «sensi» vs «ragione»). L‟ultima terzina suggella la non estraneità della città natale per chi l‟ha deliberatamente lasciata: l‟istinto a viaggiare prevale sulla ratio… la diaspora non annulla, però, le origini.

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«antispagnolismo»

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e alla sua tolleranza filoriformata. Il biennio 1544-

1545 fu un exploit editoriale: su diciannove edizioni complessive (fra

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Cfr. DI FILIPPO BAREGGI 1988, 25, ma già BONGI 1863, XXIV. La studiosa ricostruisce la vicenda dell‟approdo veneziano sulla base di una fitta trama di eventi che, se da un lato simulano le vicende riportate da quasi tutti i biografi del D., dall‟altro tracciano un sentiero nuovo, chiamando in causa pure i tristi episodi del fratello Alessandro. Troppo «scopertamente maldicenti» le sembrano le accuse morali del Doni; inconsistente risulterebbe il pretesto del rancore paterno per l‟abbandono della professione notarile (Lodovico era segnalato come „erede‟ in un estimo cittadino del 1558 e sappiamo, ribadisce la Di Filippo Bareggi, che mantenne sempre ottimi rapporti con il padre anche da Firenze). Ambigua, invece, risulta la trama di relazioni politiche: filofarnese («come dimostra il fatto che, non appena Pier Luigi Farnese mise piede in Piacenza, egli fu invitato a tornarvi»), tuttavia pare il poligrafo avesse avuto un fratello impiccato a Pavia dagli imperiali per aver partecipato a una congiura contro Ferrante Gonzaga. La studiosa stabilisce una colleganza tra i fatti del 1551 (terminus post quem per l‟impiccagione, considerato che la notizia appare, proprio in riferimento a quella data, nell‟edizione veneziana Marcolini de La seconda libraria del Doni, alla voce «Ganimede da Savona») e l‟estimo del ‟58, che non registra Alessandro, proprio perché macchiatosi di un grave omicidio. La richiesta di salvacondotto formalizzata dal D. a Cosimo I sarebbe stata esaudita, secondo la Di Filippo Bareggi, tra la fine del ‟48 e l‟inizio del ‟49 (Il mestiere di scrivere, cit., p. 46, n.118). Concordo con la ricostruzione del Garavelli (GARAVELLI 2001): false, secondo lo studioso, le fantasiose congetture di D‟Alessandro (D‟ALESSANDRO 1978, 173) sulla fuga improvvisa del poligrafo alla volta di Venezia; inverosimili pure le accuse della partecipazione alla fallita congiura contro Ferrante Gonzaga, supportate da una celebre delazione del Doni a Ferrante (da Firenze, 3.3.1548, delazione conservata a Parma, Archivio di Stato, Epistolario scelto, filza 81, edita insieme ad un‟altra al card. Farnese dello stesso tono in BONGI 1863, XLV- XLVII). Al termine della congiura sarebbe stato impiccato un fratello del D., Alessandro, che il Garavelli esita a riconoscere come artefice di maneggi politici, ma per il quale si limita a parlare di un omicidio, che lo avrebbe portato a Firenze dal fratello Lodovico (per gli estremi cronologici fissati da Garavelli, che ribalta la ricostruzione della Di Filippo Bareggi (DI FILIPPO BAREGGI 1988, 46, n. 118), si vedano

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letteratura medievale, letteratura contemporanea, storia antica, storia

contemporanea, religione) si annoverano dodici edizioni solo nella sezione

letteratura, sei edizioni storiche e una traduzione religiosa.

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le lettere (proposte in Appendice a GARAVELLI 2001, 199-202) di Francesco Vinta a Cosimo I (Casale, 22.1.1552, Firenze, Archivio di Stato, Mediceo del Principato,

Carteggio Universale di Cosimo I, 407, f. 238, già edita da BERTOLI 1996, 115-116) e di Cosimo I, ma di Lodovico Domenichi, ad Ottavio Farnese, Firenze, s.d., ma post 1.11.1556-ante 10.1.1557 (Firenze, Archivio di Stato, Mediceo del Principato, 472, f. 490r; si tratta di un autografo del D., inedito e riprodotto da Garavelli).

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Cfr. DI FILIPPO BAREGGI 1988, 70-71. In particolare si vedano il grafico 7 e la tabella 7 per i dati statistici (pp.339-343). Sezione letteratura: Rime (1544); edizione di due commedie del Bentivoglio – I Fantasmi (‟44, ‟45, ‟47) e Il Geloso (‟44, ‟45, ‟47, ‟60); edizione/riedizione del Petrarca con l’espositione d’Alessandro Vellutello (‟44, ‟45, ‟47, „50, ‟52); edizione del Corbaccio (‟45, ‟51, ‟82, ‟97) e dell‟Orlando

innamorato riformato per L. Domenichi (‟45, ‟49, ‟53 in due differenti edizioni, ‟65,

‟74 in due edizioni, ‟80, ‟83, ‟84, ‟88); l‟edizione della Vita di Esopo di Giulio Landi (‟45); l‟edizione del Morgante Maggiore […] con gli argomenti e le figure (‟45) e il primo volume delle Rime diverse di molti eccellentissimi autori (‟45, ‟46, ‟49, ‟50, ‟65, ‟86, 1694). Come è facile arguire, alcune edizioni furono dei veri e propri best-seller. Edizioni di storia: La prima guerra de’ Cartaginesi co’ Romani, libera riduzione da Polibio del Bruni (‟44, ‟45); La repubblica e i magistrati di Vinegia del Contarini (‟44, ‟64); Historia […] dell’origine di Vinegia del Giustiniani (traduzione, in due contemporanee edizioni, nel ‟45); Delle imprese de’ Greci, degli Asiatici, de’ Romani et

di altri, con due frammenti delle repubbliche et della grandezza di Roma (‟45, ‟46, ‟53,

‟63, ‟64). Il D. continuerà a pubblicare per le tipografie veneziane fino al ‟49, pur essendosi allontanato dalla Repubblica: oltre a Senofonte e al Giovio, in questo periodo D. curò l‟edizione delle Rime di Remigio Nannini detto Fiorentino (‟47) e quelle di Laura Terracina (dal ‟48 al ‟65 quasi ininterrottamente riedite). Inoltre, redasse traduzioni di storici contemporanei: Dell’origine et fatti de’ re longobardi (‟48 e ‟58 a Venezia, ‟49 a Firenze) e Il fatto d’arme del Taro (‟49) del Benedetti. Inoltre, da segnalare, come ulteriore riprova delle aperture “eterodosse” del Nostro, l‟edizione di

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Giovanni Antonio Menavino, I Cinque libri della legge, religione, et vita de’ Turchi et

della corte, & d’alcune guerre del Gran Turco […] Oltre ciò, una prophetia de’mahomettani […] & altre cose turchesche non più vedute […] tradotte da m. Lodovico Domenichi, In Vinegia, appresso Vincenzo Valgrisi, 1548 (ristampato dal

Torrentino, 1551). Gli anni ‟50 coincisero con l‟impegno del Domenichi sull‟altro fronte editoriale, quello fiorentino (cfr. DI FILIPPO BAREGGI 1974), ma la risonanza veneziana, soprattutto nel quinquennio ‟50-‟55 (23 ristampe veneziane), è ancora molto forte. Dal ‟55 fino alla sua morte il D. lavorò a undici diversi titoli per le stamperie veneziane, abbracciando un po‟ tutti gli ambiti (cfr. DI FILIPPO BAREGGI 1988,72): la letteratura contemporanea (l‟edizione delle Lettere volgari del Giovio, nel 1560); la storia antica (le Vite di Plutarco, 1555, 1560, 1566, 1567, 1569, 1570, 1587, tutte a Venezia); la trattatistica [Ragionamento nel quale si parla d’imprese d’armi et d’amore (1556, 1557-58, 1558, 1560, 1562 a Venezia; 1559, 1561, 1574 a Lione; 1559 a Milano); i Dialoghi, cioè d’amore, della vera nobiltà, de’ rimedi d’amore, delle

imprese, dell’amor fraterno, della corte, della fortuna e della stampa, Venezia 1562; la

filosofia (Boezio, De’ conforti filosofici, uscito a Firenze nel 1550, per il Giolito nel 1562 e nel ‟63); Le opere morali di Plutarco, edite nel 1560 (ma la Di Filippo Bareggi non precisa che quella del ‟60 è un‟edizione lucchese) e nel 1567 (ristampa a me ignota, sulla base dei miei riscontri), l‟Historia Naturale di Plinio (1561, 1562, 1573, 1580, 1589, tutte edizioni veneziane); la religione (La spada della Fede per la difesa di

Christo contra i nemici della verità cavata dalle sante scritture tradotta da m. B. Buonagratia canonico e protonotario apostolico, del ‟63). Vengono annoverate anche

le opere di storia contemporanea – Commentario delle cose di Ferrara et de’ principi

d’Este del Giraldi (uscito nel 1556, ma riedito nel 1557), le Vite de’ principi di Vinegia

del Marcello (1557, 1558), le edizioni e traduzioni del Giovio (le Vite di Consalvo

Ferrando, 1557, di Ferrando Davalo, 1557, della Marchesa di Pescara, 1557, de’dicenove uomini illustri, 1561; gli Elogi, 1557 e 1560; le due parti dell‟Historia del suo tempo, 1553, ‟54, ‟55, ‟56, ‟81), Le due cortigiane, adattamento delle Bacchidi di

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Fiore all‟occhiello dell‟impresa fu Gabriele Giolito, che fece del libro

una «mercanzia d‟utile», ma anche «d‟onore»,

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declinando la doppia

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QUONDAM 1977, 51-104. Il primato tipografico veneziano, spiega Quondam, si giustifica nel quadro istituzionale (politico ed economico, nella fattispecie) di una realtà autonoma con privilegi particolari sul piano della legislazione libraria, con forme di manifesta tolleranza, nonché con una struttura mercantile “aperta” e non verticista, che agevolava il transito economico-intellettuale di merci dal Monferrato alla Serenissima. Per la ricostruzione dell‟attività giolitina, cfr. BONGI 1890 (si tratta di un inventario incompleto, ribadisce Quondam, sia perché redatto a posteriori, con la necessità dunque di annoverare casi di deperibilità dei testi descritti, oltre che processi censori, sia per l‟assenza oggettiva, all‟epoca del Bongi, di raffinati strumenti di ricerca bibliologica e bibliografica); per la confisca dei libri della filiale napoletana e per il processo in cui fu coinvolto lo stesso Gabriele, si veda BONGI 1890, LXXXV sgg., nonché DE FREDE 1969, 21-53, e ROTONDÒ 1975, 1397-1492. Gli Annali giolitini del Bongi (1890-1895) furono corretti e integrati, anche se solo sul piano descrittivo, dal Camerini (CAMERINI 1936-37, voll. LIII). «Mercante d‟utile» fu il capostipite dell‟impresa giolitina, Giovanni, per il quale si vedano gli studi di DONDI 1967, 162; DONDI 1967-68, 583-709. «Mercante d‟utile» e «d‟onore» al contempo fu Gabriele, protagonista indiscusso dell‟escalation imprenditoriale della tipografia (per le cifre, i dati e le stime relativi all‟impresa giolitina, cfr. QUONDAM 1977, 63-7). La disamina di Quondam rispetto alla produzione giolitina è eminentemente statistica, quantitativa: essa intende sistematizzare la congerie di dati e di materiali degli Annali giolitini, soffermandosi sulla diversificazione dei generi, delle collane (una novità imprenditoriale di ampio respiro moderno) e sul privilegio accordato alla produzione in volgare, a fronte di maneggevoli e infinite edizioni di classici greco-latini (l‟enchyridion manuziano). Oltre ad una «ghirlanda spirituale» che, dal ‟60 in poi, sposa le scelte tridentine, incontrando sia i gusti del pubblico in materia di prassi devozionale, sia quelli di una più colta élite in materia scritturale, apologetica e agiografica, e ad una «collana historica» che, affidata alle cure del Porcacchi, prevedeva le edizioni degli storici greci, latini e volgari (ma che poi si limitò, nell‟esposizione del piano da parte del curatore, alla sola collana greca con dodici anelli – Ditte Candiotto e Darete Frigio, Erodoto, Tucidide, Senofonte, Polibio, Diodoro, Dionigi di Alicarnasso, Giuseppe Ebreo, Plutarco, Appiano, Arriano, Dione -

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), la poesia, il teatro e le lettere recitano la parte del leone nelle edizioni giolitine. Sconfessando il petrarchismo dilagante, Giolito non si limita a pubblicare i cosiddetti “petrarchini” o le rime di singoli autori, ma sponsorizza pure autentici dilettanti: anche in quest‟ambito, dunque, animato dalla scelta mirata della raccolta, Giolito edita i volumi di «rime diverse di molti eccellentissimi autori», con una regolarità di esecuzione e con dimensioni nuove rispetto alle raccolte di altri editori. Le raccolte, di cui alcuni volumi furono ristampati, presentano una numerazione irregolare in successione, giacché l‟iniziativa fu gestita in parallelo da altri editori: le raccolte giolitine editarono circa 240 autori con oltre 8,000 testi poetici, segno di una prassi di scrittura conclamata in pieno „500 (cfr. QUONDAM 1974). La consapevolezza della dimensione sociale e pubblicitaria del testo si riverbera, sia pure in maniera più indiretta, nella raccolta di lettere e nelle edizioni teatrali (per la commedia Ariosto, Bibbiena, Bentivoglio, Aretino, Ruzzante, Parabosco; per la tragedia Trissino, Giraldi Cinzio, Speroni, Aretino e Dolce): dopo il primo volume marcoliniano delle Lettere aretiniane, gli editori gareggiarono per assicurarsi il privilegio delle lettere di personaggi illustri: oltre al terzo e al sesto tomo delle Lettere aretiniane, il Giolito editò il carteggio di Antonio Guevara, il primo libro delle Lettere amorose del Parabosco, le lettere del Tolomei e di Bernardo Tasso. La produzione giolitina nell‟ambito della trattatistica stravolge gli statuti disciplinari classico-umanistici: al trattato filosofico

stricto sensu subentra il pamphlet protrettico che, nell‟intento di veicolare nuovi modelli

di comportamento, si sgancia dalla strutturazione gerarchica delle pratiche discorsive istituzionali: si tratta delle famose scritture eteroclassiciste (le opere di Niccolò Franco, di Antonfrancesco Doni, di Giulio Camillo Delminio, ecc.), anche se un alto margine di normatività è riconoscibile accanto al capovolgimento della codificazione umanistico- rinascimentale (Giolito edita opere filosofiche - amore-natura/geroglifici-imprese/etica quotidiana, come si legge in QUONDAM 1977, 86), opere di comportamento (ben nove le edizioni del Cortegiano, con sottoambiti disciplinari, quali istituzioni sulla donna/sociale-mondano/giochi), trattati linguistico-retorici (di cui eloquenza- retorica/grammatiche/lingua/teoria letteraria/teoria d‟arte), trattati anche specialistici (di politica, di arte) e biografie (queste ultime si collocano a metà strada fra storiografia, scrittura letteraria, apologetica e trattatistico-comportamentale). La produzione “politica” annovera Machiavelli, nell‟edizione del ‟50, allorquando scattò l‟interdetto

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matrice economica e culturale di un‟azienda che, a partire dal 1565, fu

sensibilmente influenzata dalla svolta tridentina e dunque pubblicò opere

devozionali, e che rappresentò lo svecchiamento tipografico-editoriale con

la dovuta attenzione riservata alla storia contemporanea.

Il soggiorno fiorentino del Domenichi, a partire dal marzo 1546, nacque

all‟insegna di tre congiunture tipografico-editoriali:

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l‟impresa giuntina,

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alle ristampe clandestine, e Botero (La Ragion di Stato del 1589): come non avvertire, nel catologo giolitino, il “sismografo” delle profonde trasformazioni cinquecentesche relative agli statuti epistemologici della conoscenza ed alla continua ricerca di soluzioni