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Lingua e cittadinanza

Una politica linguistica costituzionalmente fondata è partico-larmente urgente – è appena il caso di dirlo – per il mondo della scuola e dell’università, dal momento che «il vero ‘nucleo duro’ dell’ufficialità risiede proprio nella preminenza dell’ita-liano nell’insegnamento pubblico di ogni ordine e grado, com-preso quello universitario»19, perché è nella scuola e nell’uni-versità che «si fanno» i cittadini.

L’essenzialità del legame fra lingua e cittadinanza – al pari di quello fra lingua e persona – si comprende immediatamen-te, d’altra parimmediatamen-te, se solo si considera che la lingua è presuppo-sto necessario per il pieno e consapevole esercizio dei diritti connessi allo status di cittadino e, nel contempo, strumento di diffusione del patrimonio di cultura, conoscenza e sapere ela-borato dai centri di formazione e ricerca, specie universitari20.

Non solo. Per chi insegna consapevolmente e responsabil-mente, la didattica, specie quella universitaria, non è mero tra-sferimento di un sapere codificato e predefinito ma «esige la li-bertà anche del ricorso alle risorse metaforiche e attive di un idio-ma, alle risorse linguistiche alimentate dalla pratica di una lingua usata in ogni circostanza della vita»21, ovvero della lingua madre o di altra conosciuta (assieme al substrato storico e culturale di cui è espressione) almeno allo stesso livello. Diversamente, ri-sulterebbe penalizzata anche la qualità dell’insegnamento, ne-cessaria a realizzare l’obiettivo, posto dal primo comma dell’art.

19 Così, P. CARETTI - A. CARdONE, «Ufficialità della lingua italiana e insegna-mento universitario, in Giur. Cost., p. 1228.

20 Sul punto, v. COLETTI, Se la comunità non capisce la lezione, in N. MARAsChIO

- d. dE MARTINO (a cura di), Fuori l’italiano dall’università, Laterza, Bari-Roma, 2012, 2.

21 BECCARIA, «Lingua madre», in g.L. BECCARIA - A. gRAzIOsI, Lingua madre.

Italiano e inglese nel mondo globale, Bologna, 2015, p. 107.

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9 della Costituzione, della promozione dello sviluppo della cul-tura e della ricerca scientifica e tecnica, che, com’è ovvio, non consente discriminazioni di carattere linguistico.

Il punto è, infatti, che la lingua è, insieme, forma e sostan-za del pensiero e, dunque, dell’insegnamento e dell’apprendi-mento. Linguistica e neuroscienze hanno da tempo dimostra-to che, per contribuire attivamente allo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica, occorre non solo parlare (adeguatamente) ma anche pensare in una certa lingua, sicché

«se una nazione smette di pensare alcune parti essenziali del sapere nella propria lingua, impoverisce la propria cultura e probabilmente anche la propria capacità di contribuire, come comunità se non (anche) come singoli, a quel sapere»22.

Certo, determinate materie si prestano ad essere insegnate e studiate anche in una lingua diversa da quella nazionale ma altro è affiancare una lingua straniera all’italiano, altro e del tutto diverso è selezionarne una per tutte e addirittura elimi-nare completamente l’offerta formativa nella lingua nazionale.

Con il che, se l’obiettivo principale dell’internazionalizza-zione è promuovere l’integradell’internazionalizza-zione delle culture e favorire il progresso scientifico, non si comprende come questa possa risolversi in senso monodirezionale, scegliendone una e chiu-dendosi alle altre, impedendo anche agli studenti stranieri di avvalersi della lingua italiana e dei valori di cui essa è portatri-ce per la propria formazione universitaria e finendo per porsi in contrasto con il nucleo essenziale del concetto di integrazio-ne culturale, in base al quale non è sufficiente che gli Ateintegrazio-nei siano univocamente resi permeabili alle esperienze e ai flussi di conoscenza provenienti dall’estero ma è necessario che tale flusso sia bidirezionale, cioè in grado anche di esportare e far conoscere all’estero la cultura del nostro Paese.

Viene così in rilievo anche il secondo comma dell’art. 9 Cost., dal momento che una lingua non può essere ridotta alla sua dimensione funzionale: essa riflette, nella sua interezza e soprattutto nella sua specificità e tipicità, la tradizione, la

civil-22 COLETTI, Se la comunità non capisce la lezione, cit., p. 3.

tà, l’identità di un popolo, così come si è venuta formando nel tempo e nello spazio.

In questa prospettiva, la scelta dell’inglese come lingua (esclusiva o prevalente) di insegnamento costituisce un grave passo verso la fine della nostra lingua come lingua di cultu-ra, mediante la quale prende forma e sostanza la personalità dell’individuo, sia come singolo sia come appartenente a una determinata comunità e senza la cui tutela23 a nulla varrebbe la proclamazione di molti dei diritti e delle libertà costituzionali.

È a questa specifica cultura, a questa tipicità storica, a questa ricchezza di identità e sapere che guardano gli studiosi e gli studenti stranieri attratti in numero sempre crescente dalle nostre università e dal nostro originale e prezioso patrimonio culturale: tutte questioni eluse dai sostenitori dell’«esclusività»

dell’insegnamento in inglese, abbagliati da due soli argomenti:

1) l’università si deve aprire a studenti stranieri;

2) questa scelta favorirà l’inserimento professionale dei nostri studenti nel mercato internazionale.

Quanto al primo, i dati dimostrano che questa apertura è da tempo un dato di fatto. Può essere, certamente, ancora ampliata ma questo non può e non deve implicare la (totale) chiusura verso coloro che non intendono avvalersi della sola lingua ingle-se nei percorsi formativi, ivi compresi gli studenti stranieri più consapevoli, che scelgono ogni anno le nostre università perché interessati (anche) alla nostra cultura e alla nostra lingua.

Quanto al secondo, è chiaro che il successo dei nostri laure-ati all’estero dipende, prima che dalla loro conoscenza o non conoscenza dell’inglese, dalla qualità della loro formazione (come ingegneri, architetti, fisici, scienziati, ecc.).

Peraltro, l’estremizzazione di tali argomenti conduce

fa-23 V.L. LOMBARdI vALLAuRI, Il meritevole di tutela, Giuffrè, Milano, 1990 e, tra i tanti ivi contenuti, il saggio di E. LOMBARdI vALLAuRI, «La tutela delle lingue», p.

385 ss., oltre all’introduzione del curatore, Abitare pleromaticamente la terra, con la struggente poesia iniziale di P. RAINA.

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cilmente a esiti paradossali: non si comprende infatti, specie quando si tratti di un’università pubblica, come tale finanziata prevalentemente dalla fiscalità generale, la priorità assegnata all’interesse dei «presunti» anglofoni – in particolare, stranie-ri – stranie-rispetto a quello degli studenti (italiani o straniestranie-ri) che anglofoni non siano o non vogliano essere; né, tantomeno, si comprende – se è vero che la crescita economica di un Paese, come spiegano continuamente gli studiosi che si occupano di

«capitale umano», dipende anche dal numero dei suoi inge-gneri e laureati in materie scientifiche – perché, programmati-camente, ci si proponga di formare scienziati e studiosi per il mercato estero, con ciò, da un lato, favorendo quella fuga di cervelli, che, quantomeno a parole, tutti vorrebbero interrom-pere se non invertire e, dall’altro, pretermettendo la formazio-ne dei professionisti e della classe dirigente utili allo sviluppo del Paese e in grado di comunicare con esso, restituendo alla comunità quanto da essa ricevuto.