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Biocapitalismo e costruzione sociale del genere

DONNE NEI LABORATORI SCIENTIFICI: IL CASO DELLA FISICA Cristina Biino

4. Biocapitalismo e costruzione sociale del genere

Il biolavoro5 e le sue declinazioni nel superamento della distinzione tra produzione e

riproduzione è ambito problematico, con intersezione del piano scientifico-medico e del piano etico, da cui potrebbero derivare prospettive discorsive inedite. Le nuove forme di lavoro iscritte nei corpi esigono che si ripensino le categorie dell’autodeterminazione, dei diritti, della cura, dei mezzi di produzione, dell’alienazione, del valore lavoro, del capitale umano, del dono, dell’esternalizzazione, del lavoro materiale e del lavoro immateriale, categorie che hanno a che vedere con la sfera soggettiva e collettiva dell’esistenza e che non possono spiegare gli scenari aperti dal biolavoro secondo analisi tradizionali fordiste (e post-fordiste). Il corpo messo a produzione è l’ulteriore frontiera dell’affetto messo in produzione – il lavoro riproduttivo è passato dall’essere domestico non pagato all’essere esternalizzato pagato – e nella considerazione che controllare la riproduzione è altamente produttivo troviamo un filum di riflessione che va da Michel Foucault a Rosi Braidotti e che richiede un cambiamento di prospettiva radicale nella valutazione del fattore manodopera e del fattore mezzi di produzione, che in questo caso sono inseparabili. Qui la domanda è: chi li possiede?

Una rappresentazione che accoglie nell’immaginario letterario la maternità surrogata o gestazione per altri, è nel romanzo di formazione Sei come sei di Melania Mazzucco del 2013. Una madre armena scelta su catalogo, due uomini italiani come genitori, una

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figlia alle prese con i pregiudizi, il bullismo scolastico dei coetanei e l’arretratezza della giurisprudenza rispetto alla vita reale e alla società civile. Gli spunti narrativi sollecitano la riflessione a proposito dello sfruttamento del corpo delle donne e della negazione del materno nel desiderio di genitorialità. Biocapitalismo e costruzione sociale del genere danno luogo a un’alleanza fortemente dannosa che porta nuova sostanza alla violenza contro le donne. Il ruolo di madre, o meglio le prerogative procreative delle donne sono ambite dagli uomini, messe in produzione e gestite dai poteri economici, in un progressivo depotenziamento femminile che costituisce una trappola che va spiegata nei contesti di espressione delle relazioni di potere fra donne e uomini. Dinamiche di potere che Mazzucco accoglie nella narrazione di un altro romanzo, Un giorno perfetto, del 2005, in cui è rappresentata la violenza in differenti forme ed esiti, nella società urbana italiana contemporanea. Prevale la violenza maschile contro le donne e i figli e le figlie, ma anche la violenza della sordità delle relazioni intergenerazionali, la violenza della povertà economica e dell’impoverimento affettivo, la violenza del vuoto ideale e ideologico dei partiti politici, la violenza del lavoro quando c’è e quando non c’è. Diverse sono le categorie di attività svolte dai personaggi: casalinga, operatrice telefonica, insegnante, agente di scorta, politico di professione. Il lavoro permea la narrazione, perché permea le vite, e condiziona fortemente le biografie, soprattutto quella della protagonista Emma, la cui realtà è ordinariamente comune: una figlia adolescente e un bambino, un lavoro precario in un call center, un marito poliziotto che le usa violenza psicologica e fisica, una madre custode del patriarcato. La situazione è chiara fin dal principio e si svolge in un crescendo di drammaticità che tende alla tragedia in cui le mansioni casalinghe di Emma sono occasione costante di vessazioni da parte del marito.

I lavori di cura della casa e della famiglia sono il nucleo primo della violenza contro le donne, perché non sono riconosciuti nel loro valore sociale ed economico, quando svolti dalla donna di casa, e perché monetizzati, quando esternalizzati, in incarichi da colf e badanti necessarie a sopperire un welfare inesistente o carente e a consentire il lavoro fuori casa delle donne emancipate in un sistema economico che le ha assorbite.

Si aprono qui due scenari discorsivi: uno sulle relazioni fra donne di provenienza, esperienza, condizione sociale e lavorativa differenti, con aspetti che concernono i diritti del lavoro e i diritti di cittadinanza e che chiedono alla riflessione femminista uno sforzo

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di politicità nel ripensare idealità e pratiche, acquisendo il dato etnico e migratorio come significativo, già molto rappresentato nella narrativa, soprattutto autobiografica6. L’altro

sulla persistenza nella costruzione sociale del genere femminile del ruolo della casalinga e nella divisione sessuale del lavoro dell’attribuzione come ovvia dei lavori di cura alle donne, lavoro deregolamentato e sfruttato. È questa la trappola del doppio lavoro che Paola Masino già nel 1945 ha rappresentato con coraggio dissenziente in Nascita e

morte della massaia. La massaia per emanciparsi accede al lavoro fuori casa e affida la

gestione di questa ad una cameriera. Va a lavorare in un’azienda tessile del marito: «Quando sono all’ufficio il pensiero della casa non mi abbandona, e appena sono in casa dimentico persino che esista l’ufficio. Dunque la mia natura, la mia funzione, la mia verità è quella casalinga? Ma ho paura si tratti di un incubo» (Masino, 1982, 137)7. Difatti la massaia di Masino tornerà a spolverare la propria tomba dopo morta. La massaia prende consapevolezza dall’esperienza: «Malvagio sogno che hai disubbidito: dovevi dimostrarmi che anche nel raccomodare una calza si può trovare un universo, non farmi intendere che ho lasciato l’universo per rammendare calze» (230). La massaia propone al marito di adoperarsi in attività benefiche e di impegno civile in tempo di guerra: «Io credo che noi diventeremo poveri, se faremo il nostro dovere sul serio. Vuoi?» (236). È un provocatorio ribaltamento di piani e di prospettive fra il profitto aziendale e la gratuità del lavoro della massaia che suggerisce un detournement politicamente efficace tra asservimento e liberazione. Invece la messa al lavoro della dimensione affettiva dell’esistenza umana ha consentito al biocapitalismo di traghettare il lavoro cognitivo, il lavoro della conoscenza, il knowledge work, verso forme di gratuità. Il crossing tra lavoro cognitivo desalarizzato e il lavoro di cura familiare salariato è parte di un processo in cui il lavoro non pagato delle donne è diventato modello e la precarietà e povertà del lavoro contemporaneo hanno prodotto il depotenziamento del desiderio delle donne e degli uomini (cfr. Morini, 2010, 134-137) acquisendolo alla femminilizzazione del lavoro, che assume così connotazione negativa. Certo la realtà dei lavori delle donne è più articolata. Esiste anche il management e la carriera di successo delle donne in modo ripensato, secondo parametri di differenza,

6 Rinvio per un’idea sulla letteratura della migrazione alle esperienze e ai siti di Concorso letterario

nazionale Lingua madre (concorsolinguamadre.it) e di El Ghibli-rivista di letteratura della migrazione (el- ghibli.org).

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come ci spiega a partire da sé Luisa Pogliana (2009 e 2011). Esiste l’esperienza e da questa la riflessione di Lucia Bertell che, dalla ricerca di un modello imprenditoriale nuovo, terzo settore e no-profit, capace di fare impresa di pratiche di valorizzazione femminista del lavoro di cura e del lavoro di relazione, ha decentrato l’obiettivo del denaro e ha messo al centro le relazioni antiutilitariste. L’assorbimento di quelle pratiche ha consentito il ripensamento del lavoro, nel modello postfordista, in termini di autonomia, autodeterminazione e libertà nella configurazione del lavoro eco autonomo, in cui fondamentale è il passaggio dalla sostenibilità del lavoro alla praticabilità della vita (Bertell, 2016, 112-151). In coerenza con l’indicazione di Dominique Méda, a rompere l’incanto di credere nell’abbondanza infinita, nell’equa distribuzione delle ricchezze, nella parità di diritti, nell’accesso diffuso ai beni di cui le società basate sul lavoro sono prigioniere, senza tuttavia tornare a forme regressive (Méda, 1997, 66).