C’è un passaggio della sentenza della Corte, già rilevato da altri in questo libro, nel quale si fa preciso riferimento ad alcune significative novità che caratterizzano il presente, dal-la progressiva integrazione sovranazionale degli ordinamenti, all’erosione dei confini nazionali determinati dalla globaliz-zazione, al plurilinguismo/multilinguismo della società con-temporanea. Le questioni linguistiche assumono in un conte-sto come l’attuale, molto stratificato, complesso e in rapido movimento, un’importanza straordinaria perché non solo riflettono i cambiamenti in corso, ma possono essere assun-te come utili reagenti per far emergere percezioni diverse di fenomeni uguali o simili, a cominciare dall’idea stessa di lin-gua. In molti degli interventi pubblicati nel libro di Crusca del 2012 sopra citato si insiste opportunamente sul nesso lin-gua/pensiero e su quello altrettanto imprescindibile lingua/
cultura: entrambi, mi pare evidente, dovrebbero essere alla base dell’alta formazione universitaria. E il tema è ripreso
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frequentemente anche in questo libro. Quando si parla di lin-gua e cultura necessariamente ci si riferisce a uno specifico contesto storico, quello in cui quella lingua si è formata, si è diffusa ed è mutata nel corso del tempo. E certo non solo una lingua in astratto, ma una lingua in concreto, vista attraverso le persone, cioè attraverso l’uso dei suoi parlanti e dei suoi scriventi.
L’Italia linguistica ha vissuto nel corso del Novecento una vera e propria rivoluzione. Sono dati ben noti, ma che con-viene ricordare qui con Tullio De Mauro:
un popolo di senza scuola (il 58% degli adulti negli anni Cin-quanta era privo anche della sola licenza elementare) ha qua-druplicato i suoi livelli di istruzione […], un popolo per cui l’uso abituale della lingua nazionale era ristretto a percentuali non superiori al 18% e i molti dialetti erano l’unico strumento di comunicazione parlata si è conquistato al 95% il diritto di parlare la lingua nazionale, pur serbando accanto ad essa per il 60% la capacità d’usare uno dei dialetti. Nessun paese europeo e del nord del mondo ha compiuto così rapidamente un cammi-no altrettanto lungo.
Ma il processo di unificazione linguistica, cioè la massima convergenza verso una stessa lingua, non è avvenuto né in modo lineare né omogeneo. Le diseguaglianze sono forti e stanno aumentando: «nel parlare e nello scrivere e nel com-prendere è ancora privilegio di pochi il possesso degli stru-menti di cultura necessari a mettere pienamente a frutto le ric-che e complesse risorse del patrimonio linguistico comune»5. E non si può non rilevare in questo quadro di luci e ombre un altro tassello negativo. Occorre ricordare, infatti, che la conoscenza delle lingue straniere, compreso l’inglese, è parti-colarmente carente nel nostro paese, nonostante le circa 1000 ore di inglese che un ragazzo segue dalla secondaria di primo grado alla quinta superiore, come osservava nel 2012, nel suo
5 T. dE MAuRO (a cura di), Primo tesoro della Letteratura italiana del Novecento,
uTET, Torino, 2007.
intervento in Crusca, Elena Ugolini (allora Sottosegretario di Stato del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca)6. Rita Librandi (presidente dell’AsLI, Associazione per la Storia Lingua Italiana), da parte sua, rilevava in quella stessa occasione, che per insegnare italiano nella secondaria di primo grado era sufficiente che il docente avesse consegui-to nell’università solo 6 crediti in Linguistica italiana7. Ed è emblematico che nel recente concorso (maggio 2016) per le cattedre di materie letterarie (quindi anche di lingua italiana) nelle scuole secondarie di primo e secondo grado mancassero del tutto quesiti di tipo linguistico.
Esiste un rapporto strettissimo tra conoscenza della pro-pria lingua materna e apprendimento delle lingue straniere.
Ed è evidente che occorre un maggiore investimento sulla formazione degli insegnanti, sia di italiano che di lingue stra-niere, perché una migliore preparazione linguistica degli stu-denti in italiano e in inglese (ma l’Europa ci chiede almeno un’altra lingua!) è presupposto di fondamentale importanza per il migliore funzionamento di tutte le nostre università, anche in vista dell’obiettivo cosiddetto strategico che tutte si pongono di una maggiore internazionalizzazione. Internazio-nalizzazione è ovviamente termine polisemico, significa infat-ti sia offrire una prospetinfat-tiva internazionale ai nostri studeninfat-ti e laureati, inserendo sempre di più gli atenei italiani in reti internazionali di didattica e di ricerca, sia attrarre studenti stranieri nelle nostre sedi, non solo grazie a un’offerta forma-tiva di alta qualità, ma anche grazie a un’accoglienza «ami-chevole». Che vuol dire innanzi tutto superamento dei molti ostacoli esistenti, dalla carenza di servizi, all’eccesso di buro-crazia, alla scarsezza di incentivi (borse di studio e altro).
Tra gli ostacoli molti pongono, addirittura al primo posto, la lingua. Non è certo così per tutti i corsi di laurea, basti
6 E. ugOLINI, «Per la lingua e la cultura italiana», in MARAsChIO - dE MARTI
-NO, Lingua italiana e scienze, cit., pp. 20-22.
7 R. LIBRANdI, «Non c’è competizione senza italiano», in MARAsChIO - dE
MARTINO, Lingua italiana e scienze, cit., pp. 68-74.
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pensare a quelli dell’area umanistica, in cui proprio la lingua è, invece, fattore di attrazione. In ogni caso, sarebbe bene che tra gli incentivi si prevedesse l’attivazione di corsi per l’apprendimento dell’italiano all’estero. Questo consentireb-be anche allo studente non italiano una scelta liconsentireb-bera tra i corsi svolti nella nostra lingua e quelli in inglese. Il Rettore Azzone nel suo intervento in Crusca ha detto che «il punto non è tan-to usare l’inglese in classe ma vedere un ragazzo cinese, uno svedese e uno brasiliano affrontare lo stesso problema in mo-do diverso»8. È un’immagine molto bella e suggestiva. Non si può non essere d’accordo con lui. Di fatto nella maggior parte delle classi delle nostre scuole di tutti gli ordini e gra-di sta succedendo esattamente questo, anche se, invece della bambina o del bambino, della ragazza o del ragazzo brasi-liani o svedesi, a interagire con le compagne o i compagni italiani sono per lo più quelle e quelli dell’Est europeo, delle Filippine o dell’Africa. È chiaro che agli insegnanti sono ri-chieste competenze specifiche di tipo linguistico per svolgere programmi didattici adeguati in classi «internazionali» così configurate. L’Italia è sempre più un paese multilingue, così come lo è l’Unione europea che sostiene il multilinguismo e il multiculturalismo come suoi tratti fondanti e distintivi. Un’u-niversità «monoglottica» (per riprendere la definizione di De Mauro)9 sarebbe veramente una specie di corpo estraneo in questo contesto. Siamo arrivati da poco a una lingua nazio-nale comune e condivisa e subito, per fortuna, ci apriamo maggiormente al mondo. Ma oggi l’italiano sta vivendo nello stesso tempo i problemi interni di un’unificazione nazionale evidentemente squilibrata e diseguale e quelli esterni di un’i-nedita, quanto a dimensioni, apertura all’Europa e al mondo.
Non possiamo nasconderci le difficoltà, che partono
in-8 g. AzzONE, «Inglese ai corsi di laurea magistrale e di dottorato: il perché della scelta del Politecnico di Milano», in MARAsChIO - dE MARTINO, Lingua italia-na e scienze, cit., pp. 22-26.
9 T. dE MAuRO, «Il politecnico monoglottico», in MARAsChIO - dE MARTINO, Lingua italiana e scienze, cit., p. 120.
nanzi tutto da una debole coscienza linguistica nazionale10, una scarsa conoscenza della nostra lingua e una scarsa fiducia nei suoi valori e nelle sue potenzialità. È necessario un gran-de impegno collettivo per affrontare questa nuova situazio-ne. Non ci sono scorciatoie né nella scuola né nell’università.
Occorre far crescere la consapevolezza della centralità delle lingue nella società della comunicazione, innanzi tutto quella delle lingue materne, investire molte più risorse nella scuola, nell’università e nella ricerca, a cominciare dalla formazione permanente degli insegnanti. Le classi «internazionali» fanno già parte del nostro presente e dovranno far sempre più parte del futuro di tutti i nostri figli. L’altra strada, di tipo elita-rio, che sembra alla base della decisione del Politecnico, è quella di creare un percorso così detto d’eccellenza, riservato a chi già possiede, oltre agli «strumenti di cultura necessari a mettere pienamente a frutto le ricche e complesse risorse del patrimonio linguistico comune11» anche una buona co-noscenza dell’inglese. Una scelta politica che inevitabilmente aumenterebbe le gravi diseguaglianze linguistiche, cioè socia-li, culturasocia-li, esistenti nel nostro paese invece di contribuire a rimuovere gli ostacoli che limitano di fatto l’eguale esercizio dei diritti da parte dei cittadini (art. 3, secondo comma della nostra Costituzione).