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Poter dire il materno, oltre il «genere»

LA RIPRODUZIONE AL CENTRO DELLA QUESTIONE DI GENERE PREMESSE PER UN INQUADRAMENTO COSTITUZIONALMENTE ORIENTATO DALL’ANALISI D

3. Poter dire il materno, oltre il «genere»

Quando si parla di materno si incorre subito nell’obiezione di genere, che, col suo tipico sguardo costruttivista, lo riduce alla «spettanza alle donne del ruolo sociale di madri», per risolverlo nei corrispondenti costrutti sociali con l’intento, proprio delle finalità ingegneristiche di una scienza sociale, di favorirne alcuni, sfavorirne altri, in base a un giudizio utilitaristico il quale dà per scontato, ed insegna, che, al di fuori dei costrutti sociali manipolati (e manipolabili dal punto di vista del potere, del governo, anche «illuminato», della società), nulla esista.

5 Un pensiero connesso è racchiuso nell’affermazione di Barbara Pezzini (che però propone la dizione

«gravidanza per altri»), secondo cui «la maternità costituzionalmente tutelata è la maternità in un corpo di donna, l’esperienza esistenziale che attraversa, molto materialmente, il corpo di una donna e costituisce il centro della relazione primaria ed essenziale tra le persone umane, quella generativa (riproduttiva), senza la quale l’esperienza esistenziale semplicemente non c’è» (si veda il contributo di Pezzini in questo volume). A mia volta sto sottolineando, come tornerò anche a dire nel testo, il momento della gravidanza e della nascita (evidente che il concepimento richiede il contributo sia femminile, sia maschile) e la relazione che ne deriva.

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In un’ottica di «genere» la regolamentazione della surrogazione è l’occasione per riconfigurare il «costrutto» materno in un procedimento divisibile in diversi momenti, concepimento-gravidanza-parto-allattamento6, cui è facile aggiungerne altri: accordo di genitorialità e adempimento, a seconda del grado e del tipo di partecipazione dei diversi interessati, a loro volta tipizzabili e standardizzabili come portatori ora del «progetto di gravidanza» ora del «progetto di genitorialità»7.

Si può però pensare altrimenti, e cioè che il materno è, tutto al contrario, ciò che evita la riducibilità della persona umana, così delle sue creazioni sociali (le relazioni) come delle sue capacità simboliche, ad altrettanti costrutti artificiali, ossia di natura cosale8 perché imprime nella convivenza, semplicemente mostrandolo, il bene di una «relazione senza secondi fini» (Muraro, 2011, 65), vale a dire di una esperienza i cui percorsi sono aperti, non interamente predittibili né pianificabili, che ci rende capaci di immaginare, di desiderare e quindi di fare ciò che chiamiamo «libertà», e anche la giustizia, quale ricerca dagli esiti aperti e rivedibili, governata dalla reciprocità. Questa è la visuale suggerita dal pensiero italiano della differenza sessuale, che, vedendo nel materno la «fonte di una autorità che non è potere» (Muraro, 2011, 111), ne ha mostrato il senso politico, individuandolo come base di una idea di convivenza non centrata sui rapporti di forza; e che ha avvertito come la libertà femminile sia questione che prima di tutto investe la logica: fare giustizia alle donne significa discutere i modi di pensare, chiedendoci che cosa ne va a pensare in un modo o in un altro (ibidem). E a me pare che sia sempre così, quando si tratta della giustizia.

Dunque, la visuale di «genere», riducendo il materno a costrutto, si intona alla lettura, antichissima, ostile a riconoscere il significato politico del materno e della differenza

6 La Corte di Giustizia della Ue già lo fa, usando lo strumento anti-discriminatorio, cfr. le decisioni 18

marzo 2014 in causa C-363/12 e C-167/12, relative a madri committenti.

7 Nella proposta di Barbara Pezzini queste rubriche tendono a salvaguardare la specificità del femminile

nella procreazione, in coerenza con le sue premesse secondo cui l’analisi di «genere» vale a controbilanciare la neutralità della domanda antidiscriminatoria; a me pare che il loro esito sia quella dissezione meccanica dell’esperienza, che, radicata anche nella medicina contemporanea, milita contro la competenza su di sé e contro la nostra auto-percezione quali esseri «unici, irripetibili, autentici», incita alla «interiorizzazione del management di sé» e favorisce «l’utilizzo dell’esperienza personale per la moderna amministrazione» (Duden, 2008, p. 132 ss.). Proteggere il valore della gravidanza nella surrogazione di maternità è, a mio avviso, contro-intuitivo, dato che la surrogazione si porta caratteristicamente dietro l’enfasi sul legame genetico, che svaluta per definizione la madre di nascita (cfr. anche Millbank, 2012, p. 119 ss.) e si risolve nell’esaltazione del ruolo «monogenetico» del maschio (sulle cui implicazioni civili e politiche Pateman, 1997, p. 47 ss.).

8 Quando Luisa Muraro intitola il suo libro contro l’utero in affitto L’anima del corpo, evoca

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sessuale, e che ha sempre cercato di negare che la maternità è una potenza femminile la quale fa bene all’umanità e verso la quale l’umanità è debitrice (ibidem, 54). L’altra visuale consiste invece proprio nel riconoscere nel materno un valore, e precisamente, come dicevo, un valore universale della convivenza a matrice femminile. Ne emerge infatti «l’identità femminile con l’essere umano» (Muraro, 1995, 129-130) e ci si sente stimolate a ricercare le risorse ordinatrici di ciò, che pure scompiglia molte idee ricevute; ne nasce in particolare, per una giurista, la domanda se vi sono, nella cultura che adopro, strumenti che possono sintonizzarsi con questa visuale, e quali invece la frenano e negano.

All’interno del concetto di «genere» non è possibile postulare né che c’è qualcosa oltre il «sociale», ovverosia che gli esseri umani dispongono di risorse simboliche, che ci sono necessarie, per l’appunto, a saperci irriducibili a «costrutti sociali», ovverosia ad oggetti manipolabili. Né che esistano relazioni non fondate sulla dinamica potere/oppressione, la quale, a sua volta, presenta come ineluttabile l’ordine che contempla una sfera «superiore», un tempo maschile, e sempre dedita allo sfruttamento e al dominio della sfera «inferiore», un tempo femminile, e sempre coincidente con le condizioni della riproduzione della vita e dei beni che le sono necessari9. Della

possibilità di pensare altrimenti è invece espressione la generazione materna10.

Per la sua stessa costituzione, dunque, inerentemente neutralizzata e spoliticizzata11, il

concetto di «genere» non può pensare alcuna cosa, tanto meno il materno, come momento di libertà; esso invece si trova a suo agio con la prospettiva dei «diritti» perché quest’ultima non contraddice, ma anzi esalta, l’idea che l’esperienza sia fatta di costrutti, amministrabili dalle relative politiche, quali aspetti nevralgici del governo della società e della distribuzione del potere al suo interno.

Di qui lo strettissimo collegamento tra «genere» e antidiscriminazione.

9 È questo l’ordine preservato dalle politiche di genere, che programmaticamente promuovono lo

spostamento di sempre nuove soggettività o gruppi, a partire dalle donne, dalla sfera «inferiore» nella sfera «superiore», così perpetuando l’ordine dicotomico fondato sullo sfruttamento e sul dominio (Praetorius, 2016, 70; Danna, 2011, 33).

10 Che caratterizza l’umano come portatore della «natalità», della «relazionalità» e della «differenza», v.

la rilettura che delle famose posizioni arendtiane sulla nascita in Praetorius, 2016, spec. p. 108 ss.

11 Eludere la differenza sessuale, ridotta a costrutto (neutralizzazione) va in una col negare il problema

della possibilità di un diverso ordine tra produzione e riproduzione, e del valore di quest’ultima (spoliticizzazione).

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4. Tendere al mutamento qualitativo, decostruire l’antidiscriminazione

In termini antidiscriminatori, la surrogazione di maternità viene argomentata sia come un modo per riconoscere il diritto alla genitorialità delle persone omosessuali, decostruendo così il paradigma eterosessuale della famiglia, sia come modo di affermare un diritto delle donne a liberarsi dallo «stereotipo» espresso dal costrutto materno fatto di amorevolezza e disinteresse.

Come sempre avviene nel campo antidiscriminatorio, la retorica del cambiamento e del

progresso copre l’assenza del mutamento qualitativo, cioè nell’ordine dei valori.

Il primo argomento, per esempio, sovrastima il significato di un avvicendamento nell’utenza della surrogacy che, di per sé, non ne modifica affatto il senso: fin da quando si dava per scontato che a ricorrere alla surrogazione fossero solo coppie etero è apparso chiaro che si trattava di un nuovo avvento del «diritto paterno» (Pateman, 1997, 47). Alle «nuove frontiere della genitorialità», altrettanti congegni di distribuzione dei diritti genitoriali, non è difficile obiettare che da sempre «affinché gli uomini possano appropriarsi dei figli in quanto padri, sono stati necessari elaborati meccanismi istituzionali» (Pateman, 1997, 274)12. Non cambiando in alcun modo il senso di

dinamiche antichissime, e limitandosi a fare come quelle dinamiche non ci fossero, l’argomentazione anti-discriminatoria della surrogazione di maternità non produce

nuovo senso, rappresentando solo la conquista di nuovi spazi da parte di meccanismi di

mercato che costringono «tutti i rapporti inter-personali dentro lo schema autoreferenziale delle preferenze individuali» (Habermas, 2010, 107, cit. in Praetorius 2016, 49), ciò che per definizione lotta contro la proposizione collettiva, sociale, di domande trasformative intorno al significato e al valore dell’esperienza.

Più significativo ancora, quanto a incapacità della prospettiva anti-discriminatoria a allearsi a reali mutamenti di senso, è l’altro argomento, secondo cui la surrogazione di maternità emancipa le donne dallo «stereotipo materno» (argomento cui mi pare Barbara Pezzini conceda qualche credibilità, come del resto al primo).

12 E ancora: «con l’invenzione del contratto di sostituzione [grazie al quale il bambino è di proprietà

dell’uomo che ha ottenuto per contratto l’uso di questi servizi], è tornato un aspetto del patriarcato classico» (Pateman, 1997, 276).