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La sociologia com e form a d’arte

di Robert A . Nisbet

Sono pronto a riconoscere che, sia per temperamento che per formazione culturale, sono sempre stato più portato ad interessarmi alla parte non utilitaria della nostra disciplina che non alle sue utilizzazioni. Confesso inoltre di credere che il valore di una teoria si misura non soltanto dalla sua estensione, ma anche dalla sua profondità di penetrazione, dalla sua importanza come dalla sua validità, dalla sua eleganza come dalla coerenza con l’ evidenza dei fatti. Credo soprattutto* e mi pro­ pongo di dimostrarlo — che la scienza sociologica compie le sue più importanti conquiste intellettuali sotto la spinta di stimoli e attraverso processi che condivide largamente con l’arte e che, quali possano essere le differenze tra scienza e arte, è quello che hanno in comune che conta di più ai fini sia della creazione artistica che della scoperta scientifica. Niente di quanto io possa dire vuole implicare che la sociologia non è una scienza. Non avrei difficoltà, ai fini della nostra discussione, a mettere la sociologia sullo stesso piano della fisica e della biologia e ad estendere ad entrambe queste scienze la sostanza delle mie consi­ derazioni sulla sociologia. Si, la sociologia è certamente una scienza, non meno della biologia, non meno della fisica, ma ciascuna è nello stesso tempo una forma d’arte, ed è pericoloso dimenticarsene: la scienza potrebbe andar perduta e ci si potrebbe ritrovare con il pugno di polvere deirempirismo e del narcissismo metodologico, tanto lontani ■—■ l’uno e l’altro — dalla scienza, quanto l’arte è lontana dalla pubblicità dei cartelloni.

Il mio interesse per la sociologia come form a d arte e stato di recente stimolato da alcune riflessioni su quelle idee che, per generale consenso, rappresentano quanto di più originale la sociologia abbia apportato al pensiero contemporaneo. Mi riferisco ai concetti d i: società di massa,

alienazione, anomia, razionalizzazione, comunità, disorganizzazione. Di questi

concetti e dei loro contesti dovremo in seguito riparlare un po’ più diffu-Titolo originale: Sociology as an Art Form. Pubblicato inizialmente in «Pacific Sociological Review», voi. 5, n. 2, 1962; ristampato in Sociology

on Trial, a cura di Maurice Stein e Artur Vidich, Prentice-Hall, Englewood

samente. Per ora basterà sottolineare come ognuna di queste idee abbia avuto durevoli effetti sulla sociologia, sia teoretica che sperimentale, e come tutte abbiano esercitato notevole influenza in altri campi del pensiero sia scientifico che umanistico.

Ha colpito la mia attenzione il fatto che non una di queste idee è, storicamente, il risultato di quello che oggi ci si compiace di definire metodo sicentifico. Se esistono delle prove che una qualsiasi di queste idee — quali si trovano espresse per la prima volta negli scritti di uomini come Tocque­ ville, Weber, Simmel e Durckheim •—■ è il risultato di un pensiero teso alla soluzione di un problema, in un rigido e consapevole procedere dal quesito all’ipotesi e alla conclusione verificata, si tratta di prove che io sono stato assolutamente incapace di scoprire. Al contrario, tutto sembra indicare che queste idee così profonde e ricche di linfa vitale siano state raggiunte, ogni volta, attraverso processi mentali tipici dell’artista molto più che dello scienziato, così come oggi comunemente lo si concepisce. Sta di fatto che non si vede in quale altro modo, se non attraverso processi d’intuizione, di impressione, di « iconic imaginatìon » (l’espressione è di Herbert Read) e perfino di oggettivazione, una sola di tali idee avrebbe potuto nascere e dar vita, di generazione in generazione, al pensiero e alla dottrina che ad esse hanno fatto seguito.

Ammesso che questa conclusione trovi il minimo credito, ci sarà certa­ mente chi ne sarà turbato come da un’ombra infamante gettata sulla memoria di avi venerati. Per qualcuno sarà quel che sarebbe per un bambino lo scoprire improvvisamente che suo padre è un membro della « John Birch Society » o che la famiglia di sua madre ha fornito materia di studio a un Lombroso. Potrà addirittura avere lo stesso sapore che avrebbe, per un fedele, una gratuita dimostrazione delle origini totemistiche del cristianesimo, con cui un antropologo venisse ad interrompere la messa di Pentecoste, al momento della Comunione. Ma non è il caso di prolungare questa divagazione su uno degli aspetti particolari del nostro problema. Soffermiamoci piuttosto per un momento su una questione di fondo e di ben più vasta portata: l’abitudine di considerare la scienza come qualcosa di sostanzialmente e psicologicamente diverso dell’arte.

Si tratta di un’abitudine profondamente radicata, ma tutt’altro che universale nella storia del pensiero. Basta risalire fino al Rinascimento per trovare un’età in cui scienza e arte erano universalmente considerate manifestazioni di uno stesso spirito creativo. E ’ risaputo che Leonardo da Vinci sentiva i suoi dipinti e le sue geniali opere di meccanica e di fisiologia come arte e scienza insieme. Non solo la qualità, ma i prodotti stessi del suo pensiero, quale ne fosse il campo, non sembravano presentare differenze significative. E tre secoli più tardi Goethe sentiva allo stesso modo : non immaginava affatto che il suo pensiero avesse un dato carattere

quando scriveva il Faust e un carattere del tutto diverso durante le sue interessanti incursioni nel campo della botanica e della geologia. Nell’Il- luminismo come nel Rinascimento, una radicale distinzione fra scienza e arte non sarebbe stata concepibile. Quando avvenne il cambiamento che produsse nell’artista e nello scienziato una self-consciousness così simile a quella di Adamo ed Èva dopo la caduta? Come non pochi dei mali che ci affliggono, anche questo ebbe origine nel diciannovesimo secolo.

A partire dal rivolgimento sociale che prese le mosse dalla Rivoluzione francese e in intimo rapporto con l’evolversi dei processi di divisione del lavoro introdotti dalla rivoluzione industriale, troviamo nel dicianno­ vesimo secolo una crescente tendenza a giudicare che l’artista e lo scien­ ziato operano in modi che non soltanto si escludono a vicenda, ma sono in opposizione gli uni agli altri.

Alla fine del diciannovesimo secolo era ormai maturata la concezione secondo cui la creazione artistica scaturisce da un misterioso processo chiamato genio o ispirazione, mai attraverso una tecnica o una elaborazione dell’esperienza. Lo si vede chiaramente nel Romanticismo e meglio ancora nello spirito fin de siècle. A questo clichè se ne abbinava un altro di non minore importanza : quello secondo cui non la verità, ma la bellezza è l’unico interesse dell’artista — una bellezza fuori del tempo, fuori della realtà. Ed entrambe queste concezioni convergono in un’unica, rovinosa, malaugurata visione del ruolo dell’artista nella società. Ben lungi dal riconoscere la propria derivazione diretta e la propria dipendenza dalla società, l’artista romantico si compiaceva di approfondire l’abisso che lo separava dalla società e cercava in solitarie evasioni quel rimedio al dolore che i suoi progenitori del Medioevo e del Rinascimento avevano trovato nel sodalizio umano e nella socialità degli intenti. Il suo rifiuto del mondo che la rivoluzione industriale aveva creato era totale.

Ma, mentre l’arte subiva questo processo di mitizzazione, la scienza soccombeva ad un mito di tipo opposto e di pari influenza sulla immagi­ nazione popolare. Questa volta il mito non era più quello dell’ ispirazione, ma quello del metodo. Si tratta — anche in questo caso, come in quello dell’arte — di un fenomeno da mettere in rapporto con la rivoluzione industriale. Ma mentre l’arte era rifiutata su tutta la linea dalla nuova società industriale, la scienza ne fu praticamente assorbita. L ’ industria cominciò ad impadronirsi della tecnica e la tecnica ad impadronirsi della scienza e a renderla non più quello che per secoli era stata, una attività dello spirito che osserva e riflette, ma una professione governata da regole e criteri utilitari, proprio come il diritto, l’ ingegneria e la medicina.

In Europa come in America, le nuove università dettero alla scienza un enorme impulso, ma si trattava soprattutto di scienza applicata e non di scienza pura. Negli Stati Uniti, la fondazione e la diffusione dei

Land Grant College®, con il loro indirizzo dichiaratamente ed esclusiva- mente professionale, fu un primo importantissimo passo verso l’ identifi­ cazione della scienza con l’industria e raffermarsi del pregiudizio che la scienza sia, come l’ industria e proprio all’opposto dell’arte, un’attività utilitaria. Le « arti meccaniche » furono per parecchie generazioni di americani il prototipo di tutto quanto è scientifico e ad esse fu improntato il tipo di scienza che conquistò il maggior numero di cultori e il maggiore prestigio. Il tipo ideale dello scienziato fu impersonato, da un capo* all’altro degli Stati Uniti, da Thomas Edison, mentre un fisico-matematico come Willard Gibbs passò del tutto inosservato.

Gradualmente, si diffuse l’ idea che la scienza, al contrario dell’arte, scorre lungo gli stessi sistematici e metodici binari della legge, della medicina, dell’attività finanziaria e commerciale. L’elemento determinante •— si pen­ sava — non è la libera osservazione, l’intuizione o l’immaginazione, ma la rigida osservanza della procedura. Le macchine nelle fabbriche stavano a provare come tutto quanto era stato monopolio dell’abilità e dell’espe­ rienza di singoli artefici potesse essere trasferito dall’uomo alla tecnologia e l’ ingegno umano potesse diventare un articolo voluttuario. Il metodo non ha forse le stesse caratteristiche della macchina? Non è forse possibile valersene allo stesso modo? Parecchie generazioni di americani lo hanno ritenuto possibile e in tutte le scuole e le università folle di studenti hanno sgobbato accanitamente ad imparare il cosiddetto metodo scientifico, e non come ausilio ma, ahimè, come sostituto del ragionamento.

Non c’è davvero di che meravigliarsi se la scienza americana, caratte­ rizzata com’era su tutta la linea da una simile schiacciante metodicità e praticità, ha continuato per tanto tempo ad essere degnata di così scarso rispetto da parte degli Europei. Si può, in generale, sostenere senza tema di smentita che se non fosse stato per gli istituti europei a cui gli americani affluirono sempre più numerosi per i loro studi post-universitari e che permisero loro di farsi un’ idea più esatta di quello che è la scienza, la cultura scientifica americana non sarebbe mai riuscita ad erompere fuor del guscio della sua mediocrità utilitaristica. E ’ vero che anche in Europa e specialmente in Inghilterra non sono mancati scienziati di mentalità molto simile a quella americana, i quali hanno fatto della scienza una professione assoggettata e limitata dai regolamenti e dalle tecniche. Ma in Europa, dove la tradizione umanistica, radicata in un passato ben più antico, di molto anteriore all’avvento della democrazia industriale, era assai più forte, in quell’Europa dove un grande spirito come Faraday poteva rifiutare di qualificarsi fisico ed ambire piuttosto alla qualifica di filosofo, e dove un tale atteggiamento poteva essere capito e apprezzato, la scienza correva molto minor pericolo di impantanarsi in un immitigato metodo* logismo e tecnicismo.

La frattura fra arte e scienza avvenuta nel diciannovesimo secolo non è soltanto una questione di interesse storiografico. La sua conseguenza più nefasta è la convinzione, tuttora ampiamente perdurante nelle aule scolastiche e nei laboratori, che non soltanto i processi mentali, ma gli obiettivi stessi della scienza e dell’arte siano diversi. Portata alle estreme conseguenze, questa teoria insegna che quanto riguarda la realtà è di interesse esclusivo della scienza; che la funzione dell’arte è semplicemente quella di titillare i sensi in una specie di oziosa ricerca del decorativo e del gradevole alla vista.

Nulla potrebbe essere più lontano dal vero. Qualsiasi forma d’arte, se è seria, sia che si tratti di narrativa, di poesia o di pittura, si occupa anzitutto e soprattutto della realtà. Il suo scopo è far luce sulla realtà e diffondere in qualche modo questa luce. E questo, essenzialmente, è quello a cui anche la scienza mira, in netto contrasto con la tecnologia. Non esito a sostenere che Picasso. ed Einstein hanno in comune — quanto a scopi, .ispirazione e mezzi espressivi •— molto più di quanto lo stesso Picastso abbia in comune con un disegnatore di fumetti, o di quanto Einstein abbia in comune con uno. qualsiasi dei tanti stolidi mestieranti di quello che Whitehead ha definito una volta « empiricismo strapesano». L ’artista e lo scienziato sono1 mossi entrambi dal desiderio appassionato di capire, interpretare e comunicare al resto del mondo quanto sono riusciti a capire.

L’artista — proclamiamolo a gran voce — non si interessa del deco­ rativo ed è soltanto perché gli pseudo-artisti hanno operato come se la decorazione, la fatua reminiscenza, il compiacimento dell’occhio, fossero le più alte mete dell’arte, che molti si trovano oggi ad accettare o rifiutare l’opera d’arte a seconda che sia bella a vedersi o no. Certamente, 1 arte può essere bella, ma non fa della bellezza il suo principale obiettivo. Allo stesso modo, anche la scienza può essere bella, non dimentichiamolo; eppure nessuno sarebbe disposto a credere che la conquista della bellezza possa anche per un matematico, per esempio, essere il principale motivo ispiratore.

« L’essenza dell’arte — scrive Herbert Read — va ricercata, non nella produzione di oggetti utili a soddisfare bisogni materiali, non nell’espres­ sione di idee religiose o filosofiche, ma nella sua capacita di creare un mondo unitario e coerente che non è quello dei bisogni o dei desideri materiali né quello dei sogni e della fantasia, ma che di entrambi contiene e concilia le contraddizioni; un mondo che è una rappresentazione convin­ cente della totalità dell’esperienza umana, un modo di captare e fissare la percezione individuale di uno degli aspetti della verità universale. In tutte le sue attività essenziali, l’arte mira a trasmetterci un messaggio: sul­ l’universa, sulla natura, sull’uomo, sull’artista stesso... è soltanto quando abbiamo riconosciuto l’arte come una form a di conoscenza che si affianca

a tutte le altre possibili forme di conoscenza del mondo che ci circonda, che possiamo cominciare a capire il suo significato nella storia dell’uma­ nità » (1).

All’interesse dell’artista per la form a corrisponde nello scienziato l’in­ teresse per la struttura. Nell’uno come nell’altro, l’aspirazione dominante è vedere e capire. L ’uno e l’altro operano sperimentando e sforzandosi di rendere chiara ad altri la loro intuizione, attraverso uno stile o una strut­ tura formale la cui conquista esige delle abilità tecniche. Val la pena di ricordare che la parola « teoria » deriva dalla stessa radice greca da cui deriva la parola « t e a t r o » . Il suo significato primario è guardare con attenzione, contemplare, speculare. E ’ un significato associabile con quello della parola « immaginazione » che — letteralmente — esprime il processo di assimilazione del mondo esterno ad un’ immagine interiore tenacemente custodita dall’intelletto. Arte e scienza, insomma, derivano entrambe dalla capacità di distaccata contemplazione e dal potere di sottrarsi a qualsiasi cosa possa vincolare la libertà di spirito. La loro essenza scrive San­ tayana — « è la ferma contemplazione dell’ordine e del valore delle cose ». In verità, scienza e arte hanno avuto nella più gran parte della storia dell’umanità profondi e importanti legami culturali. Eugene Rabinowitch, il ben noto chimico e critico della scienza, ha recentemente scritto delle parole che meriterebbero di essere esposte nelle sedi di tutti i luoghi in cui si diffonde il sapere :

« L’evoluzione dell’intelletto umano è un unico processo che si manifesta in una varietà di form e e, con intensità, chiarezza, ritmo diversi, si rivela così nell’arte come nella scienza, nella filosofia, nella scienza politica e in quella sociale. E ’ come una fuga o un oratorio in cui i diversi strumenti musicali e le diverse voci si inseriscono ciascuna a suo turno. La voce dell’artista è, il più delle volte, la prima a farsi sentire. L ’artista è il più sensibile fra tutti i tipi di persone umane. La sua sensibilità ai cam­ biamenti, la sua percezione delle novità imminenti, è nettamente più acuta di quella dello scienziato, il cui pensiero procede più grave e lento e razio­ nale. E ’ nella produzione artistica piuttosto che nel pensiero filosofico di un dato periodo che si debbono ricercare le ombre che gli eventi proiettano innanzi a sé, le profetiche premonizioni del futuro. Non parlo di predizioni particolari, ma della manifestazione, nel quadro della produzione artistica, di atteggiamenti spirituali che in altri campi di attività umana faranno la loro visibile apparizione soltanto in un secondo tempo. I segni precursori di un crollo dell’ordine stabilito, del sistema di valori generalmente accet­ tato, dovrebbero dunque essere riconoscibili — e spesso lo sono — in una rivolta contro i valori e i canoni che si erano imposti alla creazione artistica; una rivoluzione nel mondo dell’arte apre la via alla rivoluzione nel mondo sociale » (2).

La storia dell’Occidente ha ripetutamente dimostrato che queste parole dicono il vero. Gli storici dell’Europa antica e moderna hanno messo in evidenza questa funzione di guida svolta dall’arte e sottolineato come le concezioni dell’uomo che la scienza e la filosofia hanno di volta in volta introdotto nel mondo della cultura siano state precedute da immagini del­ l’uomo apparse per la prima volta nel dramma, nel sonetto, nella pittura, nella scultura. Fu molti anni fa, mentre percorrevo la galleria degli Uffizi a Firenze, che questa verità mi si rivelò per la prima volta in tutta la sua luce. Da una sala all’altra e da un periodo all’altro, il processo storico dell’evolversi dell’ immagine dell’uomo nell’Europa occidentale può essere seguito passo passo: dalle spirituali, mistiche e trascendenti raffigurazioni dei Prim itivi italiani, attraverso espressioni di transizione in cui il divino e l’umano entrano in parti uguali, alla decisa umanità, autosufficiente e trionfalmente terrena degli uomini e delle donne del Rinascimento e del Barocco. E ’ una evoluzione che precede chiaramente l’analogo processo di trasformazione delle idee filosofiche e scientifiche. Fu l’arte che con la sua rapida, inclusiva, iconica visione, gettò un ponte fra l’ascetismo e il principio unificatore medioevale e il moderno umanesimo, fra i problemi dell’universo e l’appassionante problema dell’uomo nelle sue relazioni con gli altri uomini e con i valori umani.

Fu proprio con il Rinascimento — e che altro fu il Rinascimento se non una concezione dell’uomo come opera d’arte e della società come opera d’arte? — che lo spirito moderno si affermò. Questa concezione è stata poi modificata in una infinita varietà di modi, ora sublimata e ora volgarizzata, ora resa tragica e ora banale, a volte nobilitata, a volte avvilita; ma nella sua essenza rimane ancora quella che era in Italia alla fine del quattordicesimo secolo. Sia che l’obiettivo fosse la costruzione di una cat­ tedrale, il disegno di un arazzo o il piano di un viaggio al Cathay, la fo r­ mazione di una corporazione o quella di uno stato sovrano, l’uomo del Rinascimento guardava al mondo che lo circondava dal punto di vista privilegiato deH’artista-seienziato, non come qualcosa da venerare né come qualcosa da manipolare, ma da capire e dominare, non diversamente da come Michelangelo dominava il marmo o Marco Polo la via delle Indie.

I problemi e le soluzioni che stanno al centro stesso della cultura moderna non si debbono a coloro che si adoperano per essere « Utili » alla società, ma ai « Visionari » che, assorti in contemplazione, non sanno dove vanno e appunto per questo vanno più lontano. Fu una stessa passione per la realtà e per la possibilità di comunicarla ad animare e travagliare sia Michelangelo che Machiavelli, fino a trovare superba espressione nel David e nello stato rinascimentale, opere l’ uno e l’altro dell’artista-scienziato.

Le basi dell’affinità fra l’artista e lo scienziato sono psicologiche e spirituali, come il matematico Marston Morse ci ha detto : « L’ intimo

rapporto che intercorre fra la matematica e l’arte deriva essenzialmente dal fatto che la scoperta matematica non è questione di logica. E ’, piuttosto, il risultato di forze misteriose che nessuno può capire e in cui l’ inconscio riconoscimento della bellezza deve avere una parte importante. Il mate­