«popoli europei»
Il dilagante predominio dell’inglese assume un significato par-ticolare se lo si guarda – specie oggi, dopo la c.d. Brexit e i più recenti rivolgimenti nello scacchiere internazionale – dal punto di vista dell’Unione europea, dove opportunamente si è evitato di seguire la strada dei nazionalismi e dell’Europa delle patrie, come avrebbe voluto De Gaulle, ma si è anche rigetta-ta l’idea di un’espressione linguistica uniforme, che non trova corrispondenza nella cultura, nella storia e appunto nell’iden-tità dei popoli europei.
La scelta (non priva di costi) del plurilinguismo, che sareb-be, secondo alcuni, la migliore dimostrazione della mancanza di dimensione politica dell’Europa o, se si preferisce, dell’as-senza di un popolo europeo, appare diversamente se si guarda al carattere duale della cittadinanza europea, una cittadinanza che si aggiunge – anziché essere complementare – a quella sta-tale.
© Edizioni Angelo Guerini e Associati
Ora, è appena il caso di osservare che, finché gli Stati sono rimasti chiusi nella loro dimensione nazionale, il riferimento in Costituzione alla lingua ufficiale poteva apparire ovvio e ad-dirittura implicito, laddove l’evoluzione dei processi di inter-nazionalizzazione e di integrazione sovranazionale ha via via fatto emergere l’esigenza di garantire – sia sul piano interno che a livello europeo – le specificità culturali e identitarie an-che come antidoto nei confronti dei risorgenti «sovranismi».
E così, la Francia nel 1992, in vista della ratifica del Trattato di Maastricht, ha inserito all’art 2, c. 1 della Cost., la disposi-zione secondo cui «la lingua della Repubblica è il francese»;
l’art. 3 della Costituzione spagnola riconosce il castigliano co-me lingua ufficiale dello Stato; l’art. 8 della Costituzione au-striaca afferma che «la lingua tedesca è la lingua ufficiale della Repubblica senza pregiudizio dei diritti che la legislazione fe-derale riconosce alle minoranze linguistiche» e financo la Co-stituzione finlandese consacra come lingue ufficiali il finlande-se e lo svedefinlande-se.
Il difficile ma necessario equilibrio fra spinte contrapposte, che fa dell’Europa un modello esemplare di società inclusiva, ha nella tutela delle lingue nazionali una sua altissima espres-sione, tale da giustificare, secondo la Corte di Giustizia, restri-zioni alla libera circolazione dei lavoratori, purché «ragionevo-li» e proporzionali e, in ogni caso, parametrate al particolare contesto in cui la tutela della lingua nazionale è invocata.
Così, nel caso Groener27, la Corte ha affermato che l’in-troduzione del requisito della conoscenza obbligatoria della lingua nazionale (nel caso di specie l’irlandese), ai fini dell’as-sunzione in qualità di insegnante in una scuola pubblica, si giustificava solo (e, si starebbe per dire, proprio) in quanto la lingua richiesta era lingua ufficiale dello Stato e in quanto la restrizione concerneva l’attività di insegnamento. Il che signi-fica che l’introduzione di un requisito linguistico, non giusti-ficabile in base ad alcuna norma comunitaria o costituzionale,
27 Causa 379/87, Anita Groener contro Minister for Education and the City of Dublin Vocational Education Committee, Racc., 1989, p. 3967.
né finalizzato alla tutela della lingua ufficiale dello Stato o di una lingua minoritaria, sarebbe di per sé discriminatoria e tale da contribuire non ad accrescere ma ad impoverire l’apertura internazionale.
Quanto alla possibilità di limitare le lingue di espletamento di una funzione o di un servizio pubblico da parte di un’ammi-nistrazione di uno Stato membro, può richiamarsi quella giuri-sprudenza comunitaria in tema di tutela del pluralismo lingui-stico nei concorsi per il reclutamento del personale dell’ammi-nistrazione europea. Secondo i giudici europei la selezione dei candidati ben potrebbe richiedere il possesso di specifici requi-siti (anche linguistici), a iniziare dalla limitazione della pubbli-cazione integrale alle sole lingue ufficiali di maggiore rilevanza, purché ciò sia giustificato – e, in quanto tale, da considerarsi non discriminatorio – in ordine all’attività che il candidato sarà chiamato a svolgere nell’ambito dell’amministrazione28.
Si comprende allora la portata innovativa della sentenza della Corte di Giustizia, 27 novembre 2012, Causa C-566/10, che ha accolto il ricorso italiano avverso la pubblicazione in tre lingue (inglese, francese e tedesco) dei bandi di concorso dell’EPsO (European Personnel Selection Office) e l’obbligo di sostenere le prove di selezione in una di queste tre lingue. An-dando oltre la propria giurisprudenza, la Corte infatti arriva ad affermare che «la prassi di pubblicazione limitata non ri-spetta il principio di proporzionalità e configura pertanto una discriminazione fondata sulla lingua»29: un’importante vittoria del nostro Paese, come ha commentato l’allora nostro Ministro per gli affari europei, ricordando come «l’Italia sia fortemente impegnata nell’affermare il principio e il valore del multilingui-smo e nella tutela della lingua italiana nell’Unione europea».
Peccato che quello che si pretende dall’Europa – la quale, va
28 V. Trib. di I grado CEE, sez vI, 13 settembre 2010, n. 166; cfr., a contrario, Trib. di I grado CEE, sez. v, 20 novembre 2008, n. 185.
29 Corte di Giustizia, 27 novembre 2012, Causa C-566/10, che ha accolto il ri-corso italiano avverso la pubblicazione in tre lingue (inglese, francese e tedesco) dei bandi di concorso dell’EPsO (European Personnel Selection Office) e l’obbligo di sostenere le prove di selezione in una delle tre.
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ribadito, non ha «una» sua lingua ufficiale – non trovi corrispon-denza sul piano interno, dove il Governo non ha fatto una piega di fronte all’estromissione dell’italiano da parte di un’università pubblica italiana e anzi, intervenendo al suo fianco in giudizio, ha provato a sminuire la gravità di quanto avvenuto con argomenti tali per cui certe affermazioni e, in particolare la proclamazio-ne dell’inglese come «lingua ufficiale dell’Ateproclamazio-neo» o l’avverbio
«esclusivamente» riferito all’inglese come lingua di «erogazione»
dei corsi, non corrisponderebbero alle intenzioni…
Dev’essere una malattia degenerativa: tutti, da qualche tem-po, vengono fraintesi, dicono (e scrivono) cose a propria insa-puta e comunque diverse da quelle che vorrebbero. Non è mai un buon segno quando le frasi fatte e i luoghi comuni prendo-no il posto del ragionamento articolato e le parole, logorate dal cattivo uso, perdono il loro significato!