SULLA TEORIA CONVIVIALISTA E I SUOI PRECURSORI
Introduzione
1. Presentazione del Manifesto convivialista
1.1. Introduzione alla lettura del Manifesto
1.2. Un accenno sulla genesi filosofico-‐politica del convivialismo 1.3. Del retroterra culturale
2. Precursori ed ispiratori della teoria convivialista
2.1. Walter Benjamin: il capitalismo come religione 2.1.1. Antesignani e successori
2.1.2. Attualità benjaminiana
2.2. Il “secondo” Jean-‐Paul Sartre: l’apertura all’intersoggettività nell’intellettuale engagée
2.2.1. La conversione nel “secondo” Sartre
2.2.2. Le conferenze giapponesi e “l’universale singolare” 2.2.2.1. La nascita degli intellettuali
2.2.2.2. La contraddizione negli intellettuali e il rapporto tra Storia e storia
2.3. Ivan Illich: il teorico della convivialità 2.3.1. Il periodo di Cuernavaca
2.3.2. Bisogni e strumenti
2.3.3. Il rapporto con la sociologia classica 2.3.3.1 individuo, istituzioni e società
2.4. Marcel Mauss: equilibrio e tripartizione del dono 2.4.1. Il “saggio sul dono”
2.4.2. Il superamento del terzo movimento, parte prima: sociologia ed economia politica
2.4.3. Parte seconda: equilibrio e disequilibrio 2.4.4. le conclusioni di Mauss
3. Tornando al Manifesto
3.1. Convivialismo e (nuova) democrazia
3.2. Convivenza – e sue molteplici declinazioni – 3.3. la casa comune e il concetto di hybris moderna
4. conclusioni
5. bibliografia e sitografia
1. PRESENTAZIONE DEL MANIFESTO CONVIVIALISTA
1.1. INTRODUZIONE ALLA LETTURA DEL MANIFESTO
“Mai come oggi l’umanità ha avuto a disposizione tante risorse materiali e competenze tecnico-‐scientifiche. […] Eppure, nonostante ciò, nessuno è disposto a credere che questa accumulazione di potenza possa essere perseguita indefinitamente senza che, in una logica immutata di progresso tecnico si ritorca contro se stessa e metta a repentaglio la sopravvivenza fisica e morale dell’umanità.”.1
Si apre così il primo saggio, firmato dal Professor Francesco Fistetti, del numero della rivista di filosofia e scienze sociali post-‐filosofiae interamente dedicata alla pubblicazione in lingua italiana del “Manifesto convivialista”. Già da queste preliminari indicazioni, risulta chiaro il retroterra di filosofia della storia da cui ha preso le mosse il gruppo di pensatori firmatari del Manifesto: mai come nella nostra presente contingenza storica, l’umanità ha avuto a disposizione un simile arsenale di competenze tecnico-‐scientifico; questo però potrebbe risultare, nella peggiore delle ipotesi, il motivo principe addirittura della estinzione fisica
1 Francesco Fistetti, Compendio del manifesto convivialista, Postfilosofie, #7, anno 2013-2014,
dell’essere umano. Appare dunque un primo orizzonte problematico, definito da minacce descritte nel saggio di tipo entropico, che ai più potrebbe però risultare semplicemente apocalittico, nonché frutto di una mancanza di fiducia nello spirito di auto-‐conservazione umana che ha guidato la nostra specie attraverso molti altri passaggi storici delicati, i più recenti dei quali caratterizzati da una simile capacità auto-‐distruttiva, almeno in potenza. Forse per allargare fin dalle prime battute il respiro del lavoro di ricerca, si affiancano nel saggio di Fistetti una seconda serie di problematiche da affrontare: quelle definite antropiche. Ponendo sullo stesso piano, senza giudizio di valore alcuno, la sopravvivenza fisica a quella morale dell’umanità, l’approccio con il Manifesto assume una valenza anche di ordine filosofico morale e politico rilevante.
La questione fondamentale, che accomuna sia le minacce antropiche che quelle entropiche, rimane comunque la ricerca di una soluzione per la gestione delle rivalità e della violenza, insite nella natura dell’essere umano. Queste, accompagnate dalla accumulazione di potenza virtualmente e fattualmente auto-‐distruttiva, devono essere incanalate necessariamente in maniera virtuosa. Stando ad una lettura tradizionale della filosofia politica, questa potrebbe sembrare una chiara referenza alla nota tesi di Hobbes, secondo cui lo stato di natura sarebbe caratterizzato da un costante bellum omnium contra omnes, e in cui la responsabilità della guerra necessaria nello stato pre-‐giuridico sia imputabile alla naturalezza umana. Vi sono però letture più recenti, che avvallano la tesi secondo cui la nascita dello stato di guerra non sia da ricercare nella condizione originaria della naturalezza umana, bensì nella condizione sociale ed economica in cui versa il soggetto; la sete di potere, la competizione
smisurata per la sopravvivenza, la paura verso i propri simili sono i semi che permettono all’aggressività umana di germogliare.2 Nasce così una idea che
rigetta irreversibilmente il parallelismo della nascita della violenza con quella dell’essere umano.
Per chiarire ulteriormente questo aspetto, la lettura del professor Macpherson, non vuole certo negare la condizione della natura umana descritta chiaramente nel Leviatano come homo homini lupus. Quello che intende è porre su un piano differente questa caratteristica, legandola strettamente con un’altra categoria da lui introdotta: il modello egoistico della società di mercato.3
Il Manifesto convivialista, scritto dal pugno di Alaine Caillé, è il risultato di discussioni in seno ad un gruppo di autori, principalmente francofoni, uniti sotto la bandiera del movimento anti-‐utilitaristi delle scienze sociali (MAUSS). Già dal nome del movimento francese non risulta difficile intuire l’impostazione culturale e teorica dal quale prendono le mosse: uno dei principali ispiratori della nascente teoria è senza dubbio Marcel Mauss, celeberrimo antropologo autore del saggio sul dono4. Senza entrare ora nei dettagli dell’opera di Mauss, basterà ricordare che egli impiegò i suoi sforzi nello studio dei circuiti economici di civiltà arcaiche, prevalentemente oceaniche. I suoi studi lo
2 Crowford B. Macpherson, The Political Theory of Possessive Individualism. Hobbes to Locke,
Oxford University press, 1962.
3Alcuni critici della rilettura macphersoniana avanzarono la tesi secondo la quale questo
modello non possa essere applicato all’opera hobbesiana che precede di un secolo abbondante l’avvento della cosiddetta società di mercato. Questo nel caso in cui si facesse convenzionalmente coincidere questa con la pubblicazione de “La ricchezza delle nazioni” di Adam Smith.
Alcuni suoi sostenitori, invece, sostengono che i primi segnali di questo nuovo modello sociale potevano già essere riscontrati negli anni in cui Hobbes fu in piena attività; sempre per convenzione i suoi sostenitori datano l’embrionale società di mercato, seppur su di un piano prettamente filologico, con la famosa querelle des anciens et des modernes combattuta a fine sedicesimo secolo.
condussero alla teorizzazione dell’economia del dono presente in società estranee alle dinamiche mercantilistiche tipiche dell’occidente moderno. Questa forma “alternativa” di economia si compone prevalentemente di tre movimenti: donare, ricevere e contraccambiare; senza la presenza di tutti e tre i momenti, il circolo virtuoso del dono non può considerarsi completo.
Pensiamo non servano ulteriori approfondimenti in questa preliminare sede per poter identificare il pensiero di Mauss col cosiddetto paradigma collettivista, contrapposto a quello individualista metodologico o utilistarista; questa divisione ha sancito le principali tappe dell’evoluzione antropologica occidentale. La crepa più evidente che si apre nell’interpretazione sociale fra i due modelli è sicuramente riguardo al binomio concettuale individuo-‐società; mentre i secondi rivolgono le loro analisi prevalentemente all’individuo, ponendolo su un gradino più alto nella scala di valore, i primi partono dal presupposto teorico chiaro che la società preesiste all’individuo che vive assoggettato alle sue regole. Emblematica una frase di Alain Caillé a riguardo: “nel caso dei collettivisti, anteponendo la società all’individuo e ritraendo quest’ultimo come assoggettato a una sorta di vincoli rituali, religiosi, sociali calati dall’alto, si arriva a concludere che cultura e società preesistono all’individuo”5. Gli studiosi del già citato MAUSS6 si sono concentrati parecchio
sulla rilettura in chiave contemporanea del paradigma del dono; questo secondo la loro lettura, potrebbe essere considerato il demiurgo delle nostre società,
5 Alain Caillé, Il terzo paradigma. Antropologia filosofica del dono, Bollati Boringhieri, Torino,
1998, p. 37.
l’elemento costitutivo delle nostre relazioni inter-‐personali. In quest’ottica il dono diventa la conditio sine qua non della creazione dei rapporti sociali.
Torniamo, grazie a questo appiglio fornitoci da Caillé e dagli studiosi del MAUSS, alla lettura del Manifesto. La mancanza di consapevolezza di questo movimento virtuoso del dono all’interno delle nostre società occidentali porterebbe, una volta accettata la loro lettura, all’impossibilità di creare autentici rapporti sociali. Soffermiamoci dunque sulle minacce di ordine morale e politico di cui parla il professor Fistetti nel suo saggio. L’incapacità generata da questa inconsapevolezza sarebbe dunque alla base della mancanza di rapporti autentici; per portare un esempio paradigmatico per il Manifesto convivialista potremmo parlare della fiducia
“La debolezza crescente dei partiti e delle istituzioni politiche nell’affrontare i problemi della nostra epoca e nel guadagnare, o anche nel conservare, la fiducia della maggioranza delle persone si spiega con l’incapacità di riformulare l’ideale democratico […] rompendo con il doppio postulato che regola il pensiero politico ordinario […] :
-‐ il postulato del primato assoluto dei problemi economici su tutti gli altri, -‐ il postulato della dovizia senza limiti delle risorse naturali”7.
Risulta da subito chiaro, fin dalle prime battute del Manifesto, con tono alquanto sferzante, come la crisi politica che stiamo attraversando sia sottolineata dalla mancanza di fiducia da parte del corpo elettorale. Questa drammatica separazione tra la vita democratica e la sua componente fondamentale, i cittadini, corre sullo stesso binario della riduzione del soggetto a un “io
minimo”8, arrivando a dissolvere ogni idea di spazio pubblico e ogni riferimento
a una temporalità condivisa9.
Netto e deciso è anche l’attacco ad un modello di soggetto che viva totalmente assorbito in dinamiche di mercato che lo controllano e che riducono lo sviluppo effettivo di tutte le ricchezze umane, ben lontane dall’identificarsi esclusivamente con la mera dovizia monetaria.
La questione che diventa rilevante è dunque la comprensione del nesso, se esistente, tra la riduzione del soggetto all’io minimo, iniziata, secondo alcuni pensatori, con l’avvento dell’età moderna e la nascita dell’economia di mercato, e l’attuale perdita di fiducia nelle tradizionali forme politiche partitiche. Questo individualismo malsano, con l’esaltazione patologica del singolo e dei suoi interessi prettamente privati, può essere una delle cause della crisi politica che stiamo attraversando?
Elaborato questo punto, ci si potrebbe interrogare sulle eventuali nuove forme di partecipazione politica da proporre ai soggetti, in modo da far rivivere loro quel sentimento di partecipazione alla vita collettiva che è stato motore nelle culle della nostra civiltà poli-‐tica.
Come possiamo ridare fiducia nella partecipazione politica, evitando dunque di assistere a quel processo che vede il soggetto, usando le parole di Castoriadis, “voltare le spalle agli interessi comuni, alle attività collettive e pubbliche […] richiudendosi in se stess[o] in una sorta di «mondo privato»10.
8 Cristopher Lasch, L’io minimo, Feltrinelli, Milano, 1996.
9 Questa stretta connessione fu oggetto di un dibattito tenuto in diretta televisiva tra Cornelius
Castoriadis e Cristopher Lasch, riportato poi nel breve testo che conosciamo col nome di “La
cultura dell’egoismo”, Elèuthera, Milano, 2014.
In altre parole, per usare un lessico più vicino ai pensatori fondatori del movimento convivialista, come possiamo stimolare i soggetti ad accettare dinamiche di inter-‐dipendenza, anche nell’ambito politico, che aiutino il soggetto a non isolarsi nel suo narcisismo?
1.2. UN ACCENNO SULLA GENESI FILOSOFICO-‐
POLITICA DEL CONVIVIALISMO.
All’interno delle due sezioni del Manifesto convivialista dedicate a considerazioni di ordine morale e politico11, non possiamo fare a meno di notare
alcuni chiari accenni di stampo kantiano; “[…]rifiutando di fare, nella propria vita, nel proprio lavoro o nelle proprie attività, in cambio di denaro ciò che la coscienza disapprova”12 pare un rimando più che tangibile al celeberrimo
imperativo categorico; ma è in principio della sezione politica che cogliamo un richiamo che cercheremo di analizzare con maggiore profondità: “è illusorio attendere nel prossimo futuro la costruzione di uno stato mondiale. L’organizzazione resterà dunque per un lungo periodo quella degli stati”13.
Nell’apertura di questo paragrafo ci pare evidente un richiamo al progetto
11 Manifesto convivialista. dichiarazione d’interdipendenza, cit., pp. 37-‐40. 12 Ivi, p. 37.
kantiano contenuto ne “Per la pace perpetua”. In questa opera leggiamo molti argomenti trattati anche nel Manifesto.
In primis, la questione dell’auspicabilità – tuttora chimerica – di tendere idealmente alla costituzione di uno stato cosmopolitico globale; questo appare ben diverso dalla concezione della polis dilatata a stato-‐nazione di stampo illuministico. Così facendo, il convivialismo si propone un modello universale di filosofia politica che non tollera alcun tipo di esclusione del singolo. In qualsiasi sede di deliberazione collettiva non può configurarsi nessuna situazione di ex-‐ clusione. In questa ottica, concordi con la lettura che propone del cum-‐vivio Roberto Finelli in un articolo14, troviamo affinità tra la teoria convivialista e il
kantismo della pace perpetua. Questa questione si può concretizzare concentrandoci sul lessico politico contemporaneo, analizzando l’uso che viene spesso fatto del pronome “noi”. Questo può essere usato in due distinte e contrapposte maniere: in un caso inclusivo, nel secondo totalmente esclusivo. Può determinare una comunità inclusiva, che condivida valori e usi; ma allo stesso modo può anche erigere confini che identifichino un nemico, che segnino una linea ben stabilita oltre la quale esiste qualcosa o qualcuno che è altro, chiunque sia, diverso, da noi. È qui che si gioca la partita, secondo il Professor Salvatore Veca: “se accettiamo l’argomento a favore della prospettiva universalistica – scrive – basato sull’importanza delle regioni, si può sostenere che il noi che si riconosce solo grazie e in virtù dei confini dati non è certo
14 Roberto Finelli, riflessioni sul convivio, Postfilosofie, #7, anno 2013-2014, caratterimobili, Bari, p.
irrazionale, ma è in qualche modo irragionevole”15. È l’imperativo kantiano che
rientra prepotentemente in gioco in questo passaggio: le ragioni attraversano i confini. Il “noi” connesso all’esclusione è strettamente collegato a logiche di guerra e conflitto: è per questa connessione che non può essere accettato dal progetto convivialista che si pone come obbiettivo quello di cercare una soluzione per gestire la competizione tra gli uomini in modo non ostile.
Snocciolate le caratteristiche del cosmopolitismo come società senza confini ed inclusiva, si apre una seconda sfida per la filosofia politica del convivialismo: la salvaguardia delle singolarità. Alcuni pensatori potrebbero tranquillamente obiettare a questo primo argomento con una pretesa di salvaguardia delle diversità e delle soggettività che caratterizzano gli esseri umani. L’accettazione e la condivisione di questi ideali di cum-‐vivenza non significano però un appiattimento del panorama totale soggettivo, se non al contrario stabilire un primato del nostro valore semplicemente in quanto esseri umani, come esistenti che condividono uno spazio di azione e, come tali, aventi pari opportunità e dignità. Spazio d’azione, appunto, risultato di operazioni costruttive congiunte di tutti gli esseri umani che contribuiscono a plasmarlo e ripensarlo. Questo attacco, e la conseguente salvaguardia dell’individualità, va evitato per non inciampare nella più classica delle critiche rivolte all’illuminismo, e a Kant sopra tutti, tacciato di essere troppo distante da situazioni antropologico-‐filosofiche concrete con pretese di universalizzazione. Questo progetto deve dunque muoversi su di un doppio asse: il primo, quello appena analizzato, è quello
orizzontale-‐inclusivo, grazie a cui a tutti i soggetti è garantito un fondo di comune appartenenza. Il secondo asse è quello verticale-‐esclusivo. Questo deve necessariamente tutelare tutti gli individui dal rischio di appiattimento su di un unico livello; deve rendere potenti gli uomini per rispondere prima alle tensioni del sé, rispetto a quelle degli altri individui. Questo secondo asse rappresenta la tutela dell’individualizzazione, la non rinuncia alle tensioni personali, a vocabolari, eccellenze, virtù e valori che sono per antonomasia diversi per qualsiasi individuo. Per l’unione di questi due assi, ci torna molto utile – dopo aver visto questi punti di forte comunanza con la filosofia kantiana – il processo di aufhebung hegeliano. La prospettiva cosmopolitica propria del convivialismo pretende di conservare le singolarità (nell’asse verticale) e le universalità (nell’asse orizzontale); questo è possibile superando il primo impatto di inconciliabilità tra le due dimensioni: l’una non esclude l’altra. Accettare, con la ragione kantiana, di trovare posto in questa visione del mondo, non significa trattarci come sé vuoti e in balia delle scelte poste dalla collettività; ma piuttosto ascoltare le nostre tensioni personali senza mai distogliere lo sguardo da uno sfondo composto dalla totalità degli esseri viventi che condividono sempre e comunque un ruolo attivo nella costruzione della storia nella quale esistono, a tal punto da potersi – meglio dire, doversi – riconoscere come parte attiva nel processo fondante di questa.
1.3. DEL RETROTERRA CULTURALE.
Ciò che emerge dunque dalla lettura del Manifesto e dalle analisi di diversi autori sopra questo, sono considerazioni di tipo filosofico-‐politico e antropologico che prendono le mosse da tre fondamentali punti:
-‐ la fine dell’indiscusso primato economico.
-‐ la natura comunitaria che caratterizza l’essere umano, con particolare attenzione a non svilire la dimensione individuale di ognuno.
-‐ la differenziazione rispetto alle principali filosofie politiche caratterizzanti il secolo passato – e le loro derivazioni -‐ : socialismo e liberismo, anarchismo e comunismo.
L’ultimo punto è quello che più ci spinge alla ricerca di una teoria, che possa prendere piede a livello culturale di massa, per poter affrontare con cognizione la crisi politico-‐economico e sistemica che stiamo attraversando in questo inizio di nuovo secolo16.
Nell’Europa del sud, e specificatamente in Italia e Spagna, la risposta alla crisi politica cui abbiamo accennato nella prima sezione ha generato la creazione di movimenti popolari che sono riusciti a raccogliere buoni consensi nella
16 Pensiamo in questo momento al carattere culturale che Benjamin rileva nel capitalismo,
all’interno della sua trasformazione a vera e propria religione. Un punto molto interessante da sviluppare, che per ragioni di spazio non possiamo far altro che accennare in questo primo capitolo, sarebbe la ricerca del veicolo ideale per un nuovo messaggio politico come quello convivialista, per raggiungere le masse. In prima istanza si pensi al ruolo che potrebbero avere gli intellettuali, sul cui compito molti pensatori si sono interrogati; pensiamo alla veste che potrebbe avere al giorno d’oggi una figura analogicamente paragonabile, con i dovuti accorgimenti per evitare accuse di anacronismo, al Sartre intellettuale engagé o al Gramsci teorico dell’intellettuale organico.
popolazione: Podemos in Spagna, e Movimento cinque stelle in Italia17.
Prendendo in considerazione per motivi di conoscenza personale e soffermandoci più in profondità sul linguaggio politico utilizzato dal movimento italiano, notiamo che gran parte dei punti dell’agenda politica di questo si compone delle stesse formule di partiti dai connotati più eversivi, come la Lega Nord, solo spostando il bersaglio rispetto a quest’ultima. Mentre i primi investono la classe politica della seconda repubblica italiana della maggior parte delle problematiche che attraversano il paese, i secondi fanno leva spudoratamente sui flussi migratori come capro espiatorio. Ciò che per la nostra analisi risulta fondamentale è tuttavia il linguaggio: l'uso del “noi” sempre con valenza esclusiva di cui abbiamo parlato nel secondo paragrafo. Il nocciolo del movimento è proprio la negazione: negli articoli 1 e 4 del “non-‐statuto” si legge: “il Movimento 5 stelle è una non-‐associazione. Non è un partito politico, né si intende che lo diventi in futuro”18; si soffermano poi, gli ideologi del movimento,
sulla battaglia per l’introduzione della preferenza negativa in seno alla legge elettorale: la negazione, la differenziazione tramite l’identificazione di caratteristiche peculiari che possano distinguere un “noi” da un “voi” da
17 Una delle maggiori differenze tra i due nuovi protagonisti della scena politica italiana e spagnola è
sicuramente la forte differenza che caratterizza le due classi dirigenti di questi: nel caso di Podemos è stato un professore universitario a fondare il partito; nel caso del movimento italiano – che già dalla scelta di non avvalersi della parola partito per identificarsi, insisteva fin dall’inizio sulla propria distanza dai classici protagonisti della scena politica europea del XX secolo – le redini sono state lasciate in mano a personaggi dalla discutibile levatura intellettuale, posti ad interagire con la popolazione, sotto la supervisione di ideologici dai caratteri demiurgici.
rifiutare in toto, appare come la principale caratteristica dello stile comunicativo del Movimento.
Risulta da queste considerazioni evidente come, perlomeno in Italia, nessuna nuova formazione politica sia riuscita nell’intento di un superamento vero e proprio nel campo del linguaggio utilizzato. Gli altri due punti segnalati in apertura del paragrafo – primato economico e differenziazione dalle principale filosofie politiche del XX secolo – sono strettamente collegati tra loro. Questa connessione si evince chiaramente dall’ultimo libro di Maurizio Pallante, fondatore del movimento per la “descrescita felice” in Italia, che analizza come la sinistra italiana non abbia mai messo in dubbio la ricerca del “progresso” e di “crescita economica”. Il libro di cui stiamo parlando, di certo non può essere enigmatico, né come stile di scrittura, né tantomeno come veicolazione del messaggio. Pallante apre così: “anche le persone meno interessate alla politica si sono rese conto che nei paesi democratici le differenze tra i partiti più rappresentativi della destra e della sinistra si sono progressivamente attenuate fino a scomparire quasi del tutto.[…]i partiti di sinistra si sono spostati, passo dopo passo, verso destra”19. Ovviamente il fondatore del movimento per la
decrescita felice non potrà che focalizzare tutto il suo volume sulla questione economica, con una idea ben precisa delle soluzioni che andrebbero adottate per navigare in acque serene verso un futuro possibile. Non solo, dunque, sorge la necessità di un ripensamento, o meglio dire superamento, delle più famose
19 Maurizio Pallante, Destra e sinistra addio, Lindau, Torino, 2016, p. 7.
teorie di filosofia politica, ma Pallante ritrova addirittura uno slittamento verso le teorie liberali delle applicazioni pratiche di tradizione socialista.
Agli occhi di chi scrive, appare pressante cercare delle alternative che rendano implementabili i canoni della “buona politica convivialista” di inclusione ed elevazione del singolo allo stesso momento, partendo dalla messa in discussione del primato economico, responsabile principe della chiusura del singolo in un narcisismo malsano.
Come già sottolineato, uno dei principali precursori a livello teorico della teoria convivialista è senza dubbio Marcel Mauss. In chiusura del già citato saggio sul dono, Mauss identifica la gestione della violenza come il segreto da ricercare per permettere agli individui di “contrapporsi senza massacrarsi”. Sono le analisi svolte su questo punto da Alain Caillè ad avere estrema importanza per il nostro lavoro; nella sua disanima ne “il terzo paradigma”, egli snocciola alcune delle modalità più comuni di gestione della violenza. La prima consiste nella tecnica della proiezione: si individua un capro espiatorio al quale addossare le tensioni per permettere ai membri di una data comunità di scampare al massacro reciproco. Appare evidente come questa strategia sia la più adoperata, come già denunciato poco fa, dai protagonisti della scena politica attuale. Vi è una analogia terrificante in questa modalità di operare: l’identificazione del nemico per creare armonia in seno ai membri di una data comunità è esattamente il meccanismo social-‐psicologico che utilizzarono i grandi totalitarismi del XX secolo. A livello filosofico-‐politico, questa operazione porta ad una dialettica unicamente esclusiva; così facendo, in ottica convivialista, non si presta attenzione alla salvaguardia del doppio movimento orizzontale e verticale che
costituirebbero le basi irrinunciabili per la conservazione dell’unicità singolare affiancata al movimento orizzontale dell’inclusività universale.
Questo processo di ricerca inaugurato dal Manifesto prende le mosse anche da un celebre documento datato 1972 e conosciuto col nome di “Rapporto sui limiti dello sviluppo”. Redatto su commissione del club di Roma in collaborazione col MIT del Massachusets, questo documento prendeva in esame diversi scenari ipotetici conseguenti alla continua crescita – principalmente demografica – sul nostro pianeta. Vi seguì una sconfinata letteratura di commento. L’idea alla base dei tredici scenari tracciati all’interno del rapporto era semplice: la crescita illimitata – economica oltre che demografica – avrebbe condotto l’umanità al collasso sociale. Le tesi di fondo, possono essere definite malthusiane a una prima lettura. Riferendoci a questo, per collegarci alle prime pagine scritte, è interessante sciorinare il pensiero di Giovanni Sartori, in collaborazione con Gianni Mazzoleni, esposto in uno specifico capitolo del loro volume “la terra scoppia”. Questa raccolta di saggi, edita nel 2003, in commento al rapporto del club di Roma, affronta numerosi degli scenari ipotizzati dal MIT. Alcuni di questi vengono presi in considerazione con soluzione diametralmente opposte -‐ crediamo di poterlo affermare con cognizione di causa – alle linee guida di un pensiero ecologico convivialista20. Vi è un particolare saggio nell’opera, il cui
finale risulta esplicativo in maniera fintanto provocatoria: “ai tempi di Malthus la popolazione raggiunse il miliardo di anime (1804) e in poco meno di due secoli si è sestuplicata. Può darsi che adesso Malthus se la rida di lassù: ha fatto
20 Pensiamo in questo momento alla battaglia che il Professor Sartori combattè principalmente dalle
colonne del Corriere della Sera a favore dei cibi transgenici come unica soluzione percorribile per affrontare il problema della fame nel terzo mondo.
qualche errore ma ci ha avvertito con due secoli di anticipo.”21 Quel che si evince
dal saggio, e che risulta essere in linea con la nostra introduzione alla lettura del Manifesto convivialista, è la visione in chiave di filosofia della storia che danno gli autori riguardo il rapporto del MIT. Rileggendo gli scenari ipotetici del Rapporto in chiave malthusiana, il rifiuto dell’uniderezionalità del progresso storico risulta fondamentale. Malthus venne cresciuto dal padre in un contesto fortemente segnato dalla fiducia nella linearità storica derivante dal pensiero illuminista e seguente alla rivoluzione francese. La popolazione era tendenzialmente in crescita, seppur non coi tassi del XIX secolo, e le derrate alimentari iniziavano a scarseggiare: da questa contingenza storica prende le mosse il lavoro con cui verrà poi ricordato e stigmatizzato il pensiero del demografo inglese: il “saggio sul principio di popolazione”. In questo saggio Malthus cercò una soluzione per porre freno alla incontrollata crescita demografica. Da uomo di chiesa rifiutò come soluzioni percorribili il freno morale e i vizi, concludendo che sarebbe stata la miseria a pensare al contenimento della popolazione. Questo perché l’aumento demografico, dopo osservazioni nel nuovo mondo condotte in prima persona, procede con progressione geometrica, mentre quello alimentare solamente aritmetica. Da questo atteggiamento Robert Malthus rifiutò i dettami della ragione che avevano guidato il padre, amico intimo di Russeau e estimatore di Concorcet, ad avere fiducia cieca nell’idea di progresso lineare.
21 Giovanni Sartori, Gianni Mazzoleni, La terra scoppia. sovrappopolazione e sviluppo, Rizzoli
editore, Milano, 2003, P. 108
Ma torniamo al rapporto del MIT, dopo averne dato una lettura in chiave malthusiana. Nel rapporto, tramite modelli computerizzati, i ricercatori hanno simulato curve di funzione, modellate sui dati fino al 1970, riguardanti l’aumento della popolazione, l’inquinamento, industrializzazione, cibo e uso di risorse. Partendo da queste simulazioni computerizzate hanno tracciato diversi scenari plausibili, il più interessante ed attuale dei quali – dati alla mano -‐ risulta essere quello denominato “business-‐as-‐usual”. La discriminante fondamentale di questo sfondo fu la completa assenza di interventi volti a limitare l’aumento della popolazione e, conseguentemente ed automaticamente, tutti gli altri soggetti della funzione. Incrociando i dati tracciati dal MIT con dati odierni raccolti dall’ONU, la simulazione è strabiliante: le curve odierne si scostano di pochissimi punti percentuali rispetto alle simulazioni del MIT22.
22 Ci riferiamo ad una ricerca svolta da un team guidata dal Dottor Graham Turner, fondatore del GFC
Econimics di Londra, e ricercatore presso il Melbourne Sustainable Society Institute, in collaborazione con l’università di Melbourne.
Nello scenario tracciato dal MIT è l’assenza di risorse a portare al collasso; in chiusura del rapporto troviamo un monito tutt’altro che aperto a libera interpretazione: “Se le attuali tendenze di crescita di popolazione mondiale, industrializzazione, inquinamento, produzione di cibo ed esaurimento delle risorse continuasse immutata, i limiti della crescita su questo pianeta verrebbero raggiunti ad un certo punto entro i prossimi 100 anni. Il risultato più probabile sarebbe un declino piuttosto improvviso e incontrollabile sia della popolazione sia della capacità industriale”.23
L’assunto principale risulta essere dunque la finitezza del pianeta terra. Questo non rende dunque possibile una crescita infinita, sia dal punto di vista demografico, che economico-‐industriale.
In una recente intervista a Dennis Meadows24 – uno dei coordinatori del team
del MIT che stilarono il rapporto – risulta però evidente un punto che continua a non essere preso in considerazione, nemmeno dalle insufficienti e palliative politiche contemporanee, e che risulta fondamentale per il lavoro che ci proponiamo di svolgere in questa sede. È in un passaggio dell’intervista che il Professore dichiara apertamente: “Lavoriamo per rendere più efficiente l'utilizzo d’energia, isolando meglio le case, rendendo i motori più efficienti e tutto il resto. Lavoriamo solo sugli aspetti tecnici ma trascuriamo del tutto il
23 Thomas Robert Malthus, saggio sul principio di popolazione, Einaudi, Torino, 1977, p. 64. 24 Intervista rilasciata da Dennis Meadows a Rainer Himmelfreundpointer è pubblicata in lingua italiana dalla rivista Format il 6 marzo 2013. Risulta invece disponibile in lingua originale al link: https://damnthematrix.wordpress.com/2013/03/31/there-is-nothing-we-can-do-meadows/
fattore relativo alla popolazione e crediamo che il nostro standard di vita migliorerà o almeno rimarrà invariato. Ignoriamo la popolazione e gli elementi sociali dell'equazione, e ci focalizziamo totalmente sulla soluzione degli aspetti tecnici del problema”. È seguendo questa linea di ragionamento che proveremo, nel secondo capitolo dell’elaborato, a ricercare quali che siano i precursori teorici del movimento culturale sfociato, ad oggi, nella redazione del Manifesto convivialista; proveremo a dare particolare rilevanza anche a categorie che nel rapporto commissionato dal club di Roma non venivano calcolati. Lo faremo provando ad indagare su pensatori universalmente riconosciuti come teorici riconducibili ai capisaldi strutturali del convivialismo – pensiamo qui ai già citati Mauss, Caillè e Illich – ma non trascurando nuove vie di lettura di altri celebri pensatori che a nostro avviso possono averne influenzato l’evoluzione come Jean-‐Paul Sartre e Walter Benjamin.
2. PRECURSORI ED ISPIRATORI DELLA TEORIA
CONVIVIALISTA.
2.1. WALTER BENJAMIN E “IL CAPITALISMO COME
RELIGIONE”.
Partendo in medias res, chi scrive ammette immediatamente di essere stato profondamente colpito dallo scritto di Walter Benjamin. Queste poche pagine, datate secondo gli studiosi del pensatore tedesco 1921, sono tanto enigmatiche quanto pregne di attualità e incisività. Alcune ipotesi riguardo questo breve testo sostengono fosse inserito in un progetto ben più ambizioso nella testa di Benjamin, come un volume da dedicare alla formulazione di una sua personale filosofia politica.
L’esposizione della problematica si apre con una affermazione chiarificatrice da parte di Benjamin: “nel capitalismo si deve vedere una religione, vale a dire che il capitalismo serve essenzialmente all'appagamento di quelle stesse preoccupazioni, di quelle pene ed inquietudini a cui un tempo davano riposta le cosiddette religioni”25; in questo modo si prendono immediatamente le distanze da un’altra interpretazione del capitalismo – quella weberiana – che lo legge invece in chiave di una secolarizzazione della morale religiosa cristiana, più esattamente calvinista. Al contrario Benjamin sostiene che il movimento
prodotto dalle dinamiche capitaliste abbia delle connotazioni religiose intrinseche. Questa tesi si sviluppa su quattro linee fondamentali, collegate tra loro a coppie. Molte analisi di questo testo si soffermano principalmente sui primi due punti dell’analisi: il carattere essenzialmente culturale del capitalismo come fenomeno religioso e la totale assenza di termine nel calendario delle celebrazioni del circolo praticante. Contrariamente a qualsiasi altro “credo”, quello capitalistico non ammette dubbi; l’autoreferenzialità della pratica del capitalismo -‐ nutrita della sua triade accumulazione, speculazione e sfruttamento – si esaurisce senza rimandare a nient’altro che ai suoi circuiti prefigurati. La sua anima culturale fa in modo che chiunque ne sia coinvolto, senza potersi porre domande, resti impotente anche nel caso in cui volesse staccarsene. Non serve alcun atto di fede, non è necessario alcun dono come da tradizione cristiana per entrare a far parte della comunità capitalista: con il solo atto della nascita si è già iniziati, senza apparente via di uscita, a questa confessione. “Non esiste possibilità di sottrazione individuale a questa potentissima religione che ammanta tutti gli affari umani. Ogni atto di liberazione individuale è un atto di disperazione isolato, che non scalfisce la triste sorte dell'umanità indebitata e soggetta al suo stesso culto”.26
Per questi motivi agli occhi di Benjamin, dunque, il capitalismo si configura come una religione culturale e, vogliamo aggiungere noi, risultato di una società che non presenta tuttora, a quasi un secolo di distanza, alternative concretamente percorribili. Altro aspetto fondamentale, come accennato poco sopra, per caratterizzare il capitalismo come religione culturale totale è
l’assenza di termine: contrariamente alle altre religioni non esiste un calendario che separi nettamente la sfera laica da quella religiosa. Una volta entrati nelle sue dinamiche, questa religione senza scelta esige tutti i momenti dell’esistenza dell’individuo, senza concedergli un istante senza la sua ingombrante presenza. Oltre a queste caratteristiche analizzate da Benjamin, ve ne sono altre due che risultano fondamentali per la comprensione del ragionamento presente nello scritto; oltre all’importanza per la creazione del ragionamento benjaminiano, questi punti potrebbero rappresentare, a parere di chi scrive, una via di uscita da quello scacco in cui il soggetto sembra essere posto dalla cieca religiosità con cui il capitalismo si impone: la mancanza di redenzione e l’impossibilità di incontro con la divinità stessa. Il secondo punto è conseguenza logica del primo: non essendoci possibilità di redenzione, non esistono le condizioni tali per cui si dia l’incontro con la divinità stessa. Ma ci preme soffermarci maggiormente sulla prima considerazione benjaminiana, per la quale il pensatore di Berlino
introduce una categoria, “Schuld”, che in lingua tedesca significa contemporaneamente sia colpa che debito. I seguaci di questa religione, tutti noi, sono quindi chiamati a rispondere delle proprie colpe, ma non nel giorno del giudizio universale, bensì nella continuità del tempo storico vissuto dal soggetto. Ne “il debito del vivente”, l’autrice Elettra Stimilla affianca alla lettura di Benjamin quella di Bataille e Weber. Da questa disamina la categoria di schuld emerge centrale, tanto da arrivare a pensare all’essere umano come essere-‐in-‐
debito: unico essere che nasce con un debito già pregresso, trascinandolo per tutta la vita senza la possibilità di redimersi.27
L’analogia che appare più interessante, a parere di chi scrive, sopra la categoria di debito, risulta essere quella tra lo scritto di Benjamin e l’essenzialità di cui viene investita la stessa nell’opera di Marcel Mauss: saggio sul dono. In prima istanza ci colpisce per la totale opposizione dei fenomeni antropologico-‐ economici trattati: il primo è uno scritto enigmatico di denuncia contro le dinamiche capitaliste de-‐soggettivizzanti; l’altro un’analisi delle forme di economia e scambio delle società antiche, basate principalmente sul dono e sulla creazione di rapporti inter-‐personali, passato alla storia come uno dei testi fondanti l’antropologia filosofica collettivista. Come può coesistere la stessa categoria all’interno di due processi così radicalmente opposti?
Per sintetizzare il movimento che sta alla base delle economie analizzate dall’antropologo francese, senza pretese di esaustività, ci basta introdurre la triade fondante teorizzata nel saggio: donare, accettare, contraccambiare; venendo a mancare anche uno solo di questi tre momenti costituenti, la dinamica economica basata sul dono cessa di esistere. Ogni qual volta un soggetto inizi una transazione – utilizziamo questo termine proprio del capitalismo finanziario post-‐moderno a proposito, per sottolineare quanto nell’ottica di Mauss la forma dello scambio costituisca una reale alternativa ai modelli economici vigenti, che paiono essere insuperabili ed insostituibili – crea
27 nel capitolo della tesi di laurea magistrale di Eleonora di Majo, citato in bibliografia, si
esamina chiaramente come in Benjamin questa concezione del debito si voglia rifare alla condizione subalterna di indebitamento tipica della relazione soggetto-‐divinità presente nel cristianesimo, ma cerchi di slegarsi da letture ontologiche per dare a questa categoria pregnanza anche sociale, morale ed economica.
un disequilibrio causato da una situazione di debito. Una prima concreta differenza tra lo scambio mercantile, che sia esso contraddistinto dalla forma del baratto o da quella del pagamento in denaro, e la forma del dono sta nella proprietà che ne deriva sul bene acquistato o scambiato: la situazione di debito è estinta creando un equilibrio fra domanda e offerta. Nel donare, invece, vi è una componente che induce all’indebitamento che deve essere superata nel terzo momento della triade maussiana, generando dunque una nuova situazione di disequilibrio: il ricambiare. Una seconda enorme differenza fra i due modelli che stiamo comparando è la questione del tempo. Nel caso degli scambi dentro l’economia di mercato, viene pattuito tra i due soggetti il corrispettivo della merce ceduta e anche le tempistiche di saldo del debito contratto dall’acquirente; nel caso del dono il tempo risulta essere una questione non calcolabile a priori.
Cosa ci spinge a leggere in questa disamina una possibile via di uscita dalla megamacchina capitalista, dalla cui morsa – agli occhi di Benjamin come di altri studiosi -‐ il soggetto potrebbe non riuscire a divincolarsi? Molti modelli economici alternativi prendono le mosse da questa lettura di Mauss, a volte senza rendersene conto. Economia della gratitudine, economia della felicità, economia comunitaria; sono solo alcuni esempi di formulazioni differenti di tentativi di superamento del modello capitalista. Che necessitino solamente di ottenere quella dimensione culturale che ha fatto la fortuna della dottrina mercantilista?
Analizziamo ora un’ulteriore sostanziale differenza tra i due modelli di scambio, fondamentale per tutta l’evoluzione del pensiero che prende le mosse dal