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Italiano e inglese nella scuola

Nel documento Collana «Biblioteca contemporanea/le idee» (pagine 111-114)

Diceva Manzoni che «una lingua o è un tutto o non è»1. Man-zoni si riferiva specificamente al lessico quotidiano, quello che era abituale in qualsiasi dialetto ma che, nell’italiano di metà Ottocento, ossia in una lingua vitale soprattutto nelle pagine scritte e nell’uso letterario, scarseggiava. Un tenue riflesso di questa situazione si coglie nel persistere di sinonimi regionali per alcune nozioni di uso più chiusamente domestico: dall’ar-nese per appendere le giacche nell’armadio (gruccia, stampella, appendino, ometto…) a qualche locuzione familiare: avere avu-to/fatto il morbillo. Niente, come si vede, che minacci, non che l’integrità dell’idioma nazionale, nemmeno la comprensione reciproca tra i parlanti.

Oggi la situazione è radicalmente diversa. Il rischio non ri-guarda l’italiano dell’uso familiare, bensì quello di dimensione

1 La sentenza famosa si legge nella Lettera Sulla lingua italiana indirizzata a Giacinto Carena (1847): cfr. A. MANzONI, Opere, III. Scritti linguistici, a cura di M.

vITALE, uTET, Torino, 1990, p. 534.

alta, specialistica, e non ha a che vedere con i dialetti, bensì con una grande lingua straniera, che potrebbe sottrarre alla lingua nazionale molti degli spazi saldamente occupati fino a pochi anni fa. Che cosa accadrebbe se, poniamo, di chimica o di matematica, si parlasse sempre e solo in inglese, dagli anni della scuola fino a quelli universitari? Non ci sarebbero più parole italiane per indicare le derivate o i solfati. La lingua ri-nuncerebbe a interi territori del sapere, sarebbe ridotta a un àmbito privato, familiare: quello che è proprio dei dialetti, che sono a tutti gli effetti delle lingue, ma che se ne differenziano non tanto per la diversa estensione d’uso (l’albanese e l’arme-no sol’arme-no lingue, l’arme-non dialetti), sibbene per la loro inadeguatezza storico-culturale (non certo genetica) a trattare di argomenti che esulino dalla sfera della familiarità e dell’espressività, dagli affetti familiari alla poesia2.

Un’ipotesi fantascientifica? Forse. Ma nemmeno tanto. Se la pratica didattica del CLIL (Content and Language Integrated Learning), l’apprendimento integrato di materie non linguisti-che – di fatto, l’inglese – introdotto nella secondaria di secon-do grasecon-do nel 2010, finisse col tradursi nella sistematica asecon-do- ado-zione dell’inglese nelle discipline tecnico-scientifiche, il rischio potrebbe essere reale.

La risorsa del CLIL si fonda su un presupposto glottodidat-tico indubbiamente solido: è l’immersione totale in un mondo linguistico diverso che ci rende partecipi di una lingua secon-da, come ciascuno ha occasione di sperimentare attraverso un prolungato soggiorno all’estero, senza possibilità di comunica-re con parlanti della sua lingua madcomunica-re. Le perplessità, semmai, sono altre. Il luogo principe per l’apprendimento di una disci-plina a scuola è costituito dalle ore curriculari: bisogna chie-dersi, prima di tutto, se l’insegnamento dell’inglese è sempre davvero adeguato. Certamente non lo è se avviene interamente o in parte in italiano (il docente dovrebbe esprimersi nella lin-gua straniera appena mette piede in aula e non abbandonarla

2 E la poesia dialettale italiana ha offerto nell’Otto e nel Novecento, gioverà ricordarlo, prove di altissimo valore.

© Edizioni Angelo Guerini e Associati

mai nelle sue interazioni con gli alunni); non lo è se la compe-tenza del docente è buona ma non eccellente, a partire dalla pronuncia (la pratica di affiancare all’insegnamento linguistico un lettore madrelingua che solleciti la conversazione dovrebbe essere il più possibile estesa e non essere applicata solo nei licei linguistici); non lo è, infine, se oggetto principe dell’insegna-mento è la letteratura, non la lingua.

Ma l’applicazione del CLIL va incontro anche a qualche ri-serva nella sua concreta applicazione. Svolgere una lezione per esempio di storia o di letteratura italiana in una lingua diversa dalla propria presuppone, intanto, una competenza eccellente (un C2 del Quadro Comune Europeo di Riferimento per la Conoscenza delle Lingue, altro che un B2!) e l’abitudine a ser-virsene per trattare argomenti culturali e di forte impatto intel-lettuale. Se queste condizioni non sussistono, il docente tarerà anche inconsapevolmente verso il basso il suo discorso: la sto-ria cesserà di essere il luogo in cui si combinano tanti aspetti diversi delle vicende umane – dall’economia alla religione ai grandi immaginari simbolici, calandosi in una concreta realtà spaziale soggetta a eventi non controllabili (terremoti, epide-mie, carestie) – per ridursi a un avvilente riassuntino: «Charles the Great was the King of the Franks from 768 and Emperor of the Romans from 800. He united much of Europe during the Early Middle Ages» e così via3. Non lamentiamoci, poi, se la gran parte dei ragazzi guarda alla storia come a un’uggiosa sequela di date e di nomi da memorizzare.

Qui, e in qualsiasi altra materia, sta all’insegnante presen-tare il tema in modo efficace, commisurandone l’approfondi-mento alla maturità cognitiva degli alunni e ricorrendo a tutte le risorse retoriche che rendono un messaggio pragmaticamen-te efficace. Pensiamo solo alla funzione della battuta di spirito piazzata al momento giusto per ravvivare l’interesse declinante di un uditorio (un’arte nella quale proprio gli angloamerica-ni sono maestri, ricorrendovi invariabilmente nei discorsi in

3 Mi sono ispirato alla corrispondente voce di Wikipedia: strumento utilissimo, sia chiaro, ma che non può essere il vettore della riflessione storica a scuola.

pubblico). Riuscirà a raggiungere questo traguardo il nostro insegnante, pur provvisto di un inglese grammaticalmente cor-retto? Sarà lecito dubitarne, riflettendo sul fatto che chi non è bilingue in genere si guarda dal cimentarsi in un gioco di pa-role in una lingua non sua, che potrebbe andare incontro alla freddezza o addirittura all’incomprensione di chi lo ascolta.

Detto questo, non si può che essere favorevoli (lo ribadisco) al potenziamento dell’inglese nella scuola superiore, affermato anche dal d.L. del 14.1.2017 sulla riforma dell’esame di Stato, che prevede una prova INvALsI in tutte le ultime classi per ve-rificare l’apprendimento dell’inglese (oltre che dell’italiano e della matematica), in relazione al Quadro Comune Europeo di Riferimento (qCER).

Nel documento Collana «Biblioteca contemporanea/le idee» (pagine 111-114)