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Il cammino della scienza giuridica e la crisi d’identità del giu rista

CAPITOLO SECONDO: Il dibattito

1. Il cammino della scienza giuridica e la crisi d’identità del giu rista

Uno dei primi elementi sui quali ricade l’attenzione e la curiosità del lettore in quella prima Introduzione ai due volumi del Convegno di Catania84, redatta da Barcellona stesso, è proprio il seguente: la per- cezione del senso di frustrazione del giurista, della sua perduta iden- tità, in un’epoca di grandi trasformazioni economico-sociali.

Tuttavia non si tratta solo di una crisi personale e intima, ma di una crisi che investe il metodo utilizzato dalla scienza giuridica e, conte- stualmente, il ruolo tradizionalmente svolto da quel ceto professio- nale che suole dirsi ceto dei giuristi.

Si comprende, in tal modo, perché l’Autore stesso ritenga che “fare la storia del convegno”, e quindi chiarire quali siano le condizioni oggettive e soggettive che ne hanno consentito lo sviluppo, significa innanzitutto “fare la storia della crisi della mediazione giuridica” in- tesa in senso tradizionale e del ruolo solitamente svolto dai giuristi. Ma Barcellona decide di non trattare in maniera esaustiva questo tema, o quanto meno, non in quest’opera85 e rinvia all’intervento di

Giovanni Tarello86.

84 P. Barcellona, Introduzione a L’uso alternativo del diritto, op. cit., vol. I, pp. V ss.

85 A tale proposito il rinvio è a P. Barcellona, G. Cotturri, Stato e giuristi tra cri- si e riforma, Bari, De Donato Editore SpA, 1974.

86 G. Tarello, “Orientamenti della magistratura e della dottrina sulla funzione po- litica del giurista-interprete”, in L’uso alternativo del diritto, op. cit., vol. I, pp. 61 ss.

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In effetti Tarello svolge un’attenta ricostruzione del cammino per- corso dalla scienza giuridica, la cui trattazione viene da lui stesso configurata come un’introduzione storica al tema svolto, sotto il profilo dell’attualità e dal punto di vista specifico di MD, da Ferra- joli87.

Inevitabile riprenderne alcuni aspetti salienti, per comprendere la crisi d’identità in questione e la soluzione offerta dal programma “alternativo”.

Ma prima di fare ciò e prima ancora di chiarire che cosa si debba in- tendere per “scienza giuridica” (o addirittura per “scienza”), occorre rinviare alla definizione propostaci da Ferrajoli sul concetto di “cul- tura giuridica”; concetto con il quale si apre l’opera da lui dedicata proprio a tale tema: “La cultura giuridica nell’Italia del Novecen- to”88. Egli individua tre livelli di cultura giuridica: la cultura giuridi-

ca intesa come complesso di saperi e atteggiamenti propri dei giuri- sti e dei filosofi; come complesso di ideologie e modelli di giustizia e di sapere propri degli operatori giuridici di professione; infine co- me complesso di conoscenze che costituiscono il senso comune dif- fuso e operante tra gli utenti in una determinata società.

Tra il diritto positivo e la cultura giuridica, in tutti e tre i suoi livelli, esiste un rapporto di reciproca e stretta interazione, in quanto il di- ritto viene inteso come un complesso linguaggio, che non solo è l’oggetto dell’interpretazione ma anche il prodotto stesso della cul- tura giuridica. Proprio questo rapporto svela il ruolo determinante, ma al tempo stesso trascurato, svolto dalla scienza giuridica, attra- verso quelle che Ferrajoli stesso definisce le “immagini” dello Stato e del diritto da essa formulate nell’evolversi delle istituzioni e delle ideologie ivi presenti.

Si intende sottolineare, a tale proposito, che la scienza giuridica, rectius la intera cultura giuridica, ha da sempre svolto un ruolo poli- tico89 nella formazione di tali immagini, ma in maniera segreta, in-

87 L. Ferrajoli, “Magistratura democratica e l’esercizio alternativo della funzione giudiziaria”, in L’uso alternativo del diritto, op. cit., vol. I, pp. 105 ss.

88 L. Ferrajoli, op. cit., pp. 5 ss.

89 Questa funzione viene evidenziata, in modo esplicito o meno, da tutti coloro che intervennero al Convegno di Catania. Per un esempio di riferimento esplicito si veda la relazione di E. Spagna Musso, “Note per una discussione organica sul-

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dipendentemente dal fatto che ne fosse consapevole o meno. Ma vi è di più, perché l’Autore stesso osserva come tale ruolo risieda, ap- parentemente in maniera paradossale, in una “doppia operazione di spoliticizzazione”90, compiuta dai giuristi a partire dalla seconda

metà dell’Ottocento e che attiene sia al loro oggetto d’indagine, os- sia dello Stato e del diritto, sia al loro stesso lavoro in qualità di giu- risti.

Con riferimento al primo aspetto, ne deriva la teorizzazione di una apparente neutralità e apoliticità del diritto e dello Stato, mentre con riguardo alla dottrina giuridica ne risulta la sua qualificazione come scienza tecnica e avalutativa.

Questa doppia operazione di spoliticizzazione, nei suoi due assunti, costituirà il dato costante e identificativo della cultura giuridica per lo meno sino agli anni sessanta del secolo scorso, anni nei quali si produrrà quella crisi d’identità cui fa riferimento Barcellona.

Entrambi questi assunti hanno una origine storica ben precisa. Infat- ti si collocano nell’ambito del liberalismo ottocentesco il quale si contrappone, secondo l’ottica dei teorici dell’uso alternativo del di- ritto, al pensiero liberale illuminista, ponendosi non più il problema della giustificazione del diritto e dello Stato, considerati come “arti- fici” da costruire in opposizione alle vecchie istituzioni dell’ancien regime, ma il problema esattamente opposto della difesa e conser- vazione dell’ormai già costituito Stato liberale borghese contro le nuove classi emergenti, considerate da questi “pericolose”. La bor- ghesia, una volta attuata la rivoluzione e divenuta la classe al potere, si sostituisce semplicemente alla classe egemone precedente, dive- nendo garante della nuova immagine di stato instauratovi, con tutti i principi e diritti liberali connessi. Dell’Illuminismo viene quindi ro- vesciato il postulato principale, ossia l’artificialità del diritto e dello Stato, sostituendolo con l’idea della loro naturale e spontanea origi- ne ed evoluzione e anche della loro autonomia evolutiva rispetto ai mutamenti politico-istituzionali propri di una data società. Questo processo di “naturalizzazione” ha un suo preciso referente storico, ossia il modello tedesco della Scuola storica del diritto91 e del suo

la utilizzazione politica del diritto”,in L’uso alternativo del diritto, op. cit., vol. I, pp. 49 ss.

90 L. Ferrajoli, La cultura giuridica nell’Italia del Novecento, op. cit., pp. 7 ss. 91 L. Ferrajoli, La cultura giuridica nell’Italia del Novecento, op. cit., p. 8.

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celebre fondatore Friedrich Carl von Savigny92, e anche una sua

versione italiana d’importazione, ossia la Scuola Pandettistica, dal titolo dell’opera di Samuel Stryk, “Usus modernus pandectarum”, pubblicata in Germania tra il 1690 e il 1710. Secondo quest’ultima, il diritto si identifica non con le leggi e, soprattutto, non coi codici ma, in linea con la nota polemica sulla necessità o meno di una co- dificazione in Germania tra il favorevole Thibaut e il contrario Sa- vigny, con il sistema degli istituti e dei principi del diritto romano (il nome della scuola fa riferimento alle Pandette di Giustiniano) attua- lizzati sulla base delle esigenze moderne della scienza giuridica93.

Viene da chiedersi, sempre ai fini di una maggior comprensione del diverso ma successivo fenomeno dell’uso alternativo del diritto, co- sa intendesse, all’epoca, la dottrina giuridica nel definirsi “scienza giuridica” e come il secondo assunto, ossia l’avalutatività di essa, si colleghi al primo, ovvero a quello relativo alla immagine di stato e diritto in termini apolitici e neutrali.

Significativo a tale riguardo l’intitolazione del paragrafo dedicato alla definizione di “scienza giuridica” propostaci da Cesare Donati nel suo Dizionario critico del diritto94: «Il problema».

In effetti la autodefinizione della dottrina giuridica come scienza del diritto è un problema, in primis perché si fa riferimento alla “scien- za” e, nonostante l’ambiguità e la vaghezza del termine, ciò signifi- ca che il lavoro dei giuristi consisterebbe in una attività meramente conoscitiva, e quindi assolutamente non creativa, di un ente (il dirit- to) a loro precostituito, preesistente. Se si ricerca un ideale che ha accompagnato la cultura giuridica moderna, questo può rinvenirsi sicuramente nel concetto di “scienza”, ossia in questa “ossessione di scientificizzare” i propri metodi, risultati, di rendere certi i percorsi di produzione e conoscenza del diritto.

L’idea della neutralità dello Stato e della separazione tra diritto e politica traggono la loro legittimazione proprio dal paradigma della

92 In realtà, come evidenzia anche Tarello, i protagonisti di tale scuola sono, oltre a Savigny, anche Gustav Hugo e Georg Friedrich Puchta. Si veda G. Tarello, Cultura giuridica e politica del diritto, Bologna, Il Mulino, 1988, pp. 103 ss. 93 M. Fioravanti, Giuristi e costituzione politica nell’Ottocento tedesco, Milano, Giuffrè, 1979.

94 C. Donati, Dizionario critico del diritto, Milano, Savelli Editori, 1980, pp. 363 ss.

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scientificità, che è anche il paradigma della figura del giurista che la cultura giuridica dell’epoca rinveniva nella sua stessa tradizione, os- sia nella figura del “giureconsulto” romano. Tuttavia non si trattava della semplice riproposizione di tale figura95, bensì di una “precisa

operazione meta-politica”96 volta ad avallare come “scientifiche” le

operazioni compiute dai giuristi nella costruzione delle immagini suddette di Stato e di diritto. Ecco perché, in realtà, l’effetto di legit- timazione era reciproco, poiché da un lato il diritto e lo stato veni- vano considerati come neutrali e apolitici proprio perché assunti dal- la scienza giuridica, mentre dall’altro lato la dogmatica giuridica, ossia il sistema di concetti (dogmi) entro i cui schemi era inquadrata la realtà per poterle dare una congrua disciplina giuridica, veniva accreditata come scienza perché rappresentazione e, per l’appunto, “sistematizzazione”97 di un tutto naturalizzato. Questa legittimazio-

ne scientifica aveva delle forti implicazioni politiche anti-illuministe perché le consentiva di svolgere un ruolo di difesa e di legittimazio- ne dello Stato quale che fosse, essendo quest’ultimo considerato come un’entità naturale98, ma le permetteva anche una difesa della

cultura giuridica stessa dalle invadenze della politica e persino, du- rante il fascismo, dalle vocazioni totalitarie di quel regime.

Occorre aggiungere e sottolineare che il ruolo apparentemente ava- lutativo della scienza giuridica “tradizionale” è stato anche favorito da una sua caratteristica specifica, ossia la tecnicità. L’attributo in- contestabile del tecnicismo, e quindi l’inaccessibilità di tale disci- plina ai non esperti di diritto, contribuiva a separarla non solo da al- tre discipline non giuridiche (la sociologia, lo politologia ecc) ma dall’intera cultura generale.

95 Essi potrebbero essere definiti come i costruttori di concetti e sistemi: ad esempio la costruzione pandettistica del concetto di “negozio giuridico” o del “diritto soggettivo”. L. Ferrajoli, La cultura giuridica nell’Italia del Novecento, op. cit., p. 17.

96 L. Ferrajoli, op. cit., p. 10.

97 Termine frequentemente utilizzato da Savigny e dagli altri esponenti della Scuola storica del diritto. Si veda a tale proposito K. Larenz, Storia del metodo nella scienza giuridica, Milano, Giuffrè Editore, 1966, pp. 5-16.

98 Significativo, a tale riguardo, il riferimento alla prolusione palermitana del 1889 di Vittorio Emanuele Orlando, da parte di L. Ferrajoli, op. cit., p. 11. V. E. Orlando conferì espressamente all’allora nascente dottrina del diritto pub- blico questo ruolo di difesa e di sostegno dello Stato unitario, da poco formatosi.

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Questo isolamento culturale e politico, capace tuttavia di esprimere una cultura egemone nel ceto politico, spiega la straordinaria capa- cità di resistenza della scienza giuridica ai continui mutamenti poli- tico-culturali. Scriverà Salvatore Pugliatti99, nel 1948:

«Tra soste e riprese, proprio la scienza giuridica, tra i marosi delle critiche e delle polemiche, è quella che ha meno risentito dei rivol- gimenti che si sono prodotti negli altri campi del sapere. Essa, infat- ti, ha operato quasi in un territorio cintato, preservandosi da ogni in- fluenza esterna: ha mantenuto un carattere dogmatico, ma ha con- quistato una considerevole capacità di resistenza».

La conferma di ciò si può trarre dalla celebre disputa accademica tra Benedetto Croce e Pietro Bonfante100, instaurata a seguito del duris-

simo attacco del primo a una prolusione romana del 1917 da parte del secondo, in cui quest’ultimo aveva rivendicato il ruolo di unifi- cazione nazionale operato dall’insegnamento del diritto romano. In realtà non si trattava di una semplice diversità di vedute, ma di un vero e proprio scontro per l’egemonia culturale, giuridica o filosofi- ca, nella formazione del ceto politico e burocratico. Croce aveva brillantemente intuito che la cultura giuridica era la cultura domi- nante delle élite dirigenti e che ciò era dovuto sia alla sua pretesa di scientificità, sia alla sua di fatto tecnicità e, quindi, separazione dalla cultura stessa.

C’è però anche un altro aspetto, contenutistico, da analizzare quan- do si fa riferimento al termine scienza giuridica, ossia l’interpretazione. Ad essa rimanda Vittorio Frosini101, parlando del

significato specifico (o forte) di scienza giuridica: il diritto come scienza è l’insieme dei concetti e delle regole interpretative organiz- zate in un sistema, il quale “è materia dello studioso di diritto come tale”. È questo il punctumpruriens della questione sulla neutralità e apoliticità fino ad ora trattati. Come si deduce dal già citato inter- vento di Tarello al Convegno, è l’interpretazione lo strumento ado- perato dalla scienza giuridica per “mascherare” il ruolo politico da

99 S. Pugliatti, Diritto civile. Metodo-Teoria-Pratica. Saggi, Milano, Giuffrè, 1951, p. 693; L. Ferrajoli, op. cit., p. 13.

100 A. Schiavone, Stato e cultura giuridica in Italia dall’unità alla Repubblica, Roma-Bari, Laterza, 1990, pp. 288 ss.

101 V. Frosini, Teoremi e problemi di scienza giuridica, Università di Catania- pubblicazioni della facoltà di giurisprudenza, Milano, Giuffrè Editore, 1975, p. 13.

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essa svolto nel panorama istituzionale di una data società. Occorre premettere che Tarello fa riferimento alla attività interpretativa del “giurista-interprete”102, non solo perchè ciò risulta coerente con la

scelta degli organizzatori del Convegno di non presentare in manie- ra nettamente separata la dottrina dalla magistratura, ma anche per- ché il tema della funzione politica dell’interpretazione e i protagoni- sti di essa hanno, come punto di riferimento particolarmente signifi- cativo, le materie che sono state storicamente, in seguito alle codifi- cazioni liberali, demandate alla magistratura ordinaria: il diritto civi- le, penale, commerciale e le procedure.

Pur essendo vero ciò, esistono delle differenze. Si riprenda, a titolo esemplificativo, l’attacco mosso da Croce. Egli aveva intuito come la scienza giuridica fosse capace di influenzare il ceto dirigenziale e, alle volte, addirittura anche quello giudiziario.

Ma qual è, quindi, la nozione tradizionale di interpretazione diffusa dalla cultura giuridica a partire dall’Ottocento e a cui la stessa magi- stratura dovette soggiacere fino per lo meno alla seconda metà degli anni sessanta? Quella che connota l’interpretazione come un proces- so mentale avente solo un valore conoscitivo (e non normativo) per il quale data una norma, di cui si “postula” la validità, si perviene alla comprensione del suo significato103. Chi interpreta una norma ha, quindi, come obiettivo non quello di prescrivere qualcosa, di in- fluire su un comportamento, ma solo quello di descrivere, conoscere qualcosa. Alla base di ciò vi è la convinzione che la norma preesista all’interprete e si ponga dinanzi ad esso come un oggetto. È, quindi, una concezione oggettualistica della norma, radicalmente opposta a quella che sarà la concezione “alternativa” di essa. Da ciò deriva anche l’affermazione secondo la quale il lavoro del giurista si re- stringerebbe all’osservazione, e poi descrizione, non di fatti ma di parole, di quegli enunciati linguistici di cui le norme sono costituiti. La parola costituirebbe, in sostanza, l’oggetto stesso della scienza del diritto104. Seguendo tale concezione l’interpretazione, ossia il ri-

102 G. Tarello, “Orientamenti della magistratura e della dottrina sulla funzione politica del giurista-interprete”, in L’uso alternativo del diritto, op. cit., vol. I, pp. 62-63.

103 C. Donati, op. cit.,pp. 190-192. Si veda anche N. Lipari, “Il problema dell’interpretazione giuridica”, in Diritto privato. Una ricerca per l’insegnamento, Roma-Bari, Gius. Laterza & Figli Spa, 1974, pp. 71 ss.

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sultato dell’operazione mentale dell’interprete, diviene verificabile: può essere vera o falsa. È vera se si impiegano correttamente certi canoni, cosicché si arrivi ad una coincidenza tra ciò che il giurista “ha fatto dire” alla norma e ciò che la norma, rectius il legislatore, “intendeva dire”105. E ciascuna dottrina dell’interpretazione privile-

gia alcuni di questi canoni a discapito di altri.

Tarello, a tale proposito, fa riferimento alle due principali dottrine dell’interpretazione, affermatesi a partire dagli inizi del secolo XIX, le quali fungeranno da modello per le dottrine successive: la Scuola dell’Esegesi e la già citata Scuola storica del diritto.

Con riferimento alla prima106, celebre è l’espressione del giurista Jean-Joseph Bugnet:

«Io non conosco il Diritto civile, io insegno il Codice Napoleo- ne»107.

Persuasi dell’idea che le codificazioni costituissero una sorta di spartiacque tra l’oggetto della conoscenza storica e quello della co- noscenza giuridica, l’opera dei giuristi di questa scuola consisteva, infatti, nella spiegazione ed interpretazione del Codice Civile napo- leonico. Le norme giuridiche venivano viste, quindi, come il riferi- mento centrale ed obiettivo dell’interpretazione, in quanto ciascuna di esse era portatrice di un suo peculiare contenuto, che l’interprete doveva limitarsi a “scoprire”. Di conseguenza tale scuola affermò come canone per la “vera” interpretazione quello della massima aderenza al testo del documento o interpretazione letterale della leg- ge, rectius della legge codificata.

«Il primo motto, la mia professione di fede, è: i testi prima di tutto! »108.

Si parlò di teoria formale dell’interpretazione proprio per indicare il fatto che le norme dovessero essere interpretate secondo la lettera della legge. In tal modo l’interprete si trovava in una posizione me- ramente passiva rispetto alla volontà del legislatore. Sempre a tale proposito si osserva, infatti, come i giuristi di questa scuola preve-

105Ibidem.

106 Per un’analisi accurata, anche dal punto di vista dell’ideologia della scuola, si veda G. Tarello, Cultura giuridica e politica del diritto, Bologna, Il Mulino, 1988, pp. 69-101.

107 G. Tarello, op. cit., p. 84.

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devano anche un canone sussidiario, da applicare nei casi in cui l’utilizzo dell’interpretazione letterale avrebbe provocato contraddi- zioni “apparenti”, in quanto si riteneva il sistema giuridico completo e, quindi, privo di lacune: la spiegazione secondo le intenzioni del legislatore storico, sulla base dell’analisi dei lavori preparatori e del- le discussioni svolte in sede di formulazione e di deliberazione delle leggi.

In quest’ottica, e per ciò che concerne le tecniche interpretative, os- sia quelle tecniche utilizzate per dare la preferenza a una certa inter- pretazione piuttosto che ad un’altra, gli esegeti utilizzarono vari ar- gomenti, coerenti per l’appunto con il metodo interpretativo suddet- to. In primis utilizzarono l’argomento a contrario, cioè in ipotesi di caso non espressamente regolato dal legislatore, questo andava in- terpretato in modo difforme, opposto rispetto a quello regolato. A questo si collega l’argomento della completezza del codice, con l’assunzione della regola della liceità del non espressamente vietato e del ricorso all’analogia, intesa come procedimento logico volto a trarre dalla norma giuridica dettata per una caso simile la disciplina di un caso non previsto, in funzione di auto-completamento del si- stema109. Infine gli strumenti che si riferiscono a pretese qualità psi-

cologiche dei legislatori, ossia l’argomento della coerenza, utilizzato per evitare la formazione di antinomie, e quello economico, cioè non ripetitivo, ridondante.

Oltre agli aspetti già delineati, vi è un altro elemento a questi intrin- secamente connesso, che sarà utilizzato come punto di partenza dai giuristi alternativi per le critiche a questo modo di “fare” scienza del diritto.

Infatti, presso i giuristi della scuola dell’esegesi, il ragionamento giuridico si presentava in una veste rigidamente sillogistica, sul mo- dello descritto, nel Settecento, da Beccaria. I riferimenti ai casi con- creti, siano o meno oggetto di sentenze, venivano descritti nei ter- mini degli articoli dei codici, rectius secondo gli indici di qualifica- zione e i termini di linguaggio utilizzati nelle norme ivi contenute. Essi non erano, quindi, la rappresentazione del conflitto di interessi reale, ma venivano semplicemente considerati come premesse mi- nori di sillogismi, aventi come premessa maggiore una singola di-

109 N. Lipari, op. cit., p. 73.

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sposizione o una combinazione di più disposizioni110 e, come con-

clusione giuridica, l’attribuzione al caso concreto delle conseguenze giuridiche stabilite nella premessa maggiore.

Questo modello viene definito logico-deduttivo, in quanto la pre-