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Questi intellettuali furono coinvolti negli episodi inquisitori di quegli anni: la vicenda “nicodemiana” non fu dunque un episodio isolato , né

tantomeno riguardante solo il Domenichi.

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Ferrara. Il Panciatichi fu coinvolto, insieme al Domenichi, nel clamoroso autodafé del 1552.

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D. era stato accusato di aver cambiato fede «scientemente et dolosamente et apensatamente» e di aver tradotto in volgare la Nicodemiana calviniana (cfr. Libro di

partiti degli Otto di Guardia e Balia, 26 febbraio 1552, in «Archivi criminali» dell‟

„Archivio di Stato di Firenze‟, 60, c. 66v). La documentazione è in D‟ALESSANDRO 1978, 182. La condanna originale è riportata in BONAINI 1859, 268-281: 272-273. Le vicende dell‟autodafé sono state ricostruite indirettamente grazie al ritrovamento delle confessioni di don Pietro Manelfi, prete nativo di Senigallia, all‟inquisitore di Bologna, il domenicano Leandro Alberti (cfr. GINZBURG 1970,10-27; il prete si costituì dichiarando le sue decennali frequentazioni luterane e la nomina a ministro della confessione anabattista): nella confessione del 2 novembre 1551 (GINZBURG 1970, 39), emerge tutto il background della Nicodemiana e di come fosse pervenuta al Domenichi. Il tramite sarebbe stato un frate carmelitano messinese, un certo Lodovico Manna: costui avrebbe commissionato la traduzione del testo di Calvino, durante il suo soggiorno toscano presso il mercante Bernardo da Riconsoli (che dava asilo «a quanti sfratati vi vanno in Pisa et in Fiorenzia» (cfr. GINZBURG 1970, 58-59), facendolo stampare a Firenze sotto l‟impressione di Basilea. In un contesto così favorevole all‟eterodossia, non stupisce, come ribadisce D‟Alessandro, che il Manna potesse “sponsorizzare” l‟iniziativa editoriale di taglio calvinista, perché a Firenze lo spiritualismo valdesiano aveva fatto proseliti, ma anche perché Calvino pare avesse avuto, fra i suoi uditori, alcuni Accademici fiorentini – il Riccio ebbe probabilmente in dono dal Carnesecchi il manoscritto Trattato utilissimo del Beneficio di Gesù Cristo

101 Crocifisso verso i Cristiani di Benedetto da Mantova (libero rifacimento dell‟erasmiano

sermone Dei immensa misericordia, opera tradotta da Giovanni Antonio Alati nel 1554 e chiosata da un sonetto introduttivo del Domenichi), insieme ad una predica del frate minorita Benedetto Locarno sulla giustificazione per sola fede (su Benedetto da Mantova e Benedetto Locarno cfr. CAPONETTO 1973 e l‟edizione del Beneficio, Firenze- Chicago, 1972. Il Calcagnigni ebbe molto verosimilmente rapporti con gruppi nicodemitici strasburghesi, tramite lo Ziegler: il nicodemismo, dunque, aveva radici abbastanza solide a Firenze (sul nicodemismo fondamentali gli studi di CANTIMORI 1960, ROTONDÒ 1967, ma anche e soprattutto il più recente PROSPERI 1992). Il D‟Alessandro (D‟ALESSANDRO 1978, 183, n.35) ricostruisce un po‟ a tentoni, dato il carattere ancora rudimentale delle sue ricerche negli anni ‟80, la vicenda nicodemiana:

in primis, parla di una versione latina dell‟Excuse de Jean Calvin à Messieurs les Nicodémites sur le complaincte qu’ilz font de sa trop grand rigueur – catalogata nel

«Corpus Reformatorum» XXXIV, Brunsvigae 1867 – e contenuta nel De vitandis

superstitionibus (mentre questa è l‟opera princeps e l‟Excuse è un‟appendice satirica,

come vedremo); poi sostiene che delle due traduzioni (una del Domenichi, sequestrata e distrutta nel 1552, l‟altra anonima del ‟53), la prima appunto sia andata persa. La monografia di Enrico Garavelli su Lodovico Domenichi e i Nicodemiana di Calvino (GARAVELLI 2004) ha spalancato intentati e inediti percorsi ermeneutici, sia di carattere squisitamente storico-letterario che filologico, sulla poliedrica figura del poligrafo piacentino, noto soprattutto «come traduttore di opere classiche e contemporanee, rimaneggiatore e/o editore non sempre rigoroso di testi famosi, facile verseggiatore petrarcheggiante su temi più o meno frivoli, […] mai più di tanto accreditato come inquieto portatore del dissenso religioso o quantomeno di un forte disagio verso la teologia cattolica, verso quelle „papistiche goffaggini‟, come le definiva Bernardino Ochino, gravemente inclinate alla superstizione e all‟idolatria, a giudizio degli evangelici» (CASTIGNOLI 2005, 155). L‟opera calviniana, il De vitandis

superstitionibus, venne pubblicata a Ginevra nel 1549, corredata da un‟appendice

satirica, Excuse a Messieurs les Nicodémites, donde il nome di Nicodemiana, destinato a contraddistinguere la fortuna dell‟opera in Italia. Nel libello Calvino si scagliava duramente contro il culto cattolico e i nuovi proseliti italiani delle religioni riformate che, a differenza di Nicodemo o di altri protomartiri cristiani – prima lapsi all‟epoca

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delle persecuzioni romane, poi riabilitatisi con l‟adesione alla vera fede - , non erano riusciti ad assumere una posizione definitiva, incerti tra l‟abiura, il rogo o la fuga nelle regioni oltralpine «già saldamente in mano alle confessioni riformate» (CASTIGNOLI 2005, 155-156). Nell‟Excuse, invece, Calvino chiedeva ironicamente scusa ai nicodemiti o pseudonicodemiti, che avevano prima aderito alla vera fede, poi l‟avevano rinnegata: chiedeva scusa perché, anche se avevano errato, sarebbero ritornati sulla “retta via”, memori della nota vicenda evangelica. Il Garavelli ricostruisce in maniera diversa anche l‟arrivo del testo originario in Italia: mentre il D‟Alessandro si appella ai

Costituti di don Pietro Manelfi e, dunque, al carmelitano Manna, mediatore della

“riformata” operazione tipografica, il G. chiama in causa due personaggi diversi: il bresciano Cornelio Donzellini, importatore clandestino dell‟opera, in contatto con l‟apostata Pier Paolo Vergerio, che si era rifugiato in Svizzera. Il Vergerio aveva redatto un‟opera nel „51, La historia di M. Francesco Spiera, in cui, accanto alla vicenda di un procuratore legale di Cittadella, si esponevano le tesi di Calvino sulle superstizioni del culto cattolico e sull‟iconoclastia. La traduzione italiana del Domenichi – o meglio quella che il Garavelli rivendica come esemplare della stampa fiorentina del D. - , che si riteneva irrimediabilmente perduta in un rogo di opere sequestrate a eretici fiorentini sorpresi «ad amoreggiare con i libri dei riformatori d‟Oltralpe» (CASTIGNOLI 2005, 157), è riemersa all‟attenzione del pubblico allorquando Jean François Gilmont, autore della Bibliotheca calviniana, segnalava, in questo suo regesto bibliografico, un testo dal titolo Libro del fuggir le superstizioni, conservato presso la Biblioteca di Erlangen in esemplare unico. In un primo momento, Gilmont lasciò intendere che l‟esemplare di Erlangen fosse cosa diversa dalla traduzione fiorentina: ambedue i testi, infatti, risultano stampati a Basilea, ma quello di Erlangen porta la data del 1551, mentre l‟esemplare fiorentino sarebbe del 1550, sulla base della descrizione processuale degli inquisitori. Nella presentazione del lavoro di Garavelli, invece, Gilmont sovrappone le due testualità, anche e soprattutto per supportare la tesi dello studioso italiano. Quella del Domenichi non fu certo una bravata, né una goliardia, date anche le misure restrittive dei circoli editoriali e della stamperia medicea: si trattò, invece, di un‟operazione consapevole, così come consapevole fu l‟avvicinamento a Erasmo, a S.Agostino, e a tanti altri intellettuali riformati e non, credo spesso per mera curiositas ed eclettismo. Castignoli (CASTIGNOLI 2005, 158) si appella al Manelfi non per la ricostruzione della

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vicenda editoriale, ma per ricostruire l‟iter della denuncia e delle deliberazioni di Cosimo I: il duca, infatti, per garantirsi l‟assoluto controllo in materia giurisdizionale senza ingerenze da parte dell‟Inquisizione romana, accolse la denuncia bolognese con molta cautela e nominò un‟apposita commissione di laici (in prevalenza) e di ecclesiastici, che redigesse il dossier accusatorio da affidare, per l‟esucuzione delle pene, agli „Otto di Guardia e di Balìa‟. Come sappiamo, la vicenda del D. si concluse solo nel ‟53, allorquando, pressato da più voci (Renata di Francia per intercessione di Ferrante de‟ Trotti, con lettera a Cosimo del 20 marzo 1552; lo stesso Domenichi con supplica al granduca del 19 maggio 1552; lettera di un anonimo a Cosimo del gennaio ‟53, riportata in MORENI 1811/1819, 223 – richiesta di liberazione del poligrafo anche dal confino di Santa Maria Novella - ; influsso del Torelli, segretario e accademico mediceo, promotore dell‟impresa storiografica del D. ad opera del Torrentino), Cosimo I concesse al D. la libertà definitiva. Il Garavelli non ritiene di dover ravvisare un trattamento particolare riservato al poligrafo piacentino, a differenza del D‟Alessandro: le concessioni di Cosimo furono solo funzionali alla sua sovranità assoluta in materia giurisdizionale e al mantenimento di un clima di tolleranza, che consentì all‟enclave mediceo una grande autonomia in ambito inquisitorio. Di lì a poco, infatti, il Magistero inquisitorio romano avrebbe rivendicato la sua esclusiva competenza in materia di fede, delegando al laicato esclusivamente l‟opera assistenziale di indigenti e malati. Per la missiva di Renata di Francia al Granduca, cfr. BONAINI 1859. Sulla nota retata del dicembre 1551, successiva alle confessioni di don Pietro Manelfi e, a quanto pare, conclusiva di una lunga militanza anabattista a Firenze, cfr. BERTOLI 1996, 59-122. Molti nominativi ci sono noti, sottolinea il Bertoli, grazie al ritrovamento di alcune informazioni contenute nelle filze (in verità pochissime rispetto alla messe di documenti inventariati dal figlio Massimo e passati a Francesco Vinta) del notaio Bernardo Milanesi del Casentinese, segretario ducale morto il 16 settembre del ‟59.. Il memoriale di Massimo Milanesi, contenuto nella Filza prima di memoriali e relazioni (1558-1563) di Francesco Vinta (ASF, Auditore delle Riformagioni 4, n. 72, cc. 316r-317v, 324r-v), annovera la presenza di «molti rescritti e commissioni segrete» di suo padre Bernardo e reca in calce, pur non essendo datato, la sottoscrizione al rescritto ducale mediceo di mano di Lelio Torelli (datata questa 26 luglio 1560). È pubblicato dal Bertoli in Appendice (BERTOLI 1996,96-99) e presenta un elenco lungo e variegato di „negotij‟:

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sentenze e processi a luterani, memoriali e suppliche con i relativi rescritti ducali, scritti e bandi su ebrei commoranti nel Granducato, una sfilza di nomi di processati. Dopo l‟excursus archivistico, il Bertoli indaga i moventi della retata “eterodossa” del ‟51 e l‟indagine è approfondita, in quanto ricostruisce la vicenda di Pietro Manelfi: costui, dopo aver convinto l‟inquisitore bolognese con la deposizione che portava alla luce l‟esistenza di gruppi ereticali veneti, emiliani e toscani, fu spedito a Roma. Nell‟urbe sposò, da pentito, le istanze del domenicano bolognese Girolamo Muzzarelli, maestro del Sacro Palazzo, che, in seguito ad altre rivelazioni del Manelfi, capitanò una missione, mobilitando i tribunali dell‟Inquisizione locali e chiedendo il sostegno del Granduca e dei Dieci di Venezia per estirpare scintille eterodosse disseminate nel centro-nord. Gli arresti che scattarano nel dicembre del ‟51 a Pisa e a Venezia, dopo la missione del Muzzarelli, nonché la corrispondenza fra personaggi a vario titolo coinvolti nelle vicende, sono ampiamente documentati in: PASCHINI 1942, 63-150, e SIMONCELLI 1989. La ricostruzione delle vicende di quegli anni risulta estremamente difficile, in quanto mancano gli atti ufficiali, gli ordini e le relazioni attraverso cui ricostruire catture, arresti, condannati e prosciolti, confessioni e abiure: Bertoli sottolinea come i pochi dati di cui disponiamo siano desumibili da sparsi indizi contenuti nella Cronica attribuita a Orazio da Sangallo (che indica tre persone: Bartolomeo Panciatichi, un sangeminianese e uno sfratato), nel Summario del frate gesuita Agnolo Dovizi e nelle Memorie che Bernardino Bonsignori, nipote di Bonsignore Bonsignori, aggiunse al Libro di famiglia, inedite per gli anni dopo il 1529 [Memorie riportate in BERTOLI 1996, 99-100, con l‟indicazione dell‟exemplar „Strozziano‟ a Firenze. Il Bonsignori parla di una processione di 22 eretici a Firenze: di questi 16 portavano il bavaglio giallo, 6 erano senza bavaglio e furono dunque condannati a pene minori. Sulle scalee del Duomo a leggere i capi d‟imputazione c‟è Bernardo Milanesi, mentre Bernardo Ricasoli („da Riconsoli‟, come riferisce D‟Alessandro, sulla scia di Ginzburg), luterano storico con setta a Pisa e protettore del Manna, viene menzionato come un privilegiato, perché favorito dal vescovo e recluso per un anno nel convento di San Marco. Il Ricasoli fu mercante spregiudicato per i suoi tempi, il Caponetto racconta significativamente come usasse le balle delle mercanzie per trasportare clandestinamente materiale eterodosso propagandistico. Cfr. CAPONETTO 1979, 86]. Nel Memoriale vengono menzionati personaggi di ben altro rilievo culturale

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rispetto alla “gente meccanica”: Lelio Carani da Reggio e Lodovico Domenichi. Il Domenichi, come si sa, avrebbe dovuto scontare l'ergastolo a Pisa: in un primo tempo, ebbe la grazia di scontarlo alle Stinche, di poi, dopo sei mesi, l'Inquisizione lo confinò per un anno a Santa Maria Novella, ma anche questa pena venne sospesa per consentirgli di lavorare alle Historie di Paolo Giovio. Il trattamento riservato al Nostro rientra nella politica liberale di Cosimo de‟Medici: dopo le asperità fra i Medici e i Farnese, culminate nell‟imprigionamento del Panciatichi e del cardinale di Ravenna, in quanto finanziatori di Cosimo, il Granducato aveva perseguito una politica di normalizzazione e di avvicinamento alla Santa Sede, in un delicatissimo equilibrio di alleanze, che non minassero l‟assolutismo espansionistico dell‟enclave fiorentino. La disponibilità alle richieste dell‟Inquisizione romana, da parte di Cosimo ma anche della tradizionalmente ostile Serenissima, rivela anche un altro giustificato timore: la consapevolezza del carattere profondamente eversivo ed antistatale dell‟anabattismo e del luteranesimo, “sette” ben diverse dall‟evangelismo utopistico fiorentino o dal savonarolismo, per quanto Lutero potesse riconoscere nel Savonarola il suo predecessore. Se l‟evangelismo ebbe proseliti a Firenze, è pur vero si trattò di un fenomeno elitario, gestito e controllato dal potere, nell‟ambito di cenacoli culturali, i cui esponenti non intendevano minimamente incidere sullo Stato con rivolte anarchiche, ma solo nutrirsi di “eterodossie” attraverso letture erudite. L‟epurazione medicea, infatti, non colpì né savonaroliani né simpatizzanti riformati, ma solo anabattisti e luterani: basti pensare che il Torrentino continuò a stampare in odore di eterodossia le opere erasmiane (nel ‟54 Il Paragone della vergine e del martire e Il sermone della

grandissima misericordia di Dio). Bertoli sostiene che il Panciatichi sia stato l‟unico per

il quale Cosimo abbia chiesto indizi stringenti, che realmente dimostrassero il suo coinvolgimento nel luteranesimo e che non ledessero la sua attività mercantile in Francia, lasciando più volte intendere ai „Commissari sopra l‟Inquisizione‟ come fosse convinto di un fumus persecutionis nei confronti del suo protetto (il carteggio tra Cosimo e il Panciatichi, nonché le suppliche del duca ai commissari inquisitoriali, sono documentati da BERTOLI 1996, Appendice, 107-110). Cosimo è, dunque, in veste di garantista per il Panciatichi, di «ossequioso supplicante» per Bernardo Ricasoli, per il quale, dopo la pubblica abiura avvenuta il 19 gennaio del 1552, intercede presso il Muzzarelli, perché gli venga condonato il periodo di confino (corrispondenza tra

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La parentesi fiorentina fu interrotta, a seguito della vicenda processuale

(estate-inverno 1552), dal soggiorno a Pescia, nel lucchese, nel 1554: la

trasferta ebbe il sapore di un rientro ortodosso nei ranghi cattolici con

tracce di nicodemismo,

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per dirla con Garavelli, ma anche di una svolta

tipografico-editoriale importante. Non è, infatti, da escludere, che

l‟autonomia di un piccolo centro quale Lucca, il supporto di notabili

finanziatori quali i Turini, proprietari della cartiera che riforniva la

stamperia fiorentina, e il sodalizio con l‟editore Vincenzo Busdragho,

abbiano favorito una certa libertà editoriale, ormai non più possibile per un

processato, per giunta plagiario rivisitatore dei classici, nonché il ritorno

alla stessa classicità con Plutarco.

Cosimo e Muzzarelli documentata in BERTOLI 1996, Appendice, 111-112); di «condiscendente sovrano» per il Niccolucci, ma anche di «campione dell‟ortodossia» (cfr. BERTOLI 1996, 91). Il capitano Camillo Orsini, nicodemita, in una lettera al duca da Bologna (16 gennaio 1552), raccomandava la sorte di Cornelio Donzellini, precettore della nuora Lavinia Della Rovere. La risposta negaiva di Cosimo fu perentoria: la questione spettava ai „commissari apostolici‟. Quanto al Domenichi poi, non è da credersi assolutamente che Cosimo si piegasse subito: Francesco Vinta, agente mediceo a Milano, gli scrisse il 22 gennaio 1552, perché liberasse il piacentino in nome della «lingua volgare» che «ha grande obligatione a ms Lodovico Domenichi in la quale si è molto tempo a benefitio comune esercitato» (in BERTOLI 1996, Appendice, 115-116) e del fratello, giurista e podestà di Castelgiofredi, precettore dei figli di Luigi Gonzaga. La risposta del duca fu, come per l‟Orsini, secca e perentoria: nessuna pietà per un eretico. Per la ricostruzione della scabrosa vicenda processuale, dell‟autodafé e del nicodemismo italiano, si veda CARRANO 2008-2009.

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L‟iter spirituale del poligrafo si tinge di romanzesche conclusioni, rispetto ai triti luoghi della critica precedente, in uno studio del Garavelli, che ricostruisce in maniera diversa il rientro “ortodosso” del Nostro, grazie alla sua profonda conoscenza della biografia e della sterminata produzione del piacentino. Cfr. GARAVELLI 2005, 159-175.

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Nel 1560, archiviata la vicenda eterodossa, il Domenichi pubblicò, per i

tipi di Vincenzo Busdragho, la traduzione di un libello plutarchiano di

grande respiro sul piano dell‟affabulazione retorico-stilistica, degli altissimi

moniti etici e filosofici che veicola e della vis “dieghematica” di una briosa,

talvolta monologante, conversazione simposiale. Trattasi del Sumpo@sion

tÈn eèpta# sofÈn - corrispondente al numero 110 nel Catalogo di Lampria,

trentunesimo nell‟edizione planudea, alle pp.127-43 dell‟edizione aldina - ,

in cui l‟enciclopedico autore di Cheronea introduce l‟anziano vate Diocle,

che racconta a Nicarco di un convito, cui ha partecipato, con i Sette

Sapienti ed altri invitati, al Lechèo di Periandro, tiranno di Corinto. Nelle

diverse sezioni dell‟opera si affrontano problematiche di scottante attualità

– la valenza del simposio e dei vincoli solidali che impone, la tirannide, il

governo democratico, l‟amministrazione del patrimonio familiare, la dieta e

la giusta misura nel bere, il tutto condito da favolistiche digressioni

esopiche e leggende di grande umanità, come il salvataggio del citaredo

Arione da parte dei sempiterni amici delfini.

Nel lucchese il poligrafo visse interiormente «una strategia di attesa»