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Cambiamento sociale e scienze sociali in Italia

di Franco Ferrarotti

Un qui prò quo

Parlare dell’Italia di oggi come di un paese tipicamente in transizione è ormai diffuso luogo comune. La transizione si verificherebbe, secondo gli schemi correnti, nel passaggio dal mondo contadino alla società indu­ striale. Tale passaggio viene generalmente concepito e interpretato in termini di « scatto dialettico ». La cultura italiana non ha per il momento a disposizione strumenti di analisi e di valutazione diversi. Essa sembra in grado di concepire e fissare solo dei quadri, relativamente statici e con­ chiusi, a bianco e nero, secondo lo schema di un razionalismo ingenuo, quasi che il processo sociale avanzasse e di fatto ineluttabilmente progre­ disse come un treno sul binario rettilineo da una form a di vita sociale animistica, antropomorfica e altamente personalizzata a forme di contrat­ tualismo puro e di rarefatta impersonalità.

La realtà è assai più complessa. Mondo contadino e società industriale non si fronteggiano come gli stadi di un processo dialettico, bensì appaiono mescolati e confusi. Dominata per lungo tempo dai criteri di giudizio e dai presupposti metodologici del globalismo storicistico, la cultura italiana è incapace, per un verso, di procedere ad un esame analitico delle compo­ nenti significative dei fatti sociali senza perdersi nelle ricerche frammen­ tarie, prive di prospettiva e in definitiva gratuite. D ’altra parte, prima ancora di essere analizzato per quello che è, vale a dire nella sua rilevanza empirica, ogni fatto particolare viene dialetticamente riferito e giustifi­ cato nel quadro del processo globale. L’esigenza totalizzante e sistematica viene così soddisfatta, ma la totalizzazione su cui si fonda rischia di riu­ scire una totalizzazione meramente verbale, priva di contenuti empirici effettivi, e quindi fuorviante. La cultura stessa viene a trovarsi in una situazione di impossibilità strumentale di « fare i conti con la realtà », gira a vuoto e finisce in « bellettristica ». La « totalità concreta », per servirci della formula di Lukàcs, è affermata come « la vera e propria categoria della realtà », non intesa nel senso di una identità indifferen­ ziata bensì come il « tutto » immanente alle sue parti, ma si tratta di una totalità vuota.

Ciò impedisce, tra l’altro, la comprensione di un aspetto importante del problema e tende a generare una catena di equivoci. In particolare, si ha il fraintendimento, più o meno radicale, della natura del cambiamento sociale attraverso la mancata distinzione fra pure e semplici, per quanto vistose, modificazioni sociali e cambiamento sociale in senso proprio. Le ricerche di cui ho dato notizia ne La piccola città (Milano, 1959) e ne II rapporto

sociale nell’impresa moderna (Roma, 1961) sembrano confermare il carat­

tere « non automatico » del cambiamento sociale. Mi sembra specialmente da segnalare il pericolo di semplicistico schematismo in cui possono indurre i modelli analitici di tipo dicotomico quando vengano assunti senza le necessarie precauzioni metodologiche, ossia quando vengano « reificati ».

Gemeinschaft contro Gesellschaft, comunità contro società, società militare

contro società industriale, meccanico contro organico, tradizione contro ragione, sacro contro « laico », contadino-personale contro urbano-contrat- tuale: si tratta di contrapposizioni che non vanno prese alla lettera, utili come punti di orientamento per la ricerca empirica, più precisamente come standards o criteri-hase di giudizio contro cui misurare per appros­ simazione il configurarsi concreto di determinate convivenze umane nella loro specificità storica e socio-culturale, ma delle quali occorre non dimen­ ticare mai il carattere astratto, analitico-formale o ideal-tipico che dir si voglia.

L’Italia odierna, per esempio, indica un caso clamoroso e per più aspetti singolarmente « fotogenico », tanto da fam e un laboratorio sociale di prim’ordine, se non proprio la « scuola per i paesi che si svegliano » (1), di rilevanti variazioni socio-economiche, anche di ordine strutturale, alle quali non corrisponde una variazione qualitativa, e che del resto, quanto meno in questa fase, sembrano refrattarie a quella cristallizzazione di valori e di atteggiamenti osservabili, coerente e complessivamente coordinata, che si pone come la condizione necessaria per un processo di cambiamento sociale. L ’ evoluzione specifica delle società storiche presenta un carattere di viscosità caratteristica che sfida ogni facile schematismo. La trasformazione dell’Italia odierna appare come un processo di indubbia portata storica e nello stesso tempo fondamentalmente ambiguo: non più legato in maniera determi­ nante alle consuetudini, alla mentalità e alle « grandi tradizioni » (2), che sono caratteristiche del mondo contadino e, d’altro canto, non ancora in possesso, cioè non ancora determinato nel suo concreto, quotidiano dispie­ garsi da una consolidata cultura industriale, razionale e calcolatrice, con le sue chiare differenziazioni funzionali e la netta, marcata e codificata separazione fra sfera privata e sfera pubblica, con la sua famiglia ri­ stretta (3), la sua grande mobilità orizzontale e verticale, la sua fretta, il suo culto dell’efficienza, il suo crescente, e d’altra parte insaziabile, bisogno del nuovo e del diverso.

Viviamo in una società dissociata e tendenzialmente schizofrenica. Tale carattere contraddittorio non riguarda semplicemente le codificazioni fo r­ mali dell’assetto giuridico rispetto alle esigenze reali dei rapporti inter­ personali e di gruppo; è un’esperienza esistenziale: abbiamo i piedi nel­ l’epoca industriale, ma la testa e il cuore sono « al paese mio » ; si lavora alla linea di montaggio, ma si ammazza ancora per « difendere l’onore ». L’Italia, ho notato altrove, è paese vario e complesso; una costellazione di sub-culture, disposte orizzontalmente e non chiaramente interrelate, con salti storici notevolissimi e ineguali sviluppi di ambiente, che la legge del 1859 ha sommariamente ignorato nel suo miope sforzo di piemontesiz-

zarle. L ’Italia è un paese che conosciamo pochissimo. Si parla, per esempio,

di « mercato italiano », senza avvedersi che esistono nella realtà migliaia di mercati italiani, diversi e divisi ; si parla di « fronte padronale » senza mai darsi la pena di individuare e descrivere contraddizioni, eterogeneità e possibili fratture, distinguendo fra forze economiche dinamiche, capaci di iniziativa e di sviluppo, e proprietà assenteistica e parassitaria ; si parla di « classe operaia » e si fa della mitologia, passiamo da un mito all’altro, dall’operaismo di Gramsci al contadinismo di Rocco Scotellaro, non si sa né si cerca di sapere, metodicamente, cosa effettivamente sono, come si comportano, da che cosa sono motivati i concreti, specifici gruppi operai e contadini. Così continuiamo a vivere l’esperienza politica in termini dì magia e a nutrirci di idelogie che son già nel mito.

La vita italiana è resa inutilmente complessa e per certi rilevanti aspetti decisamente ritardata da fattori che a ragione inducono a parlare della nostra come di una situazione, alla lettera, feudale o, più esattamente,

neo-feudale, nel senso che le istituzioni del feudalismo storico esprimevano

un modo di vita sostanzialmente adeguato, mentre oggi non ne resta in piedi che lo schema oppressivo. Intorno a questi fattori non abbiamo dati in quantità e qualità sufficienti. Sappiamo che il nostro sistema scola­ stico è adatto per la formazione di gentiluomini di campagna, che esso è tragicamente in ritardo rispetto ai bisogni di una società industriale, ma d’altro canto il reclutamento stesso della classe dirigente, sul piano eco­ nomico e politico, permane misterioso. Il ruolo della famiglia, i mutamenti da apportare per adeguare la sua struttura alla società industriale, e l’in­ dustrializzazione stessa, come fatto di istituzione e di costume, ossia come vero e proprio salto « storico » rispetto al mondo contadino, vanno esaminati e dovrebbero trovar posto nei programmi di partiti politici moderni e funzionali. Noi sappiamo chi è il capitalista italiano. Cresciuto in una situazione di grande instabilità monetaria, si sono sviluppati in lui abi­ tudini e complessi psicologici da giocatore d’azzardo in grande stile. Con poche eccezioni, appare azionato da un istinto predatorio che gli fa perse­ guire il profitto attraverso la scarsità più che mediante l’espansione degli

investimenti e della produzione così come per contro il nostro dirigente industriale appare idoneo e pronto a risolvere i suoi problemi produttivi aziendali sul piano della rappresentanza decorativo-diplomatica e del con­ tatto politico. Ma la natura dinastico-familiare del mondo industriale ita­ liano, quella mancanza di sicurezza di sé e della propria missione nel mondo per cui il capitalista italiano non morirebbe ai cancelli della sua fabbrica come, secondo Schumpeter, erano pronti a fare gli esponenti delle grandi borghesie nazionali, quel complesso di motivazioni che pesa e talvolta distorce il processo tecnico-produttivo e che è psicologicamente alla base dell’espor­ tazione dei capitali, sono ancora per gran parte da esplorare.

E ’ appena necessario ricordare che tali esplorazioni non possono risol­ versi, se sperano di attingere il piano critico, in un semplice sforzo descrit- tivistico, per quanto accurato. La ricerca, per riuscire feconda, deve essere orientata e non può darsi ricerca orientata se non in base a modelli teo­ rici sufficientemente precisati. E ’ infatti da tali modelli, o schemi concet­ tuali di riferimento, che dipende sostanzialmente la possibilità di verificare o di falsificare le ipotesi di lavoro, vale a dire la possibilità di un utilizzo pieno e rigoroso, non meramente impressionistico, dei dati empirici rile­ vati. L ’incapacità tipica delle ricerche sociologiche italiane, anche delle più ampie e sofisticate, di utilizzare i dati raccolti dipende a mio giudizio dalla loro insufficiente preparazione teoretica e dall’ impostazione metodo- logica generalmente orecchiante, in ogni caso mal surrogata dai generosi tuffi nel « gran mare dell’oggettività ».

La costruzione dei modelli teorici per l’orientamento della ricerca empi­ rica indica probabilmente la fase più difficile di ogni ricerca sociologica. Disgraziatamente, è anche quella di cui ci si preoccupa di meno. La sua difficoltà deriva direttamente dal fatto che per essa non si danno regole fisse o procedure standardizzate. La costruzione del modello è legata al tipo di problemi indagato, allo scopo della ricerca e al grado di consa­ pevolezza con cui esso è percepito dai ricercatori, alla loro cultura geneiale, alla loro fantasia nell’ ipotizzare interconnessioni significative fra variabili e fenomeni noti per lo più solo impressionisticamente, oppure mediante rapide indagini-pilota — in una parola, alla loro « immaginazione sociolo­ g ic a » , come direbbe C. W right Mills, vale a dire alla loro capacità di inventare e, pur mantenendo una certa distanza critica, di partecipare a un sistema di significati. La costruzione del modello indica, in altri termini, la fase di maggior invenzione della ricerca, quella in cui hanno libero gioco la sensibilità e la cultura personali e che per definizione si sottrae alle regole fisse ed esterne, caratteristiche di ogni procedura pubblica. Anche nella ricerca sociologica, è difficile trovare surrogati efficaci per l’ intelligenza.

La mancanza di modelli teorici o, peggio, la ipostatizzazione di alcuni modelli tradizionalizzati come i soli possibili, impediscono di comprendere i fattori propriamente causativi particolari del processo di cambiamento socale in un dato contesto storico e socio-culturale (4). I lineamenti rigidi dei modelli teorici storicamente prodotti ed elaborati dalla tradizione socio­ logica andrebbero per questo decongelati e nuovamente, per così dire, pro­ blematizzati a contatto con la realtà, imprevedibile e unica, dell’esperienza storica e dei suoi bisogni specifici. Se ciò non avviene, per incapacità strumentale o per strozzature di ordine politico oppure per via di distorsioni causate da interessi sezionali, l’esito è per gran parte inevitabile. Le varia­ zioni anche imponenti della struttura e dei comportamenti individuali o di gruppo non sono di per sé sufficienti a inverare un cambiamento sociale integrato in senso proprio. Le variazioni hanno luogo per impulsi disparati e sostanzialmente incoerenti e si riassumono, come sta accadendo attual­ mente in Italia in maniera tipica, in processo di transizione privo di strumenti efficaci di auto-ascolto e auto-direzione razionale. Gli stessi muta­ menti sociali più rilevanti come la redistribuzione geografica della popola­ zione e le caratteristiche dei nuovi insediamenti umani, vengono descritti e sbrigativamente spiegati in termini di « società italiana in trasform a­ zion e». L ’oggetto da spiegare diventa così il criterio della spiegazione.

L ’ Italia come società neo-urbana

Di questa fase di transizione, l’urbanesimo inteso in senso lato, ossia la tendenza all’accentramento urbano della popolazione, è un aspetto saliente e insieme una componente fondamentale II fenomeno dell’urbanizzazione si pone infatti come una componente essenziale, anche se probabilmente non inevitabile in senso assoluto, del processo di industrializzazione con­ cepito come processo sociale globale, tale da coinvolgere necessariamente per quanto non sincrónicamente, anzi a scadenze diverse, atteggiamenti mentali e tecniche produttive, modi di vita e modi di lavorare, consumi e valori.

Ciò che colpisce, ad una prima e per quanto sommaria considerazione del fenomeno dell’urbanesimo da un punto di vista generale, è la relativa rapidità del tasso di urbanizzazione della popolazione mondiale. Le ricerche di E. E. Lampard documentano come, nel 1800, solo il 2% della popola­ zione mondiale viveva in città con oltre 100.000 abitanti. La proporzione saliva al 2,3% nel 1850, al 5,5% nel 1900 e superava il 13% nel 1950. A questa data, esistevano oltre 50 città con popolazione superiore a un milione di abitanti; nel 1800 non ne esistevano (5). Le statistiche di

Lampard trovano riscontro e conferma nelle rilevazioni di Willy Hellpach: la Gran Bretagna, gli Stati Uniti, la Germania, l’Austria, la Danimarca, l’Olanda e il Belgio presentano nettamente l’aspetto di stati o di regioni, nei quali la città e le metropoli hanno attirato a sé una percentuale spro­ porzionata della popolazione totale. Bastino alcune c ifr e : in Gran Bre­ tagna, negli Stati Uniti, in Germania rispettivamente il 40% , il 35%, il 30% della popolazione abita in vere metropoli ; in Olanda la popolazione urbana supera largamente un quarto del totale, in Australia è la metà (a Sidney e a Melbourne vive un terzo della popolazione), in Canada un terzo, in Austria il 30% della popolazione vive a Vienna, un quarto dei danesi vive a Cope­ naghen (6).

Con un ritardo di circa un secolo, il fenomeno dell’urbanizzazione e quello, strettamente concomitante, dell’esodo rurale e dello spopolamento delle campagne hanno investito anche l’Italia, il Paese delle deamicisiane « cento città ». Qui la polemica contro l’urbanesimo può contare su una varietà di m otivi: da quelli del puro e semplice conservatorismo a quelli che si richiamano a pericoli di indole morale, a quelli che riecheggiano le preoccupazioni fasciste che a suo tempo avevano trovato espressione nei provvedimenti legislativi contro l’urbanesimo (L eggi n. 2961 del 24 dicem­ bre 1928 e n. 1092 del 6 luglio 1930) solo recentemente abrogati. Le cifre ci dicono tuttavia che il fenomeno dell’urbanizzazione della popolazione ha tutte le caratteristiche di una tendenza irreversibile (cfr. tab. 1).

Tab. 1 - Distribuzione percentuale dei com uni italiani e delle rispettive popolazioni, secondo i l numero degli abitanti al 10.2.1901, al 4.4.1931 e al 4.11.1951 (ISTAT)

classi di ampiezza dei comuni 1901 1931 1951 % comuni O/o/ abitanti % comuni % abitanti % comuni % abitanti fino a 1.000 21,4 3,3 10,5 1,3 14,9 1,6 1.001-3.000 41,4 19,9 42,3 14,5 39,3 12,3 3.001-10.000 30,1 37,3 37,5 33,9 35,6 30,6 10.001-20.000 4,1 13,7 6,3 14,6 6,4 14,2 20.001-30.000 1,0 5,9 1,5 6,3 1,6 6,4 30.001-50.000 0,8 5,7 0,9 6,1 1,1 6,8 50.001-100.000 0,3 4,7 0,6 6,5 0,7 7,6 100.000 e oltre 0,1 9,5 0,4 16,8 0,4 20,5 1 0 0 ,0 1 0 0 ,0 1 0 0 ,0 1 0 0 ,0 1 0 0 ,0 1 0 0 ,0

Come tutti i grandi fenomeni sociali, anche l’urbanizzazione ha avuto i suoi profeti di sventura. Si pensi alle invettive anti-urbane e anti-indu- striali dei romantici inglesi, da Blake a Wordsworth a Shelley e a Keats. Quando Rilke scrive che, « le grandi città sono perdute e corrotte... e si avvicina la loro ultima ora » non fa che riecheggiarli. Ma di fronte ad un fenomeno che ha le dimensioni cui abbiamo accennato perfino chi ritenga che la vita delle grandi città sia dannosa e corruttrice non può pensare di abbandonare al suo destino un’aliquota così elevata della popolazione mondiale. Gridare allo scandalo è inutile, se non evasivo. D’altro canto, la sociologia ha certamente molti doveri, ma fra questi non vi è quello di consolare a tutti i costi. E ’ dunque in primo luogo necessario cercare di capire le origini, la matrice storica e sociale, ossia il complesso di condi­ zioni, che sta alle radici del fenomeno dell’urbanizzazione.

Le spiegazioni sono numerose, e, confò logico attendersi, non tutte com­ patibili. Una prima constatazione, fondata sui dati a disposizione, è la seguente: più il reddito pi'o-oapite di un paese aumenta, più aumenta il suo livello di urbanizzazione. In altri termini, fra due paesi, quello che ha il più alto reddito pro-capite è anche il più urbanizzato. Come si spiega questa situazione di fatto? Quali sono i fattori che spingono all’urbaniz­ zazione? E ’ opinione largamente accettata che tali fattori siano da vedersi nel progresso tecnologico, nell’aumento della popolazione, nell’espansione dei mercati, nel potenziamento delle comunicazioni e di fenomeni simili. Ciò che resta ignorato è peraltro il tipo di combinazione cui tali fattori vanno legati per sortire un esito dinamico, ossia la logica combinatoria che costituisce il processo nel suo insieme. Gli stessi interrogativi valgono con riguardo al fattore « economico », che spingerebbe allo spopolamento della campagna e per converso alla concentrazione urbana della popola­ zione, cioè con riguardo al fatto che in agricoltura la produttività m argi­ nale del lavoro tende a zero mentre ciò non avviene per l’ industria. Secondo la spiegazione che, semplificando, chiameremo « economica », la necessità di nutrire un numero di persone sempre maggiore, accompagnata dallo sforzo di migliorare il tenore di vita, costituisce il fattore decisivo del­ l’urbanizzazione. Più precisamente, secondo tale spiegazione, il processo di urbanizzazione è un caso particolare dei processi di concentrazione spa­ ziale. Ridotta la distanza che li separa, gli individui operatori economici aumentano il numero e l’efficacia dei loro scambi ; così come la presenza di una vasta e varia popolazione aumenta la possibilità di varie specia­ lizzazioni produttive e crea un mercato di utenti, potenziali o attuali. Con­ centrazione e specializzazione sono due concetti assai importanti anche per la spiegazione « ecologica » dell’urbanizzazione : spiegazione meno unilate­ rale, più complessa di quella « economica », la quale poggia in maniera determinante sul concetto di rottura dell’equilibrio fra popolazione e risorse

di un determinato territorio e sulla conseguente maggiore competizione fra gli abitanti, che sono per tal via indotti a specializzarsi per assicurarsi un campo di attività limitato, ma meno esposto alla concorrenza. Questo è un punto interessante perché introduce nuove interpretazioni, in chiave psicologica e culturale e non solo economica e produttiva, del principio della divisione del lavoro. In altri termini, l’ interpretazione «e co lo g ica » apre il discorso intorno al rapporto fra la metropoli e la « vita intellettuale », ossia intorno alle conseguenze socio-psicologiche della concentrazione urbana, che ci consente di uscire dai facili catastrofismi romantici, mentre d’altra parte non ci permette illusioni sulla soluzione automatica dei problemi cui il fenomeno dell’urbanizzazione, con lo spopolamento delle campagne e le cor­ renti di immigrazione massiccia nell’area cittadina, dà inevitabilmente luogo. Forse più di ogni altro, fra i classici del pensiero sociologico, Georg Simmel ha colto le caratteristiche socio-psichiche del modo di vita urbano.

% La metropoli — egli diceva -— esige dall’uomo una misura diveisa di

consapevolezza di quanto non faccia la vita rurale. Qui il ritmo della vita e delle immagini sensorie mentali fluisce più lentamente, più invariato e senza scosse... Il tipo umano metropolitano [invece] che esiste naturalmente in mille varianti individuali, sviluppa un organo che lo protegge dalle correnti minacciose e dalle contraddizioni del suo ambiente esterno le quali tenderebbero a sradicarlo. Egli reagisce con il cervello invece che con il cuore. Un’accresciuta consapevolezza assume il controllo della psiche. La vita metropolitana è dunque alla base, nell’uomo metropolitano, di una acuita lucidità e del predominio dell’intelligenza. La reazione ai fenomeni metropolitani è spostata su quell’organo che è meno sensibile e più remoto dalle zone della personalità » (7).

Il carattere di m aggiore astrattezza e intellettualità che Simmel rileva nella vita della grande metropoli è probabilmente verificabile empirica­ mente, ma la questione del rapporto città-campagna, ossia la questione intorno alla funzione economica, sociale e culturale della città, al ruolo della città nel processo di sviluppo non solo rispetto a se stessa e ai suoi problemi bensì anche rispetto al suo Hinterland, non può venire esaurien­ temente trattata solo a base di contrapposizioni romantiche che, per quanto suggestive, non aiutano il progredire delle nostre conoscenze, tanto meno quello delle nostre possibilità di intervento terapeutico positivo. Le pagine che Georges Friedmann dedica nel suo libro Où va le travati humam al lavoratore che si trova al bivio « fra due mondi », ossia fra il lavoro in campagna e il lavoro in fabbrica, sono pagine idilliche, che descrivono poeticamente situazioni-limite, ma di scarso valore da un punto di vista