2.3 IVAN ILLICH: IL TEORICO DELLA CONVIVIALITÀ
2.3.2. Bisogni e strumenti
“da decenni sono impegnato ad analizzare ciò che gli strumenti fanno alla società. stavo scrivendo il mio primo libro sull’argomento, la convivialità, quando ho ricevuto l’invito a partecipare ai lavori del club di Roma. La mia risposta è stata: no, ho qualcosa di più importante da fare. Intendete occuparvi delle conseguenze che può avere sull’ambiente l’utilizzo di un determinato strumento. Intendete occuparvi soltanto dei prodotti materiali e dei loto effetti collaterali indesiderati. Io sono ossessionato dall’idea di ciò che gli strumenti utilizzati dai produttori possono fare alla società.”59.
Si esprimeva così, lo stesso Illich in una intervista rilasciata a David Caley ad inizio anni ’90, sul suo declino all’invito del Club di Roma. Prima di andare ad analizzare i concetti base che già si intravedono in questa breve citazione, ci appare come pressante una analogia di pensiero che intravediamo nel testo con un autore già citato nel primo capitolo di questo lavoro: Maurizio Pallante. Il fondatore italiano del movimento per la decrescita felice, nel suo lavoro “destra sinistra addio”, denuncia come vi sia uno scivolamento dei valori tradizionali della sinistra verso la parte opposta dell’emiciclo. Ci sembra di poter rintracciare dei germi di questa teoria già nel pensiero di Illich. “La crisi ha le sue radici nel fallimento dell’impresa moderna, cioè nella sostituzione della macchina all’uomo. […] Un implacabile processo di asservimento del produttore
59 David Caley, conversazioni con Ivan Illich. Un profeta contro la modernità, eléuthera, Milano,
e di intossicazione del consumatore.”60 Il focus del discorso illichiano in tutto il
suo più celebre pamphlet è il rapporto fra mezzi di produzione e soggetti con una forte attenzione però alla necessità intrinseca del soggetto di soddisfazione dei propri bisogni. Una delle sottolineature evidenti che sciorina durante la stesura del suo testo è sul totale asservimento del soggetto alle macchine; una radicale opposizione rispetto al Marx del capitale, alle sue analisi dello fruttamento delle della forza-‐lavoro, dell’alienazione e del feticcio della merce. Ciò che distingue nettamente le due visioni è la condanna aperta e totale che muove Illich all’industrialismo e alla sua natura produttivista: “certi strumenti (fabbriche, macrosistemi ecc.) per indole intrinseca non possono cambiare la loro funzione nefasta anche se mutano padrone. Essi sono destinati a perpetuare il soggiogamento del soggetto agli oggetti che ingannevolmente egli crede di piegare ai suoi scopi.”61 I rapporti di forza a cui Marx attribuiva le colpe
della condizione segregata del proletariato, sono disconosciute da Illich nella stessa sede: “la dittatura del proletariato e la dittatura del mercato sono due varianti politiche che celano lo stesso dominio da parte di una attrezzatura industriale in costante espansione.”62 Il il modo di produzione marxiano è
caratterizzato essenzialmente dalla creazione di plusvalore come “scopo diretto e motivo determinante della prodizione stessa”.63 Questo è storicamente
determinato, e riproduce non solo le merci, ma al suo interno porta anche i rapporti di produzione, e con essi i rapporti di distribuzione corrispondenti. Il lavoro salariato marxista, dunque, consente all’operaio di essere presente
60 Ivan Illich, la convivialità, Mondadori, Milano, 1974, p. 20. 61 Ivi, p. 30.
62 Ibidem.
esclusivamente come venditore di merci, aspetto che appiattisce drasticamente quella che Illich definisce ne la convivialità la “produzione autonoma dei valori d’uso”. La sua critica al lavoro salariato come unico mezzo di definizione del soggetto passa dunque, come accennato in apertura, dalla ridefinizione del concetto di povertà: quella condizione per la quale, per tracciare un rapido parallelismo con una nota teoria weberiana, il soggetto si ritrova ina situazione di servizio tatale alla macchina inanimata, che con la sua potenza costringe gli uomini fino a determinare la loro esistenza quotidiana. Sarà dunque la scelta di tecnologie conviviali, capaci di preservare lo spazio di autonomia soggettiva, che risulterà fondamentale sia nella definizione delle forme di lavoro che dei rapporti sociali.
È proprio a partire da questa netta differenza tra il Marx del capitale e l’Illich della convivialità che prendono forma due concetti basilari per comprendere il pensiero del secondo: bisogni e strumenti.
Il baricentro del pensiero contenuto nella convivialità si basa proprio nella analisi approfondita fra queste due categorie: mentre sotto il dominio incontrastato del mercato il soggetto è completamento assorbito dallo strumento che gli viene imposto, in una ipotetica società conviviale questo non accade. Ecco dunque che lo scacco non risulta matto con l’introduzione del modello dello strumento conviviale, che serve all’individuo per non essere completamente assorbito dalla pesantezza della –necessaria – megamacchina burocratica atta a governare la società industriale. Questi strumenti si caratterizzano per rendere operativo un ribaltamento nelle dinamiche di potere tra soggetto e strumenti: non è più il primo ad essere schiavo dei secondi, ma al
contrario questi tornano ad essere un mezzo per raggiungere i propri bisogni. Questo passa attraverso la creazione di strumenti che rispondono a tre precise caratteristiche: genera efficienza (da non confondere con l’efficienza della società produttivista, all’interno della quale i bisogni del soggetto rimangono intrappolati in dinamiche totalmente indipendenti dalla sua volontà di azione) senza degradare l’autonomia personale, non produce servi né padroni ed estende il raggio di azione personale.
Risulta molto interessente come, all’interno della società post-‐industriale, Illich trovi grandi analogie tra quelle che egli definisce le moderne forme di pauperismo e il monopolio (sia in fatto di creazione di pensiero che di azione) del mercato: la nuova povertà risulta dunque essere “quello stato di opulenza frustante che si ingenera nelle persone menomate da una schiacciante soggezione alle ricchezze della produttività industriale”64. Obiezione immediata
e, se ci è permesso abbastanza sterile, è posizionare su di un piano comunque preferibile questa presunta forma “alternativa di povertà” rispetto ad una condizione di scarsità assoluta di risorse, di qualsivoglia genere. Senza addentrarci però in questo aspetto critico, quello che ci appare come degno di nota, e che ci permette di stabilire in altro legame molto forte con gli altri ispiratori della teoria convivialista fin qui analizzati, è l’inserire questa categoria in un orizzonte di filosofia della storia. Subito in apertura de la convivialità, Illich esordisce con l’intento del suo pamphlet: quello, come già detto di trovare un epilogo all’età industriale. Ma è anche un periodo al capoverso immediatamente successivo a stimolare il nostro interesse: “soprattutto intendo
dimostrare questo: che i due terzi dell’umanità possono ancora evitare di passare per l’età industriale se sceglieranno sin d’ora un modo di produzione fondato su di un equilibrio post-‐industriale quello stesso al quale i Paesi sovraindustrializzati dovranno ricorrere davanti alla minaccia del caos”65. È
chiaro: la storia non ha sviluppo progressivo. Seguendo questo disegno, la tappa che stiamo vivendo ora, quella dell’età dell’economia di mercato, dell’industrializzazione globalizzante e dell’inversione dei rapporti fra mezzi e fini, tra macchine e operatori, rappresenta una fase in netta continuità con le logiche tracciate dalle ideologie imperanti del XX secolo.