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Libertà e autonomia

Vale la pena precisare che qui non si contesta l’utilità di una lin-gua veicolare – sempre ce n’è stata una: il latino, il francese, l’in-glese e, domani, probabilmente, lo spagnolo, il cinese o l’arabo – ma la legittimità di escludere l’italiano dalle proprie università.

Anche a voler trascurare i risultati degli studi più recenti24, che, proprio con riferimento al settore dell’innovazione tecno-logica, dimostrano come l’inglese sia in realtà già raggiunto e superato da altri idiomi (a livello europeo, per es., il tedesco è la lingua più utilizzata per il deposito dei brevetti), occorre al-lora richiamare l’attenzione su un equivoco di fondo: l’oggetto del contendere non è l’insegnamento della lingua ma la lingua dell’insegnamento.

24 M. gAzzOLA - A. vOLPE, «Linguistic justice in IP policies: evaluating the fair-ness of the language regime of the European Patent Office», Eur. J. Law Econ., 8 maggio 2013.

Se oggetto della didattica sono, infatti, materie diverse da quelle linguistiche, la lingua non è il fine – e perciò non può essere una ragione di discriminazione – bensì un mezzo per in-segnare e apprendere al meglio le specifiche discipline, sicché l’intento di correggere il divario linguistico italiano e miglio-rare la conoscenza delle lingue straniere, dovrebbe portare a intervenire sulla parte iniziale e non su quella finale, del pro-cesso formativo, ovvero sulla scuola, essendo questa l’agenzia più influente nel diffondere la conoscenza di altre lingue25.

D’altra parte, l’inglese è importante ma non basta, specie quando si tratta del c.d. (e spesso imbarazzante) globish, un minimo comune denominatore che, lungi dall’essere la chiave per il successo, finisce, inevitabilmente, per abbassare il livello della formazione anche dal punto di vista dei contenuti tra-smessi26. Se, infatti, il pensiero si crea e si trasmette al meglio nella propria lingua materna, limitarne o addirittura vietarne l’uso è operazione non solo illegittima ma anche politicamente, socialmente e culturalmente devastante.

Tutto ciò non ha nulla a che vedere con l’internazionaliz-zazione e molto con il provincialismo di chi crede di «vince-re facile», scalando obliquamente le classifiche internazionali, anche a costo di sacrificare la qualità dell’insegnamento e il rispetto dei diritti di tutti, ivi compresi quelli di chi, profes-sore o studente, per necessità o per scelta, volesse continuare ad usare in un’università pubblica, finanziata dai contribuenti italiani, la propria lingua.

L’obbligo di insegnare in una lingua diversa da quella ma-terna configura infatti non una mera modalità di esercizio del-la libertà di insegnamento ma un vero e proprio ostacolo allo stesso esercizio della libertà. Solo in contesti bilingue – Folk bilinguism – l’insegnamento obbligatorio nell’una o nell’altra potrebbe essere ritenuto compatibile con le libertà

d’insegna-25 T. dE MAuRO, «Il politecnico monoglottico», in MARAsChIO - dE MARTINO

(a cura di), Fuori l’italiano dall’università, cit., p. 120.

26 M.L. vILLA, L’inglese non basta. Una lingua per la società, Mondadori, Milano, 2013.

© Edizioni Angelo Guerini e Associati

mento e di istruzione; in ogni altro contesto, invece, esso con-figura una precisa compressione di quei diritti e libertà costi-tuzionali.

Il che non significa che ciascun docente abbia una sorta di

«diritto al corso». Piuttosto, sta ad indicare che il singolo do-cente non può essere sostituito in un corso solo perché si rifiu-ta di insegnare in una particolare lingua straniera, atteso che in questo modo si comprime la sua libertà di insegnamento, che, alla luce del primato della lingua italiana, deve potersi esplica-re in italiano nella misura in cui è esercitata in una università pubblica italiana.

A nulla vale sostenere, come è stato fatto, che spetterebbe comunque al docente la scelta di continuare a insegnare nei corsi di laurea magistrale o di dottorato in inglese o, viceversa, collocare l’insegnamento di cui fosse titolare nell’ambito del percorso di laurea triennale. Tale pretesa «scelta» non è, infat-ti, che l’effetto di detta imposizione, sicché la tesi – a dir vero singolare – del corso «al portatore» comporterebbe la collo-cazione di un insegnamento nel triennio di base ovvero nel biennio specialistico a seconda dello spostamento – determi-nato dalla discriminante linguistica – del docente, libero solo, eventualmente, di «soccombere» (accettando di insegnare in inglese) o di esulare (passando alla triennale): una concezione della libertà più degna degli ordinamenti autoritari che delle democrazie costituzionali.

Con il che, l’università mette anche nel conto l’attribuzione dei c.d. carichi didattici, ovvero il conferimento dei corsi, sulla base di logiche diverse da quelle della specifica competenza – verificata nei concorsi – e degli interessi scientifici liberamen-te coltivati da professori e ricercatori all’inliberamen-terno dell’università:

purché anglofono, non importa chi insegni, cosa insegni e come!

Né può opporsi alla libertà di insegnamento, come sopra tratteggiata, il principio costituzionale dell’autonomia univer-sitaria, che ha fra i suoi limiti interni proprio la libertà d’inse-gnamento, quale corollario imprescindibile della libertà di arte e scienza. In realtà, l’autonomia che qualcuno pretenderebbe

di esercitare indisturbato non è quella garantita dall’art. 33 della Costituzione, che si svolge (rectius: deve svolgersi) nelle forme e nei limiti stabiliti dalla stessa e dalle leggi, bensì una forma di puro arbitrio, in forza del quale gli organi di vertice degli Atenei si autoattribuiscono il potere di imporre agli altri la propria visione del mondo, calpestando la legge e la Co-stituzione, come se gli enti da essi rappresentati fossero non autonomi ma «sovrani» o godessero di un regime di extraterri-torialità, ignorante l’ordinamento della Repubblica.

Che questa sia l’ispirazione di fondo di certi provvedimenti è testimoniato dal ritornello, costantemente ripetuto in diver-se diver-sedi dai cantori della «autonomia speciale», diver-secondo cui gli studenti che non intendono sottoporsi all’inglese obbligatorio, sarebbero liberi di andare altrove: la stessa idea di libertà già vista per i docenti!