2. PRECURSORI ED ISPIRATORI DELLA TEORIA CONVIVIALISTA
2.1. WALTER BENJAMIN E “IL CAPITALISMO COME RELIGIONE”
2.2.2. Le conferenze giapponesi e “l’universale singolare”
raccolta di saggi l’analisi dello studioso triestino: “il tramonto dell’interesse per il suo pensiero […] è dipeso dal fatto che egli tenne ferma un0idea dialettica e storica di verità che apparve più come il residuo dei grandi sistemi metafisici del XIX e XX secolo che come una questione da rilanciare attraverso una molteplicità di declinazioni soprattutto pratiche e pragmatiche. Ciò non toglie che è forse precisamente la persistenza di queste due questioni – quella della verità e quella del soggetto – ciò che permette di riconoscere in Sartre i tratti di un autore paradossalmente attuale”.34
2.2.2. Le conferenze giapponesi e “l’universale singolare”.
2.2.2.1. La nascita degli intellettuali.
“[…] Il momento della coscienza infelice – cioè dell’intellettuale propriamente detto – non rappresenta affatto una stasi ma una sosta provvisoria nello slittamentoche trasforma il tecnico del sapere pratico in un compagno radicalizzato delle forze popolari a condizione – cosa che allora non dicevo -‐ che
33 J.-‐P. Sartre, l’universale singolare, saggi filosofici e politici 1965-‐1973, mimesis edizioni, Milano,
2009, p. 9.
egli assuma una nuova distanza rispetto alla sua professione, ovvero al suo essere sociale e capisca che nessuna denuncia politica potrebbe compensare il fatto ch’egli è oggettivamente nemico delle masse”35. Partiamo dalle parole dello
stesso Sartre che, in una nota in apertura della conferenza tenuta in Giappone nel 1965 dal titolo “che cos’è un intellettuale?”, aggiunge una postilla che sposta di qualche passo le condizioni cui era giunto: l’intellettuale risulta tale se trova le modalità per negare il momento squisitamente intellettuale della sua professione, per attraccare in porti in cui l’agire pratico gli permetta di trovare uno “statuto popolare”36. Ovviamente la terminologia utilizzata da Sartre
permette di inquadrare l’orientamento politico che sta alla base di tutta la sua disamina della figura dell’intellettuale; questa sfondo è il marxismo, ideologia con la quale intrattiene rapporti molto stretti dal dopoguerra fino alla morte. Questo risulta evidente quando utilizza la categoria della produzione e del salario per descrivere brutalmente i pensatori come inefficaci alla difesa della propria posizione sia sul terreno civile che in quello politico; oltre a questa fallacia fondamentale, vi è un secondo aspetto che declassa gli intellettuali, cosiddetti classici, agli occhi di chi scrive tenendo come linea rossa dell’evoluzione del suo pensiero il marxismo: il dogmatismo e l’astrattezza con la quale questi si approcciano all’atto pratico: questo risulta per principio contradditorio dacché il marxismo si oppone al moralismo.
L’ambizioso progetto che ci poniamo in questo frangente è però quello di rileggere questo ciclo di conferenze sartriane con gli occhiali dei teorici del dono, per provare a teorizzare una possibile divulgazione della teoria convivialista,
35 Ivi, p. 25. 36 Ibidem.
nata da una loro costola. È quindi fondamentale un passaggio, al quale crediamo che Sartre si rifaccia nella nota alla pubblicazione che abbiamo riportato; la nascita degli intellettuali come tecnico del sapere pratico viene fatta coincidere da Sartre con lo sviluppo della borghesia, e col conseguente conflitto con la mater ecclesia per l’intralcio causato dai suoi principi al capitalismo commerciale. È con il trionfo incontrastato dell’economia di mercato del XVIII secolo che la borghesia sente la necessità di affermazione di classe, ed è in questo scenario che gli intellettuali prendono il posto dei chierici, lavorando per fornire una ideologia alla borghesia che la identifichi come coscienza. Applicando il metodo analitico alla teorizzazione ideologica borghese, ed estendendo l’idea di legge naturale all’ambito economico, un teorico del dono potrebbe qui leggere il prologo alla sclerotizzazione37 dell’economia di mercato
globalizzata e finanziaria che sta vivendo l’uomo contemporaneo.
Continua Sartre poco dopo: “l’individualismo appare ai proprietari borghesi come l’affermazione della proprietà reale. […] L’atomismo sociale è il risultato dell’applicazione del pensiero scientifico dell’epoca alla società: il borghese se ne serve per rifiutare gli organismi sociali. […] In quell’epoca la borghesia si considera la classe universale”38. Appare dunque chiaro come vi sia, in Sartre,
una stretta correlazione fra l’ascesa della borghesia e l’individualismo metodologico definito da Alain Caillè come il primo paradigma costituente le scienze sociali; minimo comun denominatore di tutte le scuole di pensiero che
37 utilizziamo questo termine molto caro a Sartre; lo utilizzerà in altre conferenze - i comunisti hanno
paura della rivoluzione, il socialismo venuto dal freddo – per descrivere le storpiature nella
realizzazione pratica della teoria marxista.
prendono le mosse da questo primo paradigma è la sostanziale ispirazione al soggetto visto come homo aeconomicus.
2.2.2.2. La contraddizione negli intellettuali ed il rapporto tra “storia” e “Storia”.
È dunque la borghesia, secondo Sartre, a insignire de facto gli intellettuali del ruolo che fino a poco prima spettava ai chierici: la creazione di una ideologia che identifichi i soggetti come facenti parte di un gruppo. Vi è un punto che caratterizza indiscutibilmente un soggetto come intellettuale, e questo è la tensione provocata in lui dal divario esistente fra la sua situazione iniziale e la mansione che si trova nominato a svolgere. Per analizzare senza iati questa fondamentale opposizione, dobbiamo fare un accenno alla filosofia della storia che era stata messa in progetto da Sartre nella critica della ragione dialettica; lo scritto, diviso in due tomi, è rimasto incompiuto ed è stato pubblicato soltanto postumo. L’idea di una formulazione di filosofia della storia viene ampiamente ripresa in una conferenza del 1964, tenuta al colloquio internazionale su Kierkegaard organizzata dall’UNESCO a Parigi, l’universale singolare. In questo saggio, si rintraccia chiaramente la polemica che Sartre conduce nei confronti di due opposte tendenze nell’affrontare la realtà umana: lo spirito analitico e lo spirito sintetico. Da un lato, se si adottasse senza riserva lo spirito analitico, si rischierebbe di cadere in un’ideologia prettamente borghese, fondate sulla mitizzazione dell’atomismo sociale e dell’ideologia individualistica; dall’altro
lato, con il matrimonio incondizionato dello spirito sintetico, prenderebbero forme vari tipi di sclerotizzazione nell’interpretazione della realtà: una dogmatizzazione di questo, soprattutto in chiave politica, rischierebbe di far cedere la singolarità per far spazio ad un collettivismo deteriore.
Per parlare della concezione della storia che sviluppa Sartre in questi frangenti, egli distingue fra storia e Storia con la “s” maiuscola. Di primo impatto questa potrebbe sembrare una gerarchizzazione a livello di importanza: questa lettura ci porterebbe immediatamente fuori strada. La Storia non è né più vasta né tantomeno più importante della storia, essa rappresenta la condizione di possibilità di qualsivoglia storia.
È all’interno della nostra occasione di viverci come storici che i vissuti altrui, indipendentemente dal fatto che essi siano morti o viventi, si danno come storici: ecco il motivo centrale della ricerca sartriana in quell’intervento sul filosofo di aut-‐aut, sulla circostanza di poter allacciare un rapporto col pensiero di personaggi, anche non contemporanei all’autore.
«Questo significa anche che ogni storia, nel momento in cui, al presente o al passato, si stabiliscono dei rapporti con altre storie, è l’incarnazione della Storia. Ci sono delle storie, ma ognuna di queste è la Storia. […] La Storia […] può essere compresa e resuscitata (grazie al suo uso pratico) solo in base a una prassi storica che si definisce anch’essa attraverso il suo sviluppo temporale».39
È letta in quest’ottica che la concezione della storia si indirizza verso il concetto di antropologia sintetica: rispetto a questa relazione con gli altri vissuti si danno
39 J.P. Sartre, Critica della ragione dialettica, secondo tomo, Christian Marinotti edizioni, Milano,
passati o presenti storici, al di fuori della relazione c’è il nulla; appunto questa relazione è, per Sartre, la Storia.
La Storia è dunque da intendersi come il confine entro il quale la prassi acquisisce un significato storico reale. All’interno di questo perimetro accadono tutte le storie che acquisiscono il valore di relazione le une con le altre.
Punto focale di questa concezione risiede nel fatto che la prassi vivente non deve perdere per sé medesima l’accezione di storica: nel momento in cui questa perdesse la consapevolezza di far parte storicamente e relazionalmente della storicità, e pretendesse di avere valore assoluto, allora si cadrebbe in un dogmatismo pseudo-‐storico sclerotizzato.
Nel primo tomo della Critica della ragione dialettica, Sartre intrattiene un dialogo continuativo con il marxismo sul terreno del materialismo dialettico: in quest’opera, come anche nella conferenza materialismo e rivoluzione presente nella raccolta che stiamo analizzando, la differenza tra il marxismo originale e quello a lui contemporaneo, dogmatizzato e sclerotizzato, si fa molto più accentuato. Secondo Sartre, Marx ha avuto il gran merito, all’interno della sua filosofia, di porre fortemente l’accento sull’antagonismo di forze contrapposte come motore dell’esistenza umana.
Se si seguisse passo dopo passo l’evoluzione del primo tomo della critica, si cadrebbe facilmente nell’errore di trovare svariate convergenze con la dottrina marxista, se non si tenesse conto dell’accezione della storia di cui abbiamo appena parlato; in questa prima sezione dell’opera, ricostruendone i passaggi teorici col solo scopo di riuscire a comprendere quanto stiamo per dire, il ragionamento di Sartre prende le mosse dalla prassi individuale fondante il
concetto dei collettivi e della serie, per poi spostarsi ai gruppi come soggetti storici.
A prima vista colpisce quanto Sartre, nel perseguire il suo intento di dare una forte base teorica al mito rivoluzionario del marxismo dogmatico con l’esistenzialismo, privi il singolo soggetto di una qualche effettiva consistenza storica portandolo, con l’avanzare del suo ragionare, a far parte di un gruppo che abbia propria ed effettiva validità storica. Sembra qui risolversi nell’assunzione del singolo da parte di un gruppo quella contingenza assoluta intrinseca nell’esistenza del singolo uomo; torna qui in gioco quella che abbiamo definito come la grande differenza tra il “primo Sartre” e quello del dopoguerra: l’entità della scelta del singolo individuo, e la centralità dell’intersoggettività. Questa soppressione della singolarità è riscontrabile nella teorizzazione delle serie: all’interno di queste, l’energia che determina la loro esistenza, è una forza di relazione passiva con gli oggetti esterni; così definita, questa forza prende il carattere di forza negatrice rispetto all’individualità del singolo; all’interno della serie, gli individui sono interscambiabili e schiacciati dalla condizione di conformità all’identità della serie. Eppure queste entità, in cui il singolo si disperde, sono il presupposto per la formazione di quei gruppi che hanno la caratteristica di esser definiti “insiemi pratici”. I singoli, all’interno di questi, mantengono la loro identità per la necessità intrinseca al gruppo di una “praxis comune”. Risultano quindi motivi centrali di differenza tra le serie e i gruppi sia la prassi, intesa come “tensione verso” un obiettivo comune, che la natura dei legami che da esterni al gruppo passano ad essere interni, volti alla ricerca di una progettualità che faccia da collante tra le varie singolarità: «il mio essere-‐
nel-‐gruppo diventa immanenza, sono in mezzo a terzi e senza statuto privilegiato. L’operazione non mi trasforma in oggetto, perché la totalizzazione mediante il terzo non fa che seguire una libera praxis come unità comune che è già presente e già lo qualifica. Praticamente, ciò vuol dire che sono integrato all’azione comune quando la praxis comune del terzo si pone come regolatrice. […] La parola d’ordine non è “obbedisci”! chi mai obbedirebbe? E a chi? Non è altro che la praxis comune, che diviene in un terzo autoregolatrice per me e tutti nel movimento di una totalizzazione che mi totalizza con tutti».40
Questa esposizione così drasticamente sommaria dei temi del primo volume della critica, sono utili per farci introdurre nuovamente la diversità nel concetto di storicità: il movimento.
Esiste una forte analogia fra il movimento che caratterizza il percorso che va dall’individuo al gruppo passando per il collettivo e quello che, per Sartre, caratterizza il divenire storico.
Il moto tra l’individuo e il gruppo non si caratterizza per il movimento lineare di negazione seguente alla negazione di negazione; questo movimento, definito da Sartre come “dialettica dogmatica”, costituisce il primo obbiettivo polemico della critica. È lo stesso Sartre a farci capire come finalità dell’opera sia quello di fondare una “dialettica critica” «come libera critica di se stessa e insieme come movimento della Storia e della conoscenza. Cosa che non si è fatta sinora, perché la si è bloccata sinora».41 Per questa lettura non solo il movimento permane
come aperto, ma questa permanenza implica il continuo ritorno a ciò che è stato precedentemente già negato. Le negazioni, dunque, non vengono mai
40 Jean-Paul Sartre, critica della ragione dialettica, cit., pp. 15-16. 41 Ivi, Volume I, p. 148.
perfettamente superate; queste non si dissolvono ma continuano a permanere in ogni progetto pratico.
In questo senso Sartre teorizza il movimento storico in netta contrapposizione alla lineare evoluzione storica dettata dal marxismo: per lui, viceversa, questa ha un andamento a spirale. La figura teorica della spirale indica molto precisamente l’inevitabilità del ritorno sul negato.
La caratteristica principale che Sartre contesta alla dialettica classica, e dogmatica dal suo punto di vista, è la concezione di linearità storica: questa progressione lineare è attribuita da Engels alla natura e alla prassi umana, indiscriminatamente. In questa concezione, i marxisti si limitano ad imporre delle leggi di causalità esterna; questi sono assunti aproblematicamente dall’esterno e si limitano a connettere gli avvenimenti che si presentano.
Ci permettiamo, dopo aver introdotto concisamente quella che sono le linee guida della filosofia della storia sartriana, di ritentare nuovamente l’operazione fatta pocanzi: vestire i panni di un teorico del dono che abbraccia il Manifesto convivialista, e commentarne i passaggi salienti. Come detto, uno dei miti dell’evoluzione del pensiero che l’operazione conviviale tenta di sfatare è la teoria del progresso; crediamo che la figura teorica della spirale ben disegni un andamento che nulla ha a che spartire con quella della lineare progressione umana di stampo hegeliano o marxista.
La “dialettica critica sartriana” è invece caratterizzata dal movimento che lui stesso definisce del va et vient, del cosiddetto movimento progressivo-‐ regressivo che rappresenta, secondo molti critici, la compiuta fusione tra marxismo ed esistenzialismo; caratteristica principe di una dialettica critica è la
consapevolezza della propria condizione pratica e condizionamento del campo pratico in cui si sviluppa. Questa dialettica storica ipotizzata da Sartre non può prescindere dalle condizioni e dai fatti materiali entro cui si sviluppa e che si prefigge di comprendere tramite il movimento a spirale: questa si fonda all’interno del campo pratico che costituisce allo stesso tempo sua possibilità e suo confine di realizzazione.
Sarebbe un grosso errore però considerare la dialettica sartriana del movimento progressivo-‐regressivo come fondata esclusivamente a posteriori; egli distingue fra due momenti fondanti la sua teoria: la “dialettica costituita” e la “dialettica costituente”. La prima è qualificata da una comprensione a posteriori dei movimenti contraddittori di una prassi già accaduta; la dialettica costituente è invece quel processo dinamico di contraddizione e negazione che compone la prassi mentre essa è in corso.
In questo modo, con questo duplice movimento, Sartre impedisce di interpretare la storia come puramente progressiva e obbliga a ricercare i movimenti dialettici che costituiscono la prassi vivente e vissuta del singolo. Sartre stesso descrive questo movimento come «unità organizzata di una pluralità di opposizioni che si superano a vicenda».42
Letto sotto questa prospettiva, seguendo questa distinzione fra “dialettica costituente e dialettica costituita, il metodo progressivo-‐regressivo per interpretare la storia acquisisce una straordinaria efficacia a livello ermeneutico: accanto alla considerazione a posteriori della dialettica costituita,
42 Ivi, volume II, p. 243.
non si può prescindere dalla valutazione di ogni singola prassi individuale in corso di svolgimento.
Come detto in precedenza, anche lo storico, nel momento in cui volesse indagare degli avvenimenti, cesserebbe di avere una progettualità realizzabile nel momento in cui si ergesse ad assoluto; egli dovrebbe necessariamente continuare a considerarsi come coinvolto nella prassi in corso: «la comprensione non è altro che la mia vita reale, ossia il movimento totalizzatore che coinvolge il mio prossimo, me stesso e l’ambiente circostante nell’unità sintetica di un’oggettivazione in corso».43
Cosa intende Sartre per movimento totalizzatore? L’unità delle differenze che si susseguono all’interno del movimento storico, unità che risulta essere sempre in corso e mai compiuta definitivamente, è ciò che Sartre chiama totalizzazione. Per descriverla, si pone ancora una volta l’accento sulla comunità d’intenti che i singoli devono perseguire per raggiungere un obbiettivo comune; da questa lettura la totalizzazione risulta essere sorella della prassi: è il processo per cui, all’interno del movimento, ogni singola azione viene collegata alle altre azioni in una spirale in cui ognuna di queste è de-‐totalizzata e ri-‐totalizzata a partire da tutte le altre; «questo implica dunque non solo che la praxis ad ogni livello sia diversa, ma anche che tali differenze siano fondamentalmente prodotte come contraddizioni che abbiano l’effetto di costituire vive opposizioni, conflitti, superamenti e lotte tra le diverse forme della stessa azione».44
Nel celebre saggio Questioni di metodo – ormai universalmente edito come l’introduzione alla critica diversamente dal progetto iniziale di Sartre – il
43 Ivi, p. 114. 44 Ivi, p. 346.
pensatore francese attacca senza mezze misure i dirigenti del PCF; sono loro i maggiori responsabili di quella separazione netta fra teoria politica e teoria marxista: «accanitisi a spingere al limite l’integrazione del gruppo, essi temettero che il libero divenire della verità, con tutte le discussioni e tutti i conflitti che esso comporta, spezzasse l’unità della lotta; si riservarono il diritto di riservare la linea e di interpretare l’evento».45
Sartre attacca l’atteggiamento di questo comunismo sclerotizzato accanitamente, sottolineando come questo non rispetti più la verifica continua dei princìpi teorici attraverso un esame spregiudicato della realtà – come lui auspicherebbe tramite la sincrasia fra marxismo ed esistenzialismo –; per i dirigenti si tratta invece di analizzare meccanicamente i fatti, partendo dai loro principi che considerano indiscutibili, facendo in modo ch’essi li confermino: «l’evento ha il dovere di confermare le analisi a priori della situazione».46
Muovendo da questi presupposti, il marxismo dogmatizzato tradisce l’empirismo realista del suo fondatore per abbracciare una concezione idealistica della realtà: come ogni idealismo, questo marxismo violenta i fatti per farli combaciare agli assunti da cui parte; privilegia non la comprensione del particolare, e quindi la salvaguardia della singolarità dell’individuo, ma la verifica ad ogni costo del generale tramite i suoi strumenti: «pensare, per la maggior parte dei comunisti attuali, è pretendere di totalizzare, e, con tale pretesto, sostituire la particolarità con un universale».47
45 Jean-Paul Sartre, critica della ragione dialettica, questioni di metodo, il Saggiatore, Milano, 1963, p.
28.
46 Ivi, p. 26. 47 Ivi, p. 31.
Il concetto di totalità detotalizzata è riscontrabile fin da L’Être et le néant: «la totalità può venire agli esseri solo per mezzo di un essere che deve essere in loro presenza la propria totalità. È precisamente il caso del per-‐sé, totalità detotalizzata che si temporalizza in una continua incompiutezza».48 Questo
sembra dunque il passaggio fondamentale nel cambio di prospettiva che stiamo indagando: nella prima fase della sua ricerca filosofica, la progettualità del singolo sembrava sempre risolversi in uno scacco ontologico intrinseco alla realtà umana; l’impossibilità di pervenire ad una totalità sia in rapporto a sé che in rapporto agli altri. In questo momento la realtà umana può solo costituirsi come realtà detotalizzata. Partendo da questa lettura della realtà umana, il confronto teorico con il marxismo accusato di voler sopprimere la soggettività del singolo assumono valenze ancor più significative.
Riprendendo la citazione precedente, si nota anche come Sartre sia in aperta polemica con l’atteggiamento del partito comunista francese ed i suoi dirigenti; negli anni successivi la seconda guerra mondiale egli scriverà molti saggi circa l’aspetto di questo riguardo molti episodi storici realmente accaduti: dalla