• Non ci sono risultati.

di K u rt H . W olff

Nella più recente letteratura americana relativa alle scienze sociali, in special modo alla sociologia applicata e all’antropologia culturale, ed in par­ ticolare all’antropologia detta « d ’azion e» ( action anthropology) (1), si possono scoprire gli elementi di una nuova realtà che alcuni studiosi, come un esame approfondito dei loro scritti lascia intrawedere, sono in atto di scoprire.

Questo tipo- di realtà si rivela non soltanto in forma di dubbi rispetto ad un buon numero di idee tradizionali, di nozioni ricevute e acquisite, ma anche in forma di affermazioni nuove. Sia i dubbi che le affermazioni deri­ vano da situazioni in cui gli autori si sono1 trovati, e da esperienze avute nel corso delle loro ricerche empiriche sul campo. Potrà forse a prima vista sembrare che questi dubbi e affermazioni, essendo così particolari, non possano avere elementi comuni che promettano molta coerenza. Credo, tuttavia, che essi convergano a produrre gli elementi per la struttura di una nuova scienza sociale.

Tale struttura appare composta di tre parti, finora assai inegualmente sviluppate: 1) una concezione della scienza sociale medesima; 2) una con­ cezione della relazione tra l’ essere e il dovere; 3) un’idea rispetto alla natura della società.

I. Una concezione della scienza sociale

La nuova concezione della scienza sociale può essere individuata sottoli­ neandone sei aspetti, che riguardano rispettivamente: a) il problema della previsione; ò) l’applicabilità dello schema mezzi-fini; c) la natura dello studioso e la sua relazione coll’oggetto, o piuttosto col « soggetto » ( e coi « soggetti ») di studio; d) il relativismo culturale; e) l’atteggiamento siste­ matico e l’atteggiamento storico nei confronti delle scienze sociali ; / ) la relazione fra la teoria e la pratica.

a) La previsione. — Affrontando il problema della previsione dell’antro­

pologo che opera con le persone che nello stesso tempo studia, Tax (I) nota che questo personaggio si muove in una situazione più simile a quella

dello psicologo clinico o terapeutico rispetto al suo paziente, che non alla situazione dello scienziato in laboratorio’. Richiamandosi alla diffidenza del primo nei riguardi della previsione, sostiene che, come nella situazione clinica, così anche in quella dell’antropologo sul campo qualunque idea di previsione si traduce immediatamente in un linguaggio che esprime i sen­ timenti delle persone che partecipano’ della situazione, condivisa in un caso dallo psicologo e dal paziente, nell’altro dall’antropologo e dalle popolazioni studiate. Più precisamente, in quest’ultimo caso il linguaggio esprime « i sentimenti correnti del gruppo’ », sentimenti che costituiscono tanto’ per l’antropologo che per i soggetti una intuizione, che però non è da considerarsi quale fondamento' attendibile per un intervento pianificato. Nell atteggia­ mento clinico sostenuto da Tax, l’atto di apprendere e l’atto di aiutare rivestono eguale importanza. Perciò « mascherare una previsione incalco­ labile di probabilità da previsione assoluta... mentre tutti gli altri elementi permangono eguali, è eticamente equivoco », e d’altra parte « rimanere senz’altro soddisfatti di una previsione di probabilità, significherebbe... subordinare il fatto di aiutare al fatto di apprendere». Non si deve, cioè, contentarsi della probabilità per il fatto’ che si vuole aiutare, in quanto aiutare richiede una comprensione più sicura dei fatti rilevanti. E neppure si deve pretendere di possedere tale comprensione piena se in pratica tutto ciò che si ha è una comprensione probabile, o di ciò che è probabile. Questo significa che nell’atteggiamento sostenuto da Tax il ruolo della pre­ visione risulta ridotto in favore dell’apprendere dalle popolazioni che si vogliono aiutare, dell’aiutarle e dell’in segnare ad esse: una serie di atti che sono null’altro che gli aspetti di un processo singolo.

b) Lo schema mezzi-fini. — Questi due termini « mezzo » e « fine » , specialmente se separati e posti a contrasto, « perdono, scrive Tax (I), la m aggior parte della loro vitalità ». Noi non diciamo alle persone con le quali lavoriamo, prosegue Tax, che se facessero « A, allora X, che è ciò che desiderano, di necessità ne conseguirebbe » ; non diciamo : se vuoi rag­ giungere un determinato fine bisogna che tu agisca così e così, cioè che tu usi questo o quel mezzo’. L ’antropologo’ d azione domanda invece, mediante la parola e l’azione, alla persona con cui lavora: « V uoi questa combinazione A, X ? ». Ciò significa che, dal momento che i fini sono dati dai « soggetti » medesimi dello studio, si discutono i mezzi, ma anche gli stessi fini, perché si è visto che i due termini non sono così staccati l’uno dall’altro quanto si era creduto, o quanto ci aveva insegnato la dottrina nota soprat­ tutto attraverso il celebre discorso di Max W eber sulla « scienza come vocazione » (2), secondo il quale la scienza può insegnarci i mezzi, ma i fini mai, in quanto questi non sono « razionali » ma « arazionali », o addi­

rittura « irrazionali ». Riferisce anzi Tax che gli indiani del Nord America, da lui studiati e con i quali aveva lavorato, e forse in genere tutti gli uomini, all’inizio non sono neppure in grado di rispondere con precisione alla domanda di che cosa desiderino', e che ci sono sempre degli aspetti e delle conseguenze della combinazione A-X, dei fini desiderati e dei mezzi necessari per conseguirli, che non si prevedono, ma che invece emergono nel corso dell’azione.

c) La natura dello studioso e del suo rapporto con il soggetto di studio. -— Secondo Tax (I), l’antropologo d’azione non costruisce delle prove, bensì un « complesso di convinzioni » (« structure o f convictions »). Non costruisce, in altre parole, un sistema chiuso, dimostrabile e magari elegante, ma invece collabora ad articolare un complesso di convinzioni che emergono dalla collaborazione-esplorazione in cui lui e la gente con cui lavora si trovano coinvolti. Questo « complesso di convinzioni » non è però proprietà esoterica dello studioso, in quanto sarà sottoposta, come sempre avviene in campo scientifico, all’esame critico dei colleghi.

Quanto al rapporto dell’antropologo col soggetto del suo studio, che molto spesso coincide con « i soggetti » che egli studia, Tax (I) scrive: « La ricerca ” clinica ” nell’ambito dello sviluppo di comunità richiede in modo assoluto un clima di interazione fiduciosa e candida tra l’antropologo e la gente nei confronti della quale egli apprende ed alla quale egli dà aiuto ». Il fatto che non si tratta di oggetti o di cose, ma di persone, di uomini che, appunto divengono « soggetti », fatto che abbiamo già osservato indirettamente trattando1 della inadeguatezza dello schema mezzi-fini, si rivela allo studioso anche sotto l ’aspetto della necessità di un clima o ambiente che sia umano, non freddo, neutro, « o g g e ttiv o » .

Secondo Holmberg (I), l’antropologo che adotta il metodo dallo stesso Holmberg sviluppato nel corso della sua pratica di antropologo-, e che egli definisce come metodo di « ricerca-e-sviluppo » (in cui i due termini confluiscono in un solo processo), ha come sua « meta la realizzazione della dignità umana, fondamentale che è il diritto di ogni individuo». Anche Holmberg, cioè, concepisce le persone che studia, le cui condizioni egli intende migliorare collaborando con esse, proprio in quanto- persone. Non importa quali siano le differenze tra la loro- e la sua cultura: « la dignità umana fondamentale » è condivisa dalle- due parti, e in pratica da tutti gli uomini, prescindendo da qualsiasi differenza di cultura.

d) Il relativismo culturale. — Uno dei limiti del relativismo culturale viene messo in luce, appunto, dalla insistenza di Holmberg ( I ): « la dignità umana fondamentale» non è relativa alla cultura (anche se lo è nella sua

espressione), ma è qualche cosa che si deve sempre rispettare, promuovere, difendere e proteggere. Da un altro articolo di Holmberg (II), e così da uno scritto di Steward, appare chiaro che non è una asserzione o consi­ derazione, quale è quella della dignità umana, ma è la pratica stessa del­ l’antropologo d’azione ad imporgli, o meglio, a fargli realizzare, tale limite. Entrambi questi studiosi hanno sperimentato — e per poco che ci si pensi, ci si rende conto che la stessa constatazione deve essere condivisa dalla m aggior parte di quanti hanno esperienze del genere, poiché ci appare immediatamente plausibile — che la fattibilità, le preferenze, le alternative inerenti a determinate linee d’azione, esistono soltanto entro i limiti di problemi e principi etici ; cioè, questi ultimi senz altro escludono certe linee d’azione accettabili, o almeno immaginabili o « visibili », in altri sistemi morali. Ne segue che l’antropologo o il pianificatore sociale può prendere in considerazione determinati modi d’azione soltanto* aM interno del codice morale delle gente fra cui lavora. Il che d’altra parte vuol dire che nel corso del suo lavoro un sistema etico, anche se del tutto inarticolato sotto l’aspetto empirico, si va delineando. Sistema che sarà una sintesi tra l’etica dello studioso e quella della società che egli studia e nella quale egli opera. E questo a sua volta significa che ci viene qui indicata la possibilità di soddisfare il problema teorico di un codice etico condiviso, potenzialmente universale e universalmente vincolante: problema la cui soluzione rappresenta la meta agognata del relativista culturale; il quale per altro non ha alcuna speranza di raggiungerla, per cui talvolta si burla della possibilità stessa di una soluzione, come se si trattasse di un ideale fantastico, capriccioso, degno di un visionario. Gli articoli di Holmberg (II) e di Steward non riportano episodi di veri dilemmi etici in cui il pianificatore o l’operatore di cambiamenti sociali si siano imbattuti. Questo tipo di dilemma può certamente darsi, ma, nel caso che si presenti, l’antropologo __e non tanto il relativista quanto forse quello interessato nel cambiamento sociale — dispone di tre possibilità per affermare un codice morale. 0 riesce ad articolare la sintesi, cui si è accennato, tra la propria etica e quella dei suoi « soggetti » ; o si sente abbastanza forte nella propria convinzione da persuadere coloro con i quali lavora; o, infine, si sente abbastanza aperto* da poter essere da loro persuaso. In tutti e tre i casi, il dilemma è risolto. E se ne può trarre che il relativismo culturale non ha visto con sufficiente chiarezza ciò che tutti gli uomini hanno in comune (e che quindi, per definizione, non è relativo), oppure non vi ha prestato fede: per ragioni che, a loro volta, si possono ritrovare nella cultura in cui il relativismo culturale stesso è nato ed è cresciuto, la cui analisi, però, uscirebbe dal tema che si sta qui trattando.

e) L ’atteggiamento sistematico e l’atteggiamento storico. — La nettezza

della distinzione tra questi due atteggiamenti è posta anch’essa in dubbio dalla nuova realtà che gli studiosi citati hanno incontrato, e dalla essenza stessa del loro incontro. Proseguendo nella lettura di Steward ce ne ren­ deremo conto. Steward sugerisce che « il problema deH’individuazione di tendenze acculturative e della previsione circa il delinearsi di tipi sub- culturali » venga inteso come interazione fra le seguenti tre variabili : a) la « cultura tradizionale », o linea di base dalla quale si calcola il cam­ biamento ; 6) i processi di cambiamento che prendono origine in una cultura che va caratterizzando il mondo industriale; c) il contesto specificamente regionale, nazionale o internazionale entro il quale i processi operano, producendo una varietà di tipi locali o sub-culturali.

E mentre gli « effetti acculturativi locali » possono differenziarsi, i « processi di acculturazione generati dalla cultura industriale sono dapper­ tutto straordinariamente simili », e possono essere previsti « in termini di processi, non come il delinearsi di classi specifiche di sub-culture ». Tali processi « seguono una successione di fasi piuttosto ordinata, ognuna delle quali presuppone sviluppi antecedenti ». Sottolineando in questi termini che è possibile ottenere la conoscenza di processi, e non invece la cono­ scenza di culture particolari, Steward sembra esprimere fiducia nella forma piuttosto che nel contenuto, nella sistematicità piuttosto che nella storia: 0 forse si tratta più di una aspirazione che non di fiducia, In ogni modo, però, importa di osservare che la costellazione medesima delle tre variabili da cui tale conoscenza può essere derivata, è assai particolare, ed è eminen­ temente storica. Infatti le prime due variabili sono culture specifiche, la « cultura tradizionale, o linea di base dalla quale si calcola il cambiamento », e la « cultura che va caratterizzando il mondo industriale » ; e la terza è altrettanto particolare, rappresentando il contesto concreto « entro il quale 1 processi operano, producendo una varietà di tipi locali o sub-culturali ». E non basta : il fatto stesso che i « processi di acculturazione generati dalla cultura industriale [la seconda variabile] sono dappertutto straordi­ nariamente simili », riflette anch’esso un’osservazione storica: che, cioè, ci troviamo in tempi in cui questa osservazione è valida, in cui, in altre parole, abbiamo, almeno rispetto airindustrializzazione, un mondo solo invece di più mondi.

L’articolo di Steward suggerisce, quindi, la possibilità che vi sia un’altra caratteristica dell’antropologo d’azione o del pianificatore sociale che lo distingue dallo scienziato sociale tradizionale: la possibilità della revisione della distinzione, nelle scienze sociali, tra metodo sistematico inteso come formalistico, e metodo storico inteso come contenutistico. Revisione che potrebbe forse essere formulata dicendo che la generalizzazione o sistema­

tizzazione migliore si fonda su di una diagnosi storica della cui necessità sia conscio* chi opera la generalizzazione, e che da questi venga condotta in modi al massimo espliciti.

f) La teoria e la pratica. — L ’antropologo d’azione e lo studioso di

cambiamenti sociali non tentano di scoprire ciò che c’è da scoprire senza parteciparvi, senza esserne coinvolti, con distacco. Cercano, al contrario, di scoprirlo nell’atto in cui agiscono, e agiscono nell’atto in cui tentano di scoprire. Ciò vuol dire che due distinzioni fondamentali nella tradizione delle scienze sociali non permangono valide: in primo luogo, la distinzione tra teoria e pratica e, in particolare, tra scienza accademica e scienza applicata ; in secondo luogo e in relazione alla prima, la distinzione tra

l’essere, che si soleva considerare dominio esclusivo dello scienziato (cfr.

più sopra la discussione dello schema mezzi-fini), e il dovere, che si soleva considerare territorio a lui precluso. La revisione di questa seconda distin­ zione, però, in contrasto alle revisioni finora accennate, non è limitata alla concezione e alle pratiche delle scienze sociali, ma tocca anche concezioni per tradizione considerate filosofiche: soprattutto* quelle che si riferiscono alla natura dei « fatti » e dei « valori » e ai loro rapporti, alla realtà dei fatti e alla loro portata etica, alla scienza e alla moralità, alle proposizioni empiriche e ai giudizi di valore: cioè, appunto*, all’essere e al dovere. Di ciò si può in questa sede soltanto dar cenno*, tanto* per giustificare il fatto che la revisione del rapporto* fra l’essere e il dovere sia trattata in un paragrafo a parte, e non come un altro aspetto sotto il quale tracciare la nuova concezione della scienza sociale medesima, così come si va deli­ neando.

II. Il rapporto tra l’ essere e il dovere

Si deve intanto ricordare che la revisione di questo rapporto viene qui osservata prendendo inizio dall’ esperienza sul campo, non diversamente dalle altre revisioni fin qui trattate. Ci riferiam o ancora una volta innan­ zitutto agli scritti di Holmberg (II) e Steward in cui si tratta dei cambia­ menti sociali programmati cui essi hanno partecipato. Non si tratta, essi in pratica dicono, del fatto che i problemi del dovere, cioè normativi, non si presentino nel corso* dello studio, ma che essi si presentano* come questioni di fattibilità, di preferenza, di alternativa, cioè come questioni pratiche le cui soluzioni si ottengono, o almeno* si spera di poter ottenere, mediante l’intelligenza, la conoscenza, rimmaginazione, ma non per mezzo di decreti morali. In altre parole — e sono le parole già usate a proposito dei limiti del relativismo* culturale, messi in luce da questi stessi autori — i problemi

etici operano per fissare i limiti entro i quali fattibilità, preferenze, alter­ native, possono emergere. E se tutto ciò e vero, ci troviamo allora di fronte a quell’altra caratteristica dello scienziato sociale cui già si è accennato, cioè la possibilità di operare una revisione nei confronti del relativismo culturale, il quale costituiva finora un tratto della più recente scienza sociale e in special modo dell’antropologia culturale.

E c’è di più : almeno alcuni antropologo dice Lisa Peattie, « sentono in qualche modo un obbligo di a g ir e » quando si trovano di fronte al « razzismo nazista, alle misure governative verso l’indio americano, alla segregazione razzista nelle scuole », e così facendo « in pratica traggono deduzioni di valore dalla loro scienza, e le traggono persino quando insistono sull’impossibilità logica di farlo ». Analogamente Tax (II) abbraccia insieme verità e libertà, non trovando tra esse alcuna contraddizione; e più in generale, egli ritiene giusto « non decidere in merito a questioni di valore a meno che non ci riguardino » : è nell’azione che bisogna affrontare e cercar di risolverle. E Holmberg (I) a sua volta sositene che « i tratti della natura umana sono tali da consentire di muovere verso la realizzazione della dignità umana ».

III. La natura della società

Negli scritti in questa sede analizzati, le indicazioni riguardanti questo terzo aspetto della nuova realtà e del nuovo atteggiamento di fronte ad essa, sono le più scarse: all’inizio del paragrafo che segue si suggerirà qualche spiegazione in proposito. Tuttavia, gli elementi per una revisione nei confronti della concezione della società ci sono, e più precisamente sono due, l’uno più specifico, l’altro più generale.

L’ elemento più specifico riguarda la revisione della dicotomia redfield- iana (3) di società primitivo-rurale (folk society) e società urbana. Questa dicotomia appartiene al tipo di dicotomie proprie deH’800 e del ’900, che dividono la società in due tipi. Da parte di alcuni autori si asserisce, più o meno esplicitamente, che un tipo è il predecessore storico dell’altro; altri si limitano a concepire entrambi i tipi in senso morfologico piuttosto che storico. Lasciando da parte questa distinzione, basti citare, fra i più noti, Herbert Spencer (società militare e società industriale), Emile Durk­ heim (società meccanica e società organica), Ferdinand Tonnies (Gemein-

schaft e GeseUschaft) e, appunto, Robert Redfield. Fra le caratteristiche

della società urbana c’è, per Redfield, rimportanza della scelta razionale nel comportamento degli individui di cui tale società è composta, e, cor­ rispondentemente, fra le caratteristiche della società primitivo-rurale, la relativa assenza della scelta, e la prevalenza, invece, del comportamento

tradizionale o abituale. Contrasto simile si trova in quasi tutte le dicotomie del genere, comprese quelle citate. Tax (I) a questo punto, osserva 1 impor­ tanza della « scelta » presso la società dei Mesquakie (indi Fox, Iowa Cento.), che per altri aspetti è una società del primo tipo. Egli si domanda, perciò, se sia giusto fare della scelta una caratteristica della società urbana, e ascrivere la sua relativa assenza o non-importanza ad altri tipi di società. Tax, cioè, solleva una questione che appunto si riferisce alla veridicità o appropriatezza della dicotomia redfieldiana. E ci si potrebbe spingere oltre, domandandosi se la tendenza a dicotomizzare la ston a e a porre se stessi e la società in cui si vive nel secondo tipo, sia veramente così scientifica quanto lo credono i dicotomisti, o non contenga anche un elemento ideologico, di celebrazione, cioè, del progresso dal primo al secondo tipo; anche se questa celebrazione può essere accompagnata dalle appren­ sioni nei confronti del secondo tipo di società, il cui esempio più noto e forse quello di Durkheim rispetto alla « anomia » che egli vide nella stessa « società organica » in cui visse e della quale celebrò la complessa divisione

del lavoro. .

Più in generale, l’antropologia d’azione aggiunge alla antropologia tra­ dizionale « un interesse più vivo nel processo » (Tax, I) e nella dinamica

(Peattie). Il suo oggetto primario di studio è il cambiamento sociale, osserva Barnett, anche se essa sa che il cambiamento ha 1 suoi limiti, segnati dalla resistenza quando esso minaccia « l a morte sociale» e la violazione di certi « valori ». Il nuovo antropologo vuole studiare le comunità mediante il « metodo che mira a dar aiuto » (Tax, I) ; e qui si m traw ede la tendenza a ricostruire o a fa r emergere il concetto stesso di comunità e, su scala maggiore, di società, in base all’esperienza o alla pratica, invece di accettarlo tale quale è stato sviluppato in precedenza ed è depositato nei libri degli studiosi.

IV. Conclusioni e cenno ad altri problemi

Quali sono gli elementi di questa nuova realtà e della concezione di essa?