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Breve storia di una lunga controversia

Nel 2012 l’Accademia della Crusca organizzò un incontro intor-no a una questione che, nei mesi precedenti, aveva suscitato un dibattito acceso, non solo all’interno dell’università, ma anche tra linguisti e personalità del mondo culturale; un dibattito che ave-va avuto notevole risonanza sulle pagine dei giornali. Si trattaave-va della decisione, annunciata dal Rettore del Politecnico di Milano, Giovanni Azzone, di avviare a partire dall’anno 2014 tutti i corsi specialistici e dottorali esclusivamente in inglese, per favorire, in quell’Ateneo, il processo di internazionalizzazione già avviato da alcuni anni. All’Accademia sembrò opportuno aprire la propria sede a una riflessione più ampia, articolata e approfondita, nel-la convinzione che nel-la questione avesse delle implicazioni e del-le possibili ricadute di carattere generadel-le (giuridiche, politiche, culturali e sociali), destinate a incidere in modo significativo sul futuro della lingua italiana. Nello stesso anno, con l’editore La-terza, pubblicammo quindi un libro, che allargava notevolmente il ventaglio dei pareri rispetto a quelli dell’incontro di Crusca1.

1 N. MARAsChIO - d. dEMARTINO (a cura di), Fuori l’italiano dall’università?

Oltre novanta personalità (ricercatori, docenti, accademici della Crusca, dei Lincei e dell’Accademia delle scienze detta dei xL, scienziati e umanisti, scrittori italiani e stranieri) si espressero in quel libro, in base alla loro diversa competenza e sensibilità, of-frendo una ricchezza veramente notevole di punti di vista e opi-nioni. Il risultato complessivo rispose in pieno alle nostre aspet-tative. L’intenzione dell’incontro e del libro era infatti quella di scongiurare il rischio incombente che, su un tema tanto delicato e in un momento storicamente tanto significativo della nostra lingua, si determinasse una contrapposizione netta, quasi mani-chea, tra fautori dell’anglicizzazione e «difensori» dell’italiano, presentandosi i primi come capaci di guardare al futuro, descritti i secondi come arroccati su posizione identitarie di conservazio-ne del passato.

Basta scorrere quel libro per rendersi conto della ragione-volezza e dell’equilibrio delle argomentazioni svolte da tutti i partecipanti. La grande maggioranza degli autori si pronunciò decisamente contro l’esclusività dell’inglese in interi corsi uni-versitari e per il doppio canale, ossia per un’offerta formativa bilingue, in italiano e in inglese, la lingua di cui oggi un mondo

«strettamente interconnesso» riconosce la necessità e l’utilità come strumento veicolare globale, e non solo in ambito scien-tifico2. Del resto si trattava di una soluzione già largamente praticata dalle nostre università che pareva in grado di garan-tire a docenti e studenti italiani e stranieri una scelta di libertà.

Per quanto riguarda l’ambito scientifico mi pare piena-mente condivisibile un passo del Documento conclusivo, ap-provato dai linguisti e dagli scienziati riuniti qualche anno prima in Crusca per un convegno internazionale Lingua ita-liana e scienze3:

[i partecipanti al convegno] riconoscono congiuntamente ai colle-ghi di altre realtà europee, che tutti i settori della ricerca scientifica

Inglese, internazionalizzazione, politica linguistica, Roma-Bari, Laterza, 2012.

2 Vedi M.L. vILLA, qui.

3 A. NEsI - d. dE MARTINO (a cura di), Lingua italiana e scienze, Accademia della Crusca, Firenze, 2012.

© Edizioni Angelo Guerini e Associati

si avvantaggiano della piena funzionalità della lingua nazionale, il cui uso appropriato, affiancato ovviamente da una lingua interna-zionale, per i livelli di comunicazione in cui questo è necessario, è essenziale nella formazione delle nuove generazioni di ricercatori e per l’affermazione del valore della cultura scientifica nella società.

Parimenti riconoscono che privare la lingua nazionale degli stimoli che imprimono settori culturali di punta ne compromette il valore anche in campo internazionale.

Non intendo ripercorrere qui le vicende che seguirono quella decisione presa dal Politecnico nel 2012, né i giudizi che ne sono stati dati dal TAR Lombardia e dal Consiglio di Stato, altri l’hanno fatto in questo libro. Desidero invece rilevare che l’ul-timo atto della annosa vicenda, la recente sentenza della Corte Costituzionale, affermando in modo esplicito la «centralità co-stituzionalmente necessaria della lingua italiana» e la sua «uf-ficialità» ha un grande significato che supera il caso specifico del Politecnico milanese e può contribuire a una svolta nella politica linguistica del nostro paese. Come è stato osservato

«per la prima volta la Corte non solo radica con chiarezza nel-la Costituzione» il principio dell’ufficialità dell’italiano, ma lo sfronda «da ogni anacronistica venatura nazionalistica, per ri-condurne il significato e gli effetti concreti alle sfide che oggi la lingua italiana (come ogni altra lingua nazionale) si trova ad affrontare in un mondo nel quale l’onda lunga della globaliz-zazione investe direttamente anche il principale strumento di comunicazione sociale, ossia la lingua»4.

Colpisce l’equilibrio della sentenza che sulla base di alcuni articoli della Carta (articoli 3, 9, 33 e 34), da una parte, esclu-de che le legittime finalità esclu-dell’internazionalizzazione possano emarginare la lingua italiana e ledere i diritti di docenti e stu-denti italiani, dall’altra, afferma che «il rafforzamento dell’in-ternazionalizzazione degli atenei possa avvenire anche attra-verso l’attivazione […] di insegnamenti, di corsi di studio e forme di selezione svolti in lingua straniera». Un equilibrio

4 P. CARETTI, A margine della sentenza della Corte Costituzionale n. 42/2017, qui.

confermato dal brano conclusivo: «Va da sé che, perché questa facoltà [attivazione di insegnamenti in lingua non italiana] of-ferta dal legislatore non diventi elusiva dei principi costituzio-nali, gli atenei debbano farvi ricorso secondo ragionevolezza, proporzionalità e adeguatezza così da garantire pur sempre una complessiva offerta formativa che sia rispettosa del primato della lingua italiana, così come del principio d’eguaglianza, del diritto all’istruzione e della libertà d’insegnamento». Ed è noto che i termini ragionevolezza, proporzionalità, adeguatezza non sono termini generici (qualcuno li ha interpretati come spie del carattere compromissorio, addirittura «pilatesco» della sen-tenza), ma rappresentano criteri di giudizio tipici dei giudici costituzionali, indispensabili per offrire flessibilità a decisioni che non si prestano ad essere adottate in modo rigido e sche-matico.