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La prima edizione di questo dialogo è quella di Venezia, appresso Gabriel Giolito, MDXLIX, in-8.
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Il Tessier precisa, altresì, trattarsi di un caso metaletterario di plagio: il suo, ammesso, nei confronti del Bruni, l‟altro, quello del signor Passano, ma sottaciuto, nei confronti delle sue osservazioni bibliografiche, «riportate nella pag. 155, vol. I, dei
Novellieri italiani in prosa, Torino, Stamperia Reale, 1878, in-8» (TESSIER 1888, 2, n.2).
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Il dialogo del Domenichi fu dedicato al Conte d‟Aversa, Don Giovanni Vincentio
Belgrato, il 29 giugno del 1548. Nella dedicatoria egli millantava l‟altissimo valore della sua opera, in virtù del fatto che le lodi del gentil sesso sarebbero state apprezzate proprio perché avevano come referente un “cavalier servente”. Che il Domenichi, però, ammettesse dichiaratamente trattarsi di plagio è testimoniato dalle lettere a Messer Bartolomeo Gottifredi (16 settembre 1548) e a Messer Marino de‟ Cicieri (23 marzo 1549). Per la prima di queste due lettere, cfr. TESSIER 1888, 5-6.
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CovidoLO»:
66il Doni, nella ristampa veneta del 1550, si appella
all‟ortodossia veneziana delle norme di pubblicazione di un testo, norme
che non devono offendere «Iddio, la Chiesa, gli Stati, o il prossimo, o sia
particolare uomo, o universale pecora».
67Proprio in virtù di tale ossequio
di sapore velatamente “inquisitorio”, il Doni bolla saccenti e plagiarii,
68fini
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L‟anagramma evoca, nelle maiuscole finali, il “dolo”, alias il plagio letterario.
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DONI 1550(Si riporta, in sigla, il titolo completo così come figura sul frontespizio della cinque centina). Precisiamo che l‟edizione cui il Tessier fa riferimento nella sua trattazione è quella della Seconda Libraria, edita a Venezia per Marcolini, 1551, in-12.
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Altro pregevole monumento in cui, però, emerge l‟ambivalenza del Doni nei
confronti del D. sono I Marmi (DONI 1928). Nel Ragionamento Settimo (inserito nella prima parte de I Marmi) spiccano due dialoghi che gli Academici Peregrini, avvicendandosi sulle «scalee di marmo» di piazza Santa Liberata a Firenze (fra San Giovanni e il Duomo), hanno ascoltato e che vengono trasposti sul piano della finzione letteraria. Lo stesso Doni non è immune dal plagio, se nell‟avvertimento ai lettori (ivi, 6), utilizzando la metafora dell‟aquila di Ganimede, afferma di riportare quanto ha sentito: vola come un‟aquila sulle teste di «ingegni elevati e acuti» che «sempre hanno mille belle cose da dire: novelle, stratagemmi, favole; ragionano d‟abattimenti, di istorie, di burle, di natte fattosi l‟una all‟altra le donne e gli uomini: tutte cose svegliate, nobili, degne e gentili. […] spesso ne portava su le ali qualcuno né più né manco come fece l‟aquila Ganimede; ma, perché pesavano troppo, io gli posava in quei nicchi, fra quelle statue di marmo a comodi luoghi, secondo i cerchi, le ragunate, i mucchi, i capannelli, perché udissero l‟intero: […]». La prima di queste drammatizzazioni chiama in causa due personaggi: Alfonso, fiorentino, e il Conte, veneziano. L‟ordito dialogico è altamente metaforico, non solo per la quantità di proverbi e motti toscani ivi disseminati a testimonianza del fiorentinismo illustre, ma anche per la centralità della questione della lingua (il Conte adombra la necessità di una norma scritta più codificata cui ci si possa attenere) e per la quantità di personaggi noti (Bembo, Machiavelli, Trissino, Doni, Giambullari, Boccaccio) o meno noti – è il caso del Domenichi, di cui Alfonso elogia l‟attività di traduttore: «[…] il Domenichi, signore eccellente, dottissimo in utriusque (allude e alle traduzioni e all‟attività di correttore evidentemente, come si desume dalle
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precedenti asserzioni sui traduttori), attendeva al Morgante dello Scotto e al Boiardo», ivi, 132. La seconda drammatizzazione è triangolare: in scena due letterati, Alberto Lollio e Bartolomeo Gottifredi, e uno scultore, Silvio. Silvio espone le ragioni per cui, in un‟epoca del genere, non è conveniente scrivere libri: l‟incipit della sua dissertazione enuclea il concetto di “poligrafo” («Io, che non ischerzo con la penna, ma talvolta m‟azuffo con i vostri libri, dirò la ragione che impedirebbe me, s‟io fossi cronichista, poeta, novellatore, scrittore, copista, traduttore o come voi volete ch‟io mi chiamassi», ivi, 148). Segue la disamina impietosa di traduttori mercenari e di «meccanici scrittori», che traducono per «pedanteria», o perché costretti per non finire in prigione, o ancora perché non hanno inventio. Quantunque non esplicita, l‟allusione tocca anche il D., proprio in quegli anni coinvolto nello scandalo della Nicodemiana calviniana. È pur vero, però, che Silvio fa una lunga tirata anche sulle oggettive difficoltà di scrivere in quel periodo, a prescindere dall‟attività specifica di traduttore o di poeta: che che si dica, lo scrittore lavora e patisce, i biasimatori stanno in agguato e il cicalone passeggia; i gaglioffi che «tassano» dormono e russano mentre lo scrittore lavora di notte; ancora, lo scrittore pratica l‟astinenza, il manigoldo «devora come una pecora […] e tracanna come una pevera» (ivi, 150). L‟epilogo, in corrispondenza con la penultima battuta di Silvio, è una perifrasi sul D., che risente molto, a mio avviso, della tradizione burlesca dell‟Angiolieri:«Io favello d‟un universale tristo, e non d‟un particolare, che oltre il meritar il fuoco, il barar con le carte, far del dado, essere maligno, ignorante e traditore, non crede in Dio: guardate se questi son particolari!», ivi, 153. Altra allusione al D., questa volta però alla sua maldicenza, è nel dialogo fra Agnol Tucci, Vittorio e Barone (ivi, parte II, Ragionamenti Arguti, 247). Nel Ragionamento della Poesia (ivi, 251-265), Baccio del Sevaiuolo e Giuseppe Betussi discutono di poesia e di gloria poetica – il
Ragionamento si conclude, infatti, con «Il Privilegio della Laurea di Messer Francesco
Petrarca la quale onoratamente gli fu donata a Roma in Campoidoglio alli IX d‟aprile MCCCXLI»: ad un certo punto Betussi parla dei biasimatori, che devono sì infierire “criticamente”, ma devono redarguire gli avversari affrontandoli sullo stesso terreno. Come fece il Doni: quando Domenichi pubblicò le Facezie, l‟avversario reagì con un altro libro di facezie – Chiacchiere, baie e cicalamenti il titolo che il Doni attribuì per antifrasi – e poi «biasimò quello per quello che egli era, sporco, senza onestà, contro alla religion cristiana e vituperosissimo» (ivi, 256). Il D. è preso di mira ancora nel
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locutori di illustri mecenati, tignosi che s‟intromettono negli affari altrui,
degli Stati, con l‟unico intento di «tassar le persone da bene».
69Ragionamento di Sogni degli Academici Peregrini: in una lunga sequenza monologante,
Francesco pelacane “finge” – perché il Ragionamento è tutto giocato sull‟immaginifico potere della mente – di raccogliere le voci degli altri, in realtà le maldicenze su noti personaggi, di metterle poi per iscritto. Tra le righe c‟è la caratterizzazione di Lodovico Domenichi: fantasma puteolente, maldicente, annebbiato, ha la facies della Morìa («sì ha cera di stitico e d‟amorbato») ; è un personaggio subdolo, uno scomunicato, un giudeo («se fussi gigante con la persona, come egli è nell‟opinione del sapere, sarebbe buono per un cimitero di scomunicati o di giudei»). Pregnanti e icastiche le staffilate del Doni, per bocca del «pelacane», alle illecite attività del D. – ciarlataneria, truffa, eterodossia, rimaneggiamento improprio di opere consacrate dalla tradizione per i «baiocchi», usura (ivi, 72-75).
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DONI 1550, c. 49 v. La furia inquisitoria del Doni si tinge di toni berneschi, in un discorso dalle complesse architetture metaforiche sul piano morfolessicale: «Onde non son sì tosto per le Rome che la cavezza gli fa fuggire, né sì presto usciranno della terra dove gli stanno apicati con la cera con danno particolar loro e con vituperio secreto, che gli urteranno in un pistolese o in due storuoli d‟un ospedale. Ultimamente tre legni perderanno la loro parte che se le conviene loro legittimamente». La mia interpretazione del passo privilegia una serie di riferimenti storico-culturali: gli intellettuali eversivi e imbroglioni, fra cui Domenichi, pur essendo “imbrigliati” (la «cavezza») in quanto scomodi, difficilmente potranno essere esiliati: vittime di roghi nella propria terra («dove gli stanno apiccati con la cera», con probabile allusione agli autodafé di cui il poligrafo sarebbe stato vittima nel febbraio 1552, con la successiva incarcerazione, e alle già note simpatie eterodosse del Domenichi fomentate dalla collaborazione con il nordico Torrentino, esoterico editore dei testi della Riforma Cattolica – Contarini, Carnesecchi, Morone, Valdes, ma anche di Erasmo – Il paragone della Vergine e del
Martire - , del Valeriano – Hieroglyphicorum libri - , dello Spandouginos – Commentarii - , del Menavino – I costumi e la vita de’ Turchi - ), qualora uscissero da
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